Blog di Marco Castellani

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Dal profondo cielo

Prima immagine di un buco nero

Ormai l’avrete già vista dappertutto. In due giorni appena è diventata una delle immagini più onnipresenti nel web. E questa volta è una immagina scientifica. E molto, moltissimo umana.

E’ una immagine che parla di un grande risultato della scienza – la prima volta che si ottiene una immagine di un buco nero – e di un grande risultato dell’uomo. Direi questo, soprattutto.

Cerchiamo di capire perché. Bene, la cosa in sé la sapete, inutile aggiungere altre descrizioni, oltre a quelle già molto accurate che si sono affacciate in rete: quella che già viene chiamata la foto del secolo è una immagine del buco nero supermassiccio nella galassia M87, acquisita tramite l’Event Horizon Telescope (Eht, in breve). Vediamo qualcosa che non si era mai visto. Riusciamo ad avere una immagine di un oggetto enorme, smisurato e lontanissimo. Un oggetto che appartiene ad una classe, quella dei buchi neri, che quando ero ragazzo era trascritta nei libri di testo con la doverosa specifica di ipotetica.

Già, fino a non molti anni fa i buchi neri erano ipotesi di lavoro, appena.

E ora, invece, vediamo questo.

Crediti: The Event Horizon Telescope

Cerchiamo di allargare lo sguardo. Cosa sta accadendo in questi anni? Sta acquisendo una dignità di esistenza nel nostro linguaggio comune una teoria, una immagine di cielo, che fino a ieri pareva fuori dalla nostra portata. La rilevazione delle onde gravitazionali, e ora l’immagine del buco nero, sono gli eventi che suggellano questo cambiamento, questo turning point.

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La danza dei buchi neri…

Abbiamo parlato varie volte, nei mesi passati, del fenomeno del tutto nuovo della rilevazione delle onde gravitazionali, prodotte dagli eventi di fusione di due buchi neri. Proprio questi fenomeni molto energetici che avvengono nell’universo lontano sono i maggiori responsabili di quelle onde gravitazionali che proprio in questi anni siamo riusciti a rilevare anche da Terra, e che ci hanno aperto una nuova bellissima finestra di indagine, quella appunto dell’astronomia gravitazionale.

E se pure molte volte abbiamo argomentato di queste onde – correttamente previste da Einstein un secolo fa – forse ci siamo meno occupati della sorgente di queste onde così elusive, ma così importanti. 

Il fatto è che fenomeni anche fantasmagorici come la fusione di due buchi neri, non son cose facilmente rilevabili, non sono – per ora – ambiti facilmente indagabili con quella precisione anche visiva, della quale avremmo bisogno per fare anche di questo, materia compiutamente raccontabile.

Ci viene allora in aiuto la capacità moderna di effettuare simulazioni di fenomeni fisici, immettendo in codici di moderni supercalcolatori la grande quantità di dati di cui ora disponiamo. Anche la fusione di due buchi neri è stata simulata al computer, con grande precisione e anche in modo particolarmente evocativo. 

L’evento di fusione di due buchi neri di grande massa
(Crediti per video ed immagine: NASA)

La musica che accompagna questa animazione è di Edvard Grieg, Nell’antro del re della montagna, ed è una parte della meravigliosa suite dell’Opera 46 (suite sinfonica ricavata dalle musiche di scena del Peer Gynt di Ibsen). Si adatta direi molto molto bene alla “danza” che stiamo osservando nel video, sottolineandone mirabilmente la sua intrinseca eleganza. 

Qui notiamo appena una cosa, già accennata: la luce. Pur trattandosi appunto di buchi neri, che non emettono radiazione luminosa, il riscaldarsi del gas comunque coinvolto nell’evento provoca una decisa emissione di radiazione in banda ultravioletta ed in banda X.

Proprio ricercando tali eventi in queste bande ad alta energia, possiamo sperare in futuro di trovare ed anche studiare questi accadimenti “dal vivo”, ben prima che la danza abbia la sua conclusione con la completa fusione in un unico oggetto. 

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Di cosa è fatto tutto quel che c’è?

L’astronomia ci ha abituato da tempo a splendide immagini: stelle, pianeti, lontani quasar… Eppure, raramente troviamo una immagine così densa come quella che presentiamo oggi e che racchiude, conchiude – quasi come una icona – la nostra attuale concezione di Universo.

Di cosa è fatto insomma il nostro Universo? Di cosa è fatto tutto quel che c’è? Scoprirlo, è il compito della sonda Plank (un grande progetto della nostra Europa) che ha realizzato – dal 2009 al 2013 – una mappa puntigliosissima delle differenze in temperatura della superficie ottica più “antica” che si conosca in assoluto, ovvero il fondo cielo che si creò quando il nostro universo divenne, finalmente, trasparente alla luce (prima era così denso che non c’era verso, nemmeno i fotoni potevano fluire tranquilli).

La radiazione cosmica di fondo è una complessa intelaiatura che è anche un formidabile campo di prova per le varie teorie cosmologiche, per le nostre prove di comprensione della struttura del mondo. Le teorie dunque sono chiamate ad accordarsi con quanto oggi “vediamo” tramite satelliti come Plank, e questo pone fortissime “costrizioni”, che sono a loro volta cogenti indicazioni. Di quel che c’è, e quel che non c’è.

Soprattutto, di quanto sia sorprendente questo universo, in cui viviamo. La più recente analisi di questi dati, