Blog di Marco Castellani

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Il telegrafista ed il meeting…

Quello che emotivamente mi colpisce, mi muove subito qualcosa, è l’accenno alla canzone Giovanni Telegrafista che è presente in due begli articoli sull’imminente Meeting di Rimini, una intervista a Giorgio Vittadini del 17 agosto e un suo pezzo apparso il giorno successivo, cioè oggi (entrambi su Il Sussidiario).
Del Meeting  – dirò subito – se ne parla in moltissimi posti, dunque è forse inutile aggiungere altre parole se non, forse, scegliendo una tonalità emotiva, affettiva, che allacci questa manifestazione con la storia di chi scrive, in una sorta di intreccio “virtuoso” per cui la storia interna e personale illumina quella esterna e sociale – come quella di una manifestazione così grande – e viceversa. 
Ecco perché articolo questo pezzo sul Meeting a partire da una osservazione apparentemente marginale,  come il rimando alla canzone di Jannacci. Non penso sia tanto marginale per Vittadini, che appunto la ripropone a breve distanza in due occasioni (trattasi a mio avviso di una celeste ripetizione, che rallegra, come certi passaggi nella musica di Bruckner). 
E’ un messaggio, mi dico, è un punto importante, per lui. Cerco di capire, allora. Ritorno alla canzone, al testo, alla musica. E’ una canzone in cui l’urgenza del cuore, quella incredibile nostalgia che abbiamo tutti in fondo al cuore – che quando affiora ci stordisce, ci confonde, quanto è potente – quella urgenza viene esplicitata, cantata, senza finzioni. Vien minuziosamente descritta, con la poesia malinconica ma efficacissima che solo uno come Jannacci poteva avere, e con una meravigliosa sintesi. 
Giovanni telegrafista e nulla più… urgente.
Mi conforta proprio tanto questo accenno, questo ripetuto rimando ad un brano dove il grido del cuore è così scoperto, così “indifeso” e non si nasconde, come avviene in troppi discorsi, troppe volte. Mi conforta sul fatto che il Meeting, che ho visitato varie volte e Deo concedente vedrò anche in questa occasione, non è – prima di tutto – una questione di politica o economia o cultura, in senso astratto, o nemmeno di religione: è essenzialmente una questione di cuore.
Mi conforta, dicevo, perché più vado avanti nella vita, più le altre cose, gli altri temi, non mi interessano. O meglio, mi interessano nella misura in cui dialogano con questo cuore lacerato, scoperto, che è sempre il cuore dell’uomo. Chi non dialoga con questo cuore, di qualsiasi cosa parli, sia un laico o un prete o un presidente del consiglio, è un mentitore. Nella misura in cui non dialoga con il cuore, lui mente, disperde parole inutili, non aiuta, non conforta. 
Il grido del cuore di Giovanni (il telegrafista) l’ho sentito già molti molti anni fa, da piccolino. Mio papà non ascoltava molta musica “leggera”, ma aveva una predilezione speciale per due cantautori: Fabrizio De Andrè (quante volte l’ho visto ascoltare quasi religiosamente  il disco La Buona Novella) ed Enzo Jannacci. Ho imparato a rispettare questi due artisti, tramite il rispetto che aveva per loro mio padre, che assorbivo da lui. 
Mio papà aveva questo 45 giri (di tonalità verdina ricordo, nella zona interna ai solchi), con due canzoni, come consuetudine per questi piccoli dischetti, uno per lato: Vengo anch’io da una parte, e appunto Giovanni Telegrafista sul lato opposto. La prima la conoscono quasi tutti, è una canzone orecchiabile e svelta, piena dell’umorismo più solare di Jannacci, una canzone che anche a me bambino divertiva moltissimo. Chissà, forse è per questo che il disco era finito nella mia collezione, che per lo più era composta dai dischi delle Fiabe Sonore, quella bellissima collezione che ascoltavo e riascoltavo, nel mio mangiadischi di colore rosso (con una striscia bianca nella parte anteriore). 
Se Vengo anch’io scorreva così, con questa deliziosa e irriverente leggerezza, il lato opposto era sorprendentemente diverso. La canzone Giovanni Telegrafista si percepiva da subito, aveva una nota dolente, uno struggimento così ben trasmesso dalla voce di Enzo. A ripensarci mi viene la pelle d’oca, anche senza riascoltarla. 

Giovanni telegrafista e nulla più,
stazioncina povera c’erano piu’ alberi e uccelli che persone
ma aveva il cuore urgente anche senza nessuna promozione
battendo, battendo su un tasto solo…

Non capivo quasi niente, non comprendevo la storia raccontata (e forse non mi sforzavo nemmeno di farlo, a quell’età), ma questo senso di struggimento così profondo, quello mi arrivava comunque al cuore, mi parlava anche senza la comprensione del messaggio verbale, anche assai prima della sua piena fruizione. L’intreccio della voce di Enzo e della musica, compiva questo miracolo di comunicazione. Sento che ancora lo compie, a distanza di molti molti anni. 
Questo struggimento, ora mi accorgo, non è un’emozione fine a sé stessa, non è inutile. Perché parla del primato del cuore, dell’irriducibilità dell’esigenza di essere felici, di essere compiuti, oltre ogni accadimento esterno. Nelle comunicazioni di Giovanni infatti passano le cose del mondo,  “passò prezzo caffé passò matrimonio Edoardo VIII  oggi duca di Windsor, passarono cavallette in Cina,  passò sensazione di una bomba volante…” ma quello che lo colpisce, che lo inchioda che lo fulmina, è la notizia di Alba, della “sua” Alba. Quello che si intravede come compimento del cuore vince su tutto, sorpassa ogni cosa, se solo siamo sinceri con noi stessi.
Riconoscere questo, è a volte doloroso, ma liberante. Il cuore non è un accidente scomodo, da mettere da parte al più presto, è una risorsa da conoscere, da riconoscere. E’ il punto sacro che ci rende umani. 
Come ha detto Juliàn Carron ai partecipanti alla Macerata-Loreto, quest’anno, 

 “noi siamo sete di vita e non ci accontentiamo finché non troviamo ciò che la sazia. Possiamo fare di tutto per mettere a tacere il cuore, possiamo perfino pensare di essere sbagliati non essendo mai soddisfatti da quello che troviamo, e invece questo è proprio il segno della nostra grandezza.”

Ecco, questo cuore così pulsante nella canzone di Jannacci, questo cuore riconosciuto e da riconoscere, sempre e di nuovo, è al centro gravitazionale del Meeting: lo capisco proprio dai riferimenti continui di Vittadini. Lo capisco e mi conforto, mi tranquillizzo, mi rallegro. Sono contento che esista un posto così, che esista una storia così. 
Voglio andare a vedere, allora. Voglio portarmi il mio Giovanni, quello della mia infanzia, quello legato al ricordo di mio padre (e ricordo che Jannacci lo intravidi di persona solo una volta, ed era proprio al Meeting…). Voglio portare il mio cuore e farlo respirare, farlo espandere e farlo sentire riconosciuto. Un lavoro di ogni giorno, anzi il lavoro di ogni giorno. Per cui ogni occasione valida bisogna sfruttarla, per cui il senso di andare a vedere diventa quasi urgente. 
Come quell’urgenza di Giovanni, né più né meno.

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Quel ritmo delle cose

Di solito non mi piacciono molto le varie riedizioni “deluxe” dei dischi di qualche tempo fa. I dischi con i quali sono cresciuto, praticamente. Li conosco in un modo, li conosco così e non mi fa impazzire che tu, cara mia casa discografica — per simulare qualcosa di diverso, per farmi pensare che questo mi manca, lo compro — mi aggiunga un CD al CD che già ben conosco, rappezzando in studio tutte le prove lasciate (giustamente) come prove dagli stessi musicisti. Proprio quelli che, che grazie al cielo e alle sue stelle, hanno trovato una soluzione migliore per un pezzo, un arrangiamento, qualcosa insomma. E giustamente, sono andati avanti.
Questo è. E sicuramente non sono il solo a pensarla così. Però ammetto anche che ascoltare di queste “prove” a qualcosa serve. Ti fa capire molto. E ti fa capire molto oltre la musica, molto oltre le canzonette (qui con Bennato, proclamo con solennità che sì, che sono solo canzonette, metto platealmente le mani in avanti, in modo da sottrarmi fin da subito ad ogni ammuffito e prevedibile dibattimento sulla “grande” musica e sulla musica “commerciale”).
Tanto per spoilerare me stesso e dove andrò a parare: ti fa capire che ogni opera è (solitamente) una costruzione, una lenta costruzione. Che ogni diamante nasce dalla terra, parte con due o tre idee, due schizzi sul foglio. Parte piccolo, (molto, molto) perfettibile. Questo me lo devo ricordare. Me lo devo proprio ricordare, quando inizio a scrivere qualcosa e mi sembra intollerabilmente incompleto e precario. Mi devo ricordare di non smettere, di lavorarci, di lavorare. Di starci.
Devi starci, come con tutto. Scappare non vale, non paga.

Però adesso torniamo indietro, a dove l’ho capito (con la testa l’avevo già capito da un pezzo, purtroppo con la testa e basta non si capisce niente per davvero, niente di ciò che conta).
Questa qui è la versione che ho sempre ascoltato, di una canzone splendida, con un testo altrettanto splendido. Mi sono sempre chiesto, tra l’altro, come hanno fatto questi ragazzetti norvegesi, negli anni ottanta, a comporre una cosa così, a scrivere una cosa così.


E poi qualche giorno fa, insomma, dopo una lunga storia di amore con questo disco e soprattutto questa canzone, mi sono ascoltato quasi per caso, su Spotify, la Demo #3 della canzone.

E allora ho capito.
Insomma qui la canzone c’è già, c’è tutta. Ma manca qualcosa di essenziale. La chitarra è molto più consueta, più ascoltata: vorrebbe graffiare, essere aggressiva, ma è abbastanza innocente. La canzone va, ma non c’è quel quid che la rende speciale, insostituibile, unica. La tastiera fa quel giro armonico (o come si dice) che è molto più inoffensivo. Ecco, quello definitivo è molto più asciutto, ed è sparato subito all’inizio del brano. E’ la vera cifra risolutiva di tutto, e ti viene presentata subito. E’ essenziale, come il testo è essenziale, senza orpelli. Ecco, è come se dalla demo avessero scavato via tutto quello che era inutile, era decorativo, come se avessero portato alla luce quello di bello che c’era già, dentro. C’era dentro, ma era come coperto, reso appunto più inoffensivo, meno capace di mordere, di colpire.
Però a questo punto, mi viene anche l’idea che magari a voi degli a-ha non vi importa moltissimo. E’ possibile, sì. Ritengo, sebbene un po’ a fatica, che sia possibile. Allora volevo dare un tono un po’ più generale al post (se ancora qualcuno mi sta dietro).
E’ che da questa demo si percepisce carnalmente (e non intellettualmente, lì son buoni tutti) una cosa generale, in effetti. Per cui forse vale la pena scriverne.
Che una cosa bella, davvero bella, usualmente non piove dal cielo già bella e pronta. Che magari, invece, parte in tono sommesso, mischiata a tanti errori, tanti giri decorativi, inutili, aggiustabili, migliorabili. E poi, scavando, lavorando, lavorandoci, assume quella fisionomia inconfondibile, perfettamente imperfetta, dolcemente, docilmente definitiva nel suo ambito.
E dici, finalmente dici: ecco, è questa.
Che è perfettamente integrata nel suo tempo, che risuona del suo tempo, anche. E’ lì dove deve essere. Per dire, nelle demo di The Wall, procedendo verso la versione definitiva, c’è come in filigrana, come in presa diretta, il passaggio esatto dagli anni ’70 agli anni ’80. Nell’arrangiamento, l’intonazione, tutto. Andate a sentirle, è stupefacente. Un mondo che cambia, come fotografato in musica. Ma questo sarebbe già un altro discorso, da approfondire un’altra volta.
Insomma, quel ritmo delle cose, per restare nel titolo del brano di cui si parlava, si acquisisce, si trasmette, non d’improvviso, ma con un lavoro umile, semplice. Con una dedizione tranquilla, nei giorni. 

“È dalla terra, dalla solidità, che deriva necessariamente un parto pieno di gioia e il sentimento paziente dell’opera che cresce, delle tappe che si susseguono, aspettate quasi con calma, con sicurezza. Occorre soffrire perché la verità non si cristallizzi in dottrina, ma nasca dalla carne.” (Emanuel Mounier)

Nel tempo, tutto avviene nel tempo.
Anche una canzone.

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Quella sua maglietta fina (e ciò che contiene)

Che poi, è una canzone che davvero conosciamo tutti. L’incipit è diventato così famoso che non ha bisogno di alcuna presentazione. La maglietta fina ha fatto sognare (ed immaginare) ormai generazioni di persone.
Sì. Sto parlando di Questo piccolo grande amore, la celeberrima canzone inclusa nell’album omonimo, di Claudio Baglioni. Siamo lontani lontani, lontanissimi da oggi: indietro rapido, fino all’anno 1972. Tra parentesi, anni interessantissimi per la musica di matrice pop/rock. Basti ricordare che i Pink Floyd, questi quattro ragazzi inglesi, hanno appena rilasciato roba del calibro di Atom e Meddle. Così, tanto per dire. Insomma, anni di fermenti, di ipotesi di rinnovamenti, di innovazioni. Di (vagheggiate) rivoluzioni, anche.
Copertina decisamente anni ’70, tra le altre cose…

Ed eccoci al nostro.
Diciamo subito. Un album strano, decisamente interessante. Che non avevo mai sentito, fino a poco tempo fa. Del resto, va così: se sei abbonato ad un servizio di streaming può capitare che vai a cercare un album, così, giusto per curiosità. In questo caso, per il gusto di per capire cosa c’è intorno ad una canzone celebre. E scopri un mondo, magari.
Intanto, un concept album (come, Baglioni, un concept album?), sviluppato attorno ad una storia, per quanto semplice. Epperò, un vero concept, con espressioni, frasi, cellule musicali, che attraversano le canzoni e si ripropongono, a volte in contesti diversi, con sfumature differenti. C’è un lavoro piuttosto buono che lega le canzoni, amalgama i contesti — e si sente.
Curioso che di questo album si ricordino adesso appena un paio di canzoni — essenzialmente la title track e Porta Portese — mentre altre godibilissime, come ad esempio Cartolina rosa, o altre veramente particolari, decisamente anomale per il Baglioni che conosciamo, come Battibecco oppure Che begli amici!… siano comunque completamente (meritatamente?) obliate.
Ma vorrei dire, strano ancora di più che una canzone dolcissima, struggente, emozionante, poetica nel senso più compiuto, come Io ti prendo come mia sposa non passi per radio, un giorno sì e un giorno no.

Una canzone che affonda totalmente nel mistero dell’innamoramento, nel mistero profondissimo dell’attrazione tra due persone, che diventa quasi sacra di per sé. Perché è un mistero della natura e della vita, mai completamente indagato, mai declinabile in un discorso razionale. Qualcosa di cui si stupiscono le stelle.
Ma la cosa ancora più strana, e forse divertente, è che la title track — ascoltata in modo avulso dal contesto— venga sistematicamente fraintesa, per una ambiguità del testo, forse, ma anche per una ignoranza delle condizioni al contorno. Ovvero di quello che precede e quello che segue.

Io stesso mi sono accorto che per anni e anni l’ho fraintesa. Appunto. Perché niente, uno la sente così, la intende come la descrizione nostalgica di un amore finito, concluso. E non ha capito nulla. Non è niente di questo. Ascoltate l’intero album: è appena che il protagonista, durante il servizio militare, rievoca il periodo felice passato con la sua ragazza, la sua attuale ragazza (o almeno, lui così pensa).
E noi tutti ancora oggi canticchiamo adesso che / saprei cosa fare / adesso che / saprei cosa dire… come se fosse qualcosa che non c’è più. Come un rimpianto, un rimorso per essersi fatti sfuggire qualcosa. E invece c’è (e già non c’è più, forse, ma questo senza fare troppo spoiler).
Che poi, come stanno le cose tra lui e lei, o meglio, cosa ha vissuto lei quando lui era in caserma, si capisce di schianto nell’ultima folgorante strofa di Porta Portese.

Ecco. Questa per me è realmente un piccolo capolavoro.
Sì, spendo questa parola impegnativa, ma non saprei trovarne un’altra.
Per come viene tratteggiata — a sapienti schizzi di colori — una descrizione del celebre mercato romano, di questi piccoli quadretti (anche amabili), che fan sorridere (C’è la vecchia cha ha sul banco / foto di Papa Giovanni, /lei sta qui da quarant’anni o forse più… oppure …le patacche che ti ammolla quello là. / Ci ha di tutto pezzi d’auto / Spade antiche quadri falsi / E la foto nuda di Brigitte Bardot…). Ma anche e soprattutto, per come — in questo quadretto apparentemente svagato e scanzonato — piomba come un fulmine a ciel sereno l’ultima strofa, Quella lì non è possibile che è lei… (non vi dico di più per non rovinarvi la sorpresa di un ascolto, se non lo sapete già). E la musica segue in modo mirabile la variazione di atmosfera, il cambiamento di sapore che improvvisamente assume il brano.
Tanto non te l’aspetti, tanto pensi di aver capito che il pezzo è appena un brano di descrizione d’ambiente tipico romano (sia pur ben confezionato) che corri il rischio di farti sfuggire il fatto che sei ancora totalmente dentro la storia.
E in una storia, come si sa, c’è questa faccenda: succedono cose.
E infatti. Dall’ultima strofa di Porta Portese c’è la virata del disco, su altre coordinate, altri sapori, incontri, rimpianti, nostalgie. Su un altro insieme di autovalori che la prima parte, giustamente, non contemplava.
Tanto che, nella versione estrapolata dall’album, scopro che l’ultima strofa semplicemente non c’è. Non troppo strano, alla luce di tutto.
Ci sarebbe tanto da dire, naturalmente. Quanto ti voglio, nella sincerità assai poco di maniera, quasi un Odi et Amo moderno, ma peculiarmente apparentato al carme del poeta latino, nella sua coloritura globale. E Piazza del Popolo, con cui si apre il disco ci porta prepotentemente negli anni settanta e nei sui fermenti, anche se qui è appena un pretesto, un escamotage per dare l’avvio ad una storia, che ha indubbiamente connotati molto più intimistici che sociali o politici.
E tanti altri scampoli, il rapporto con i genitori, con gli amici.
E su tutto, la vera protagonista.
Eh sì. Perché te ne accorgi dopo un po’. La vera protagonista è lei. Non la ragazza dalla maglietta fina, no. La vera protagonista è Roma, lei è la vera signora al centro della scena. Un centro quasi defiliato, non invasivo, ma richiamato, punteggiato costantemente da una serie di rimandi, oltre a Porta Portese, Stazione Termini, Piazza del Popolo, ad esempio. E molto altro, anche se appena accennato, anche se nemmeno compiutamente descritto.
Questa è una storia in Roma. E una storia in Roma è sempre una storia di Roma, inevitabilmente.
Così’ che me lo fa ancora più caro, questo bell’album.
Coraggioso, deliziosamente imperfetto.
Vero.

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Fare casa

Fare casa, scegliere un posto che ti piace. Iniziare ad arredarlo come preferisci. Ecco, qui ci sei tu, ci sei solo tu. Cioè, la scelta è tua. Tu devi solo dire se ti ci trovi bene, se ti piace. Se ti va di portarti i tuoi libri (Jung, Joyce, Davide Rondoni, e tutto Andrea de Carlo, a prima botta direi), i tuoi dischi (ci mettiamo, intanto, tutto quanto Battisti, ovviamente: primo e soprattutto secondo periodo), i tuoi film (Stregata dalla Luna, Jerry Maguire, Love Actually, ma subito subito, poi vediamo), insomma le tue cose più care. Quello che definisce chi sei, quello che ritaglia un tuo contorno, di fronte al mondo.
Se definisci un contorno, definisci un ambiente in cui ti riconosci e ti ritrovi, arrivi a considerare che tutto sommato sei unico, non sei appena una fotocopia di mille altri. E allora, finalmente, puoi iniziare a rilassarti. Senti che c’è un motivo per cui sei qui. Senti che questo ambiente è così irresistibilmente tuo che nessun altro lo avrebbe mai costruito così.
Senti, all’inizio un po’ timidamente, che ti puoi rilassare, ti puoi un po’ sdraiare in questa tua unicità.
Del resto, pensaci: quand’è che non respiri, che ti senti soffocare? Quando ti senti preso in un ingranaggio per il quale tu sei un’unità impersonale, sei un numero, sei alienato da te stesso, corri e lavori e produci ma non sai più perché. Quando il tuo sapore unico si stempera, si slava. Tenti di essere così pulito e stereotipato che non sai più di niente.
Pulito, sì. Perché avere un ambiente, una casa, è fare anche pace con le tue granulosità, le tue imperfezioni. Perché comunque riverberano i tuoi colori, sono così tue che nemmeno te ne rendi conto, di quanto di meraviglioso trattengono. I tuoi colori, i tuoi odori, il fatto che sei tu, passa attraverso di queste, in modo non trascurabile.
Tu devi tornare tu, unico al mondo. Adesso.
A volte non sono necessarie svolte decisive, drastiche. A volte basta iniziare a fare casa. O meglio, riprendere a fare casa. Perché secondo me è una cosa spontanea, è un movimento costruttivo e creativo della mente, che può avvenire se appena c’è calma abbastanza.
D’accordo, può servire una tecnica, un’ordine, un cammino. Magari fa bene un po’ di meditazione, qualche respiro profondo. Ogni tanto sì, ogni tanto ci vuole: meglio se con regolarità (ma senza perfezionismi). Magari anche cinque minuti al giorno, appena. Come un gioco, un gioco di casa.
Ah sì, quasi dimenticavo: nella mia casa ci va un cuscino da meditazione e un tappetino. Giusto.
L’idea, insomma, è ritornare a coltivare i propri pensieri tranquilli. Che inevitabilmente pescano in quella zona sacra costituita dalle nostre più vere passioni, delle nostre inclinazioni creative. Da ciò per cui siamo qui al mondo, potremmo anche argomentare (volendo scomodare tematiche “alte”).
Ma torno alla casa, al piccolo e al riparato.
Fare casa è anche (e forse soprattutto) allestire un angolino immaginario dentro di sé. Niente muove il sentimento e il cuore più che una cosa immaginata con la massima libertà e niente coinvolge più di un gioco.
Niente è più serio e con più conseguenze dei pensieri che lasciamo circolare nella nostra testa. I pensieri esistono, cambiano le cose, colorano la realtà. Coltivare un buon rapporto con i pensieri è un atto di amore personale altissimo (ed anche di grande altruismo).
Uhm. Vengono fuori temi alti, di nuovo qui. Ma voglio cercare di riportarmi al piccolo, al riparato, a ciò che scalda nel nascondimento, nel riparo caldo mentre fuori è freddo. Insomma voglio articolare variazioni su un tema deliziosamente autunnale.
Ecco. Fare casa è — appunto— anche e soprattutto un esperimento mentale, è allestire un angolino della mente con le cose più tue, più personali. Ho scoperto che ti ci puoi rifugiare, quando fuori sembra freddo. Non serve mica muoversi fisicamente. Basta tornarci con la mente, volerlo fare, volersi bene tanto da rinunciare per un po’ alle immagini negative e di autosvalutazione, e permettersi di coccolare quei riverberi buoni, tranquilli, calmi. Di qualcosa o di qualche progetto che possiamo far crescere lentamente, magari. Di quel momento bello vissuto, che ci riscalda ancora. Di quel sorriso imprevisto, di quella ragazza incrociata in metropolitana, o magari di quella vecchina un po’ acciaccata ma con quegli occhi luminosi, aperti, buoni. Un sorriso gratis, di pura cordialità umana.
Con le mie cose più tranquille nella testa, come direbbe Alex Britti, insomma (canzone che, sia detto di passaggio, trovo decisamente terapeutica).

Io credo che oggi c’è un grande bisogno di fare casa, di rilassarsi, prima di tutto. Come poi nella canzone di Alex (il cui testo meriterebbe peraltro una esegesi minuziosa), potresti scoprire che in atto in primo (superficie) moto d’animo avresti detto egoistico, è invece il principio fondante del vero altruismo.
Insomma. Come vuoi essere utile agli altri se sei perennemente fuori da te stesso, se sei perennemente fuori casa?
Costruisci casa. Tornaci quando ti capita d’esserti perso, e farai un favore a tutti. Ma proprio a tutti (e te ne accorgerai). Perché emetti delle onde buone, da qui fino alle stelle.
E inizi perfino a cambiare il mondo, con tuo grandissimo stupore.

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Musica e rivoluzione

Cosa vuol dire rivoluzione? Cosa ha voluto dire per noi, in Italia, negli ultimi decenni del secolo scorso? Cosa vuol dire adesso? E soprattutto, innanzitutto: vuol dire ancora qualcosa?
 
E’ un modo di dire che evoca nostalgia, o risentimento, o comunque rimanda alla memoria di un tempo che fu, di speranze che furono, e che adesso comunque non sono più? In altri termini, rivoluzione vuol dire nostalgia, alla fin fine?
 
Oppure c’è dell’altro?
 
 
Leggo dalla quarta di copertina del libro di Marco Guzzi, Fede e Rivoluzione, una frase di Papa Francesco,

 

Un cristiano, se non è rivoluzionario, in questo tempo, non è cristiano!

Ora, lungi da me spiegare le frasi del papa, ovviamente. Dico solo, registro, quante suggestioni mi evoca questa frase. L’apparente incidentale in questo tempo — ecco— è soprattutto quella, che mi scombussola. Detto in maniera spiccia: il massimo rappresentante in terra della fede cattolica (una delle prospettive spirituali più seguite, comunque la si voglia pensare), mi avverte non solo che la rivoluzione mi compete in quanto cristiano, ma anche che mi compete ora. E mi compete così tanto, che se disattendo questa chiamata, la mia fede stessa è in qualche modo snaturata — non sarei davvero cristiano.

Mi interessa questo. Mi interessa capire perché.


E mi interessa soprattutto che cosa è e che può essere questa rivoluzione che proprio ora, proprio quando è stata ormai abbandonata dal mondo politico e sociale (perdonate la semplicità grossolana del ragionamento, ma si fa per capirci), diventa interessante e anzi quasi obbligatoria per me cristiano.

Fate caso. Non si parla quasi più di rivoluzione, non è tanto più di moda — fa effettivamente molto nostalgico, molto vecchia guardia. Si parla di riformismo, federalismo, costituzionalismo, e ogni altro ismo che volete, ma non di rivoluzione.

Allora vado a pescare nei miei ricordi di infanzia e adolescenza. Sì, quando ancora la rivoluzione era parlata, discussa, bramata, temuta, agognata, urlata. Una rivoluzione politica, certo, ma spesso così ardentemente sperata, da assumere connotati limpidamente extra-politici: di liberazione totale dell’essere umano da ogni schiavitù, non solo economica.
 
Ripercorro questi ricordi aiutandomi con le canzoni.
 
Già. Una canzone, più o meno riuscita, è una spugna, raccoglie gli umori che circolano — li prende dall’aria, nel momento della sua scrittura— li cristallizza, li richiude nell’ambra delle sue note, e ce li può riproporre, come una istantanea sonora di un dato momento storico. Spesso, se è ben fatta, di umori ne raccoglie parecchi.
 
Vediamo un po’. L’idea che il mondo stia cambiando in maniera radicale, che vi sia una energia nuova nel fare ogni cosa, è benissimo descritta — tra i molti— nel brano di Eugenio Finardi Musica Ribelle (1976). Brano che qui vi propongo nella eccellente rivisitazione con Ivano Fossati
 

Una rivoluzione come risposta ad un disagio esistenziale, come risposta compatta, credibile.

Anna ha 18 anni e si sente tanto sola
ha la faccia triste e non dice una parola
tanto è sicura che nessuno capirebbe
e anche se capisse di certo la tradirebbe…

Ma da qualche tempo è difficile scappare,
c’è qualcosa nell’aria che non si può ignorare
è dolce, ma forte e non ti molla mai
è un’onda che cresce e ti segue ovunque vai…
E` la musica, la musica ribelle

Ed è come l’apice di una parabola assai stretta, assai veloce tanto nel salire quanto nel tornare giù. Esaltante e al contempo velocissimamente smentita dai fatti — slabbrata, smembrata e inaridita dal corso stesso del reale (i fatti sono testardi, come si dice). Una utopia subito illuminata da una luce fredda, dalla constatazione amara ed un po’ stordita di un fallimento. Così lo stesso Finardi arriva molto presto a Zerbo, di tono completamente dissimile.
 
Sì, siamo nel 1979, appena tra anni dopo.

Che cosa è accaduto? Che la parabola si è compiuta, quello che sembrava un progetto realizzabile si mostra in tutta la sua struttura di mito. E come dice la canzone…
Il mito era crollato / perso nei calci ad un pollo surgelato…
Così l’idea di rivoluzione, intesa in una orbita completamente razionale e politica, mostra una drammatica ed irredimibile inattualità.
 
E nel raffreddarsi del mito, anche ci ci ha creduto si ritrova quasi ad impersonare una parte, in cui una parte di lui non crede più.

… divento soltanto
un uomo navigato;
a dritta nostromo
il sogno è già passato.

Il tempo ha mostrato anche quali fossero i veri limiti di questa tentata rivoluzione. La riflessione pacata delle persone più attente aiuta a definirne i veri contorni, svaporati da quella utopia che intossica e inquina il giudizio.
 
Dalle parole di Aldo Brandirali, fondatore di “Servire il popolo” (persona dunque che con il concetto di rivoluzione ha qualcosa a che fare…) c’è una chiara consapevolezza di questo che stiamo dicendo:
Noi subivamo certamente l’attrattiva fortissima delle grandi ideologie e delle grandi e nuove tematiche mondiali. Sperimentavamo perciò una continua propensione a vivere all’interno di un noi, ma con un difetto fondamentale: non avevamo la capacità di dire io, non pensavamo alle nostre esigenze in quanto singole persone. In atto c’era una fortissima e inconsapevole massificazione. I giovani di oggi invece affermano prima di tutto il proprio ‘io’, e questo è un gran vantaggio sotto un certo punto di vista, ma non sanno cosa significhi giudicare le proprie esperienze. Quindi è come se conducessero una sorta di lotta con il niente. Quello attuale è, a tutti gli effetti, un ribaltamento esatto della nostra situazione di allora. Noi avevamo un ‘troppo pieno’ che ci soffocava, i ragazzi di oggi hanno invece un ‘troppo vuoto’ che non li fa crescere.
C’è qualcosa che non si è compiuto, dunque. O meglio, non si è riuscito a compiere nella forma che sembrava dovesse assumere. E’ una sorta di morte, in un certo senso. Da una certa prospettiva.

Stupisce che già nel 1975, peraltro, certi sintomi di problematicità ci fossero già tutti. In realtà già tutto era compiuto, come è evidente in questo bellissimo brano di Juri Camisasca, qui cantato insieme con Franco Battiato.
 
Il brano di Camisasca, invero, ha un respiro ben più largo, e affonda la sua ragion d’essere in un sogno utopico di cambiamento che va al di là dell’espressione politica come l’ha assunta in Italia, ma si riferisce più marcatamente al fenomeno di liberazione che era strettamente connesso all’espressione musicale, ai grandi concerti.
 
Era quel finire degli ’60 che lo aveva portato alla sua massima espressione, al punto di sfolgorio davvero abbagliante. Il nome Woodstock viene come inevitabile, insieme alla bellissima canzone di Joni Mitchell, cantata da Crosby Still e Nash & Young. Siamo nell’anno 1970.
 

Vedete. Ancora il sogno è intatto, è quasi sfavillante nella meravigliosa utopia…

By the time we got to Woodstock
We were half a million strong
And everywhere was a song and a celebration
And I dreamed I saw the bomber death planes
Riding shotgun in the sky,
Turning into butterflies
Above our nation…

Nel 1970 si può sognare che i bomber death planes, quei giganteschi bombardieri portatori di morte, si possano trasformare in farfalle. Si può ancora fare.
 
Rientrando nel nostro territorio, e ritornando al 1975, anche Edoardo Bennato riesce a fotografare bene questo senso di disillusione che permea l’espressione collettiva, come un qualcosa portato avanti senza più convinzione. E’ dello stesso anno quel Feste di piazza che rivela lucidamente l’inaridirsi di un sogno, consumato dalla sua stessa sempre più plateale irrealizzabilità.

Non stupisca l’andamento temporale apparentemente contraddittorio, rispetto al primo brano di Finardi. C’è infatti un magma, che rende gli anno ’70 così anche difficili da descrivere, in cui convivono — con un certo attrito — sia ancora gli impulsi progressivi che i sintomi di una caduta e di uno scoramento, che si sarebbero poi consolidati negli anni seguenti.
 
Certo il discorso potrebbe continuare avanti per molto, con altri innumerevoli esempi musicali. Non mi interessa però tanto essere esaustivo (ci vorrebbe un intero libro, o più di uno), ma tracciare appena un percorso. Uno dei possibili, moltissimi percorsi. Quello che mi è venuto alla memoria, ripensando ad alcuni brani conosciuti, appunto.
 
Facciamo un salto in avanti, arriviamo alla fine del 1983. Già da questo punto di osservazione si può vedere il decennio passato, sotto un angolo che consente quella visione globale, che sempre viene a mancare nella descrizione del presente. E’ sempre Franco Battiato a regalarci una gemma come il brano Un’altra vita, dentro l’album Orizzonti perduti.

E si arriva sempre più vicino al punto, al punto nevralgico di tutto.

Sulle strade al mattino
il troppo traffico mi sfianca;
mi innervosiscono i semafori e gli stop,
e la sera ritorno con malesseri speciali.
Non servono tranquillanti o terapie
ci vuole un’altra vita.

e la sera ritorno
con la noia e la stanchezza.
Non servono più eccitanti o ideologie
ci vuole un’altra vita

Stupisce la lucidità di questo testo, che in poche parole racchiude la sapienza di infiniti testi e di tantissime analisi sociologiche. L’uomo di oggi si frammenta tra tranquillanti o terapie, eccitanti o ideologie, dove manca un aggancio con qualcosa d’altro, con una rivoluzione sotterranea perenne. Che non è quella dei figli dei fiori, né quella dei collettivi o del proletariato giovanile.
 
Dunque? Ci fermiamo sulle ultime parole delle canzone: ci vuole un’altra vita.
 
Semplice così. E difficilissimo. Siamo alla fine del post ma abbiamo appena lambito un territorio vastissimo.
 
Perché allora — dismesse le speranze di una rivoluzione esterna che avrebbe accordato il mondo con la disposizione interna del cuore, ci si accorge che il movimento è, magari, l’esatto contrario. Che probabilmente ci vuole anche una rivoluzione interna, un’altra vita, per guardare il mondo in modo diverso e probabilmente, per potervi incidere davvero.
 
Forse tutto quanto è accaduto ha un senso. Non ci credo alle vie sempre dritte — credo che a volte gli errori sono necessari per imparare davvero qualcosa. Spesso sono necessari.
 
Forse dovevamo provare tutte le possibili rivoluzioni, per capire veramente qual è quella da perseguire. Cos’è questo essere rivoluzionari in un tempo come quello che stiamo vivendo, se non riconnettersi a livello profondo con la propria interiorità, sovente così trascurata. Ciò che c’è dentro è più importante di quel che si vede fuori. Ciò che c’è dentro, modula la modalità stessa di percezione del reale.
 
Le tradizioni più profonde lo sanno da millenni. I loro rappresentanti ce lo ricordano in maniera instancabile.
La rivoluzione dunque parte dall’interno, dal cuore. Il moto è verso l’esterno, e non verso l’interno, come propongono le rivoluzioni esteriori.

Il Principio Attivo, se possiamo dire così, è dal cuore che parte, che inizia.

Dunque, non è sbagliato tentare di cambiare il mondo. Anzi è una esigenza insopprimibile del cuore umano. Rinunciarci vuol dire ammalarsi, di quella tristezza globale che a volte sembra pervadere tutto e tutti.
 
Non bisogna rinunciarci, no. Se un modo era sbagliato, o magari incompleto, non era il fine ad essere sbagliato, o inesistente.
 
E allora, forse forse, la mestizia da rivoluzione mancata, il disorientamento, è comprensibile, ma non inevitabile. Se ne può uscire.
 
Era in fondo, appena un passaggio.
 
 Era questo, azzardo. Era che dovevamo collimare i fasci, arrivare ad un diverso assetto, ad una coscienza più compiuta-— comprendere che c’è da fare un cammino personale e cosmico insieme. Che adesso possiamo essere ben più ambiziosi di quanto eravamo negli anni ’60 e ’70— possiamo operare nel creare una rivoluzione reale che si connetta ad un Principio Attivo Perenne, che è nella storia e la trascende allo stesso tempo.
 
E che in questo tempo, proprio adesso, si può essere — davvero e compiutamente — rivoluzionari.

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Quel Sole, invisibile

Il bello delle playlist moderne è che ci metti un attimo, davvero un attimo. Prima era questione di realizzarti la tua compilation su cassetta. Piccolo inciso: si parla delle musicassette, quelle nate nel mio stesso anno e ora praticamente defunte — mentre io ancora me la cavo, grazie al cielo.
Ma la compilation su cassetta era una cosa lunga. Dovevi raccogliere tutti i dischi, mettere su un pezzo dopo l’altro, registrare, mettere in pausa, cambiare disco, ricominciare. Stare magari attento a combinare i brani in modo di avvicinarti abbastanza alla fine del lato A della cassetta, altrimenti ti toccava poi avvolgere fino in fondo il nastro residuo prima di andare al lato B, in fase di riproduzione.
Vabbè. Tipicamente accadeva che l’ultimo brano del lato A andava esattamente cinque secondi oltre la fine del nastro. Cosa che rendeva il compilatore relativamente nervoso e perfino intrattabile, per un certo numero di minuti (variabili a seconda dell’indole e dello stato psicofisico del soggetto).
In ogni modo. La cassetta poi così faticosamente prodotta, era finalmente adeguata all’ascolto in automobile, o da amici, o dappertutto.
Eh? No, niente cellulare con cuffiette bluetooth, da indossare mentre corri al parco (maglietta e pantaloncini tecnici antisudore). Il cellulare non esisteva. E il bluetooth esisteva nella stessa misura del cellulare, peraltro. E la maglietta e i pantaloncini non erano poi, anche nel migliore dei casi, così tecnici come adesso.
Correre sì, potevi sempre correre. Ma la musica la facevi scorrere mentalmente nella testa, era l’unico modo.
Ora ci si mette davvero un attimo. Ogni sito di streaming musicale ha il suo sistema, ma è sempre abbastanza semplice. Io mi sono affezionato a Play Music, il servizio musicale di Google (dopo l’abbandono forzato di Rdio e un passaggio di alcuni mesi su Deezer). E quando trovo un brano che mi piace particolarmente (o quando lo ritrovo, ripescando antiche cose dalla memoria e andandole a cercare) lo flaggo con il pollice in sù. Ed entra nella playlist automatica di tutti i brani che ho gradito.
Ah, ho preventivamente istruito l’app di Play Music a scaricare sul telefono (quando trova il wireless) i brani di questa playlist. Così me li trovo tutti pronti per l’ascolto, vi sia o non vi sia connessione.
Vabbè, ma questi sono dettagli tecnici.
L’essenziale è che posso aggiungere togliere brani dalla mia playlist in maniera estremamente veloce. Così che mi è venuta voglia di andare a caccia di alcune antiche canzoni che mi piacevano, e poi sono state magari piano piano ricoperte dalla polvere del tempo, dal cambiamento delle mode e degli stili. Dal nuovo che avanza e che a volte non sarà migliore, ma è più scintillante, questo sì.
Nella mia rivisitazione mnemonica degli anni ottanta, mi sono imbattuto ad un certo punto in un disco dei Police, che non ho mai amato troppo (l’ho comprato sulla fiducia, Ghost in the Machine era il disco del mese della mia amata StereoPlay, e io i suoi dischi del mese li prendevo molto sul serio), ma che conteneva comunque un paio di canzoni folgoranti (almeno per l’epoca).
Una è proprio Invisible Sun.

Ora, la prima cosa che mi colpisce oggi, è che io per anni e anni ho ignorato bellamente l’argomento reale della canzone. Totalmente. Non immaginavo assolutamente che parlasse delle tensioni dell’Irlanda del Nord. Probabilmente, non ho nemmeno mai visto il video prima di oggi.
Però mi piaceva da matti. Era diversa dalle altre canzoni. Fin dalle prime note aveva quest’aria potente e decisa, che imponeva da subito un ascolto attento. Lo sentivi subito. Si sente ancora adesso. Una serietà che esorbitava largamente dalla spensieratezza melodica e un po’ oziosa di tante canzonette (anche di quello stesso disco, ahimé).
Ed era come se un messaggio passasse, comunque. Anche se quel ragazzo non capiva bene il testo, questo messaggio passava. Ugualmente.
E mi colpisce adesso. Come il quadro di riferimento delle nostre preoccupazioni sociali sia cambiato del tutto. Il focus non è sul terrorismo in Irlanda, di matrice politica, ma sul terrorismo internazionale di matrice (diciamo così) religiosa.
Ma le cose non sono poi così diverse. Non sono diverse come ci fa credere il sistema di telecomunicazioni, per cui il nuovo è sempre il criterio di riferimento, in una perpetua fuga dal presente. Non sono così diverse.
Il cuore dell’uomo, per esempio (cosa alla quale puntano direttamente le canzoni), è sempre quello. E rimane così attuale, attualissimo, lo sbocco in positivo della canzone, un vero colpo di genio che risolve nella speranza la tensione palpabile che attraversa il testo e la musica.

There has to be an invisible sun
It gives its heat to everyone
There has to be an invisible sun
That gives us hope when the whole day’s done

Ci deve essere un sole invisibile, che dona calore ad ognuno (attenzione, non dice genericamente everybody, ma l’accento — e non solo per questioni di metrica — è esattamente su everyone, ognuno).
Ci deve essere un sole che ora (magari) non vedo, una stella che mi dà speranza quando il giorno si chiude.

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Ritorno a Ommadawn (il maestro, è tornato)

Credo che anche per l’autore, avere l’ardire di intitolare una composizione nientemeno che Return to Ommadawn sia una cosa impegnativa, e non troppo comoda. Così alto è — nella mente di molti — il termine di paragone, quell’Ommadawn che Mike Oldfield fece uscire come suo terzo album in studio. Parliamo, ragazzi, del lontano 1975.
Ora, probabilmente alcuni dei miei lettori nel 1975 non erano nemmeno nati. Ebbene, Mike Oldfield era diventato improvvisamente famoso con il suo Tubular Bells, due anni prima. Ommadawn è formato da una suite articolata in due parti (corrispondenti alle due facciate di un disco a 33 giri, tanto per capire come la creatività e la tecnica sempre si allacciano). Non c’è da spenderci molte parole, in questa sede: a detta di molti rimane il suo capolavoro, tuttora. Personalmente ritengo Amarok il suo lavoro più coraggioso e insieme più riuscito, così speciale e geniale che a mio parere è davvero uno dei dischi più importanti del secolo scorso, perlomeno nell’ambito della nuova musica.
E Ommadawn non è appena un disco: è un mondo, comunque.
Ecco, tanto per dire che tornare ad Ommadawn non è affatto uno scherzo. E’ tornare su un livello, approdare ad un plateau, che si è saldamente ancorato nell’immaginario di moltissime persone. In forza di quello che hanno provato ascoltando il disco, molti anni fa, e un una serie di reiterati ascolti: in forza di una esperienza. Roba da far tremare i polsi, anche a chi l’ha creato.
Dunque il titolo è impegnativo, di per sé. Ma ha la sua ragion d’essere: lo schema di due parti di Ommadawn è ripreso fedelmente, quasi fino alla stessa durata (questo, è poco più lungo). Siamo lì, siamo tornati in quel territorio.
Vorrei far notare, che tornare dopo quarantadue anni, in sé è una certificazione di valore tutt’altro che scontata. Si torna in forza di un interessa che rimane, che perdura. Si torna perché si riconosce un punto di valore che il tempo non ha fatto sbiadire.
Devo anche dire che non ci credevo.
No, non ci credevo più, in questo ritorno. Ci speravo, certo: ma senza crederci davvero. Dopo Man on the Rocks, gradevole ma così pienamente integrato nell’orizzonte del pop/rock radiofonico di buon livello (e con qualche guizzo sì, perché il genio è sempre tale), temevo che Mike, il mio Mike, si fosse stancato di scavare nel cercare l’oro, si stesse insomma avviando verso una onorevole pensione, diciamo, diluendo un po’ il suo talento in realizzazioni parziali, poco ambiziose.
Che poi niente, a volte non si può essere obiettivi. Quando è piuttosto una questione affettiva, non ci si reinventa di colpo critici equilibrati. Quando i ricordi tornano ad un ragazzo che provava a registrare su nastro Incantations con un microfono appoggiato vicino all’altoparlante di una radio, in una cucina resa più silenziosa possibile. A quel ragazzo che fu folgorato quando gli capitò di vedere in televisione una performance live di QE2. Che impazzì a riascoltare Tubular Bells 2 e poi Tubular Bells 3 un insano numero di volte. Che sull’onda emozionale impalpabile ma concreta di Tubular Bells 3, onda lunga, aprì un gruppo su Internet per riunire i fans, quando ancora non era affatto pratica comune, quando Facebook non esisteva affatto. Era il 5 ottobre del 1998. Un altro millennio.
Ora torniamo in queste atmosfere, ci tuffiamo in un periodo, in un mood, che si pensava chiuso per sempre. Affidato appena al pensiero nostalgico, semmai. E invece no, è qui. E’ qui di nuovo.
Lo stupore è grande, per me. Ed anche la gratitudine, per avere qualcosa così da poter ascoltare. Quel poco che ne dirò, sull’ascolto, è frutto di un incontro ancora molto recente, ma già appassionato. Un incontro che le parole non posso rendere se non per approssimazione, essendo metaverbale per eccellenza.
Dunque. Se la prima parte è gradevole, è bella, è la seconda che mi cattura completamente. Quel punto in cui non puoi essere — diciamo-— finalmente più disincantato e obiettivo, non puoi essere più moderatamente cinico e freddo, dove la semi-delusione ordinaria trova un punto di sospensione, perde aderenza, si scioglie finalmente. Quel punto di aggancio avviene e la musica ti dice ora vieni dove ti porto io perché io sono in risonanza con il tuo cuore, lo sono come tu stesso non riesci quasi mai ad essere. Quando dice così una musica, un quadro, un libro, è imperativo ascoltare. E’ come se ti dicesse qualcosa di enormemente importante per te.
E che c’è di più importante della percezione della bellezza, dell’armonia, quale informazione più di questa vogliamo ascoltare dall’Universo?
E’ quel tema, per me. Entra poco dopo il secondo minuto, in modo sussurato, sommesso. E poi cresce. Viene lasciato, ripreso. Ma mi aggancia subito. Poi nel finale esplode e tu ormai sei lì, sei nel finale, ci sei dentro completamente, ogni tua fibra ne risuona, non puoi evitarlo, non vuoi evitarlo.
Quando si agganciano tali corrispondenze è sempre un evento magico, da guardare con grande rispetto. Qualcosa succede. Qualcosa accade tra la struttura del cuore e i suoni che arrivano all’orecchio. Un linguaggio misterioso e non verbale dice cose e ottiene risposta, coinvolgimento.
Dopo l’ascolto mi rimane nel sangue la struttura di quel grappolo di note. La struttura ricircola nella mente, come un loop balsamico, qualcosa che ripete il suo messaggio di armonia nascosta, lo prolunga nel tempo.
Così mi capitava con Tubular Bells 3, e in quel caso era la modulazione di apertura e chiusura, sussurrata dal vento. Mi capita di nuovo, adesso.
E’ sempre bello innamorarsi, e innamorarsi di una musica non è troppo diverso da altre forme di innamoramento, nel senso che porta a galla un’armonia tra le cose che tu quasi non vedevi più.
E non ci vogliono discorsi — ci vuole una musica. Un suono. Una modulazione dell’essere. Dove ci stanno mille discorsi insieme e non ce ne è al contempo nessuno. Dove la mente viene liberata e non invasa.
Liberata, per una corrispondenza.

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Ipercarmela

Un titolo che se vi dice qualcosa… vuol dire che siete come il sottoscritto, ovvero relativamente stagionati. Si affonda infatti nei lontanissimi anni settanta, e precisamente nell’anno 1976, quando venne rilasciato da De Gregori l’album Bufalo Bill.

 

Quanto tempo, potremmo dire.
Intanto dico che è bello avere ricordi, sensazioni, immagini di vita ed atmosfere che spaziano ben oltre l’immediata prossimità. Il sapore degli anno settanta, per esempio, è completamente diverso da quello di adesso, chi l’ha vissuto lo sa bene. Ricordarlo, ricordare certa tensione ideale, certa voglia di cambiare il mondo, un certo acuto sentore del sociale, pur con tutti i debiti correttivi che la storia stessa ha mostrato necessari, è comunque qualcosa.
Però Ipercarmela, dicevamo.
Niente, che ogni tanto mi prende questa cosa qui: di riascoltare da grande gli album che sentivo da ragazzo, con la coscienza di adesso, l’orecchio che ha sentito (grazie a Dio) tanta altra musica, e anche con una qualità acustica migliore, rispetto alla musicassetta dove viaggiava gran parte del mio patrimonio musicale.
Quante cose hanno ospitato, negli anni, queste piccole bobine rotolanti…
Così sparo Ipercarmela in macchina, ieri. Il punto è che in macchina c’è anche Andrea. Come reagisce un ragazzo nato nel 94 alla musica degli anni settanta?
Abbastanza analiticamente, sembra.
Un giovane Francesco esordisce (l’esordio quasi esitante e poi come lanciato in discesa di Ipercarmela mi ha sempre mandato ai pazzi) cantando che

La cucina era
vuota, il bicchiere a metà,
l’uomo guardava serio il muro e poi seguiva
il fumo che saliva lento verso la lampadina.

Andrea mi fa: ma se la cucina era vuota, come faceva ad esserci qualcuno?
E io penso che quello splendido quadretto abbozzato con due o tre parole appena, buttati lì come sapienti spatolate di colore, è già stata compromessa da un figlio che fa uso della logica abbastanza convinto ma spietato…
Vabbè.
Quadretto compromesso. Poi quando accade che la coppia di emigranti del sud, stabilitisi a Torino (come ho appreso da poco, prima la ascoltavo senza capirci assolutamente nulla, ma gustando le parole), ha una figlia…

Dentro una città pulita e violenta
la donna partorì una stella e la chiamò Carmela,
figlia di suo padre e sua madre,
fiocco rosa da crescere in fretta.

Il commento è: beh certo che è figlia di suo padre e sua madre, come potrebbe essere altrimenti…
E pur essendo incontestabile, è ugualmente tutto un universo di rapporti di parole, e tra parole e cose, e tra parole e persone e tra persone e cose e tra persone e persone, tra persone e stelle, che riceve una delicata ma decisa spallata. Quel modo di dire apparentemente inutile ma che, nel ribadire un concetto ovvio, è come se rimarcasse una evidenza, figlia di suo padre e sua madre, una evidenza di derivazione — in questo caso meridionale— che piaccia o non piaccia non ti puoi levare di dosso, un senso di radice che ti insegue e ti raggiunge anche in un paese lontano, per cui rimani comunque innestata nel tuo modo di vivere, nella tua solarità mediterranea, per cui…

Rideva quasi sempre e piangere non piangeva, mai.

Così anche un modo di suonare e di esprimersi degli anni settanta rimane comunque lì, all’interno della sua bolla temporale, difficilmente esportabile e riproponibile tout-court ad una persona dalla sensibilità più moderna.
Rimane una sorta di incanto nostalgico per chi ha vissuto anche quella lontana epoca, un incanto che magari trattiene selettivamente quello che più desidera. Un incanto, non una cronaca oggettiva, un resoconto imparziale. Una cosa che parla tanto del mondo, quanto di te.
Una cosa, insomma, da Ipercarmela.

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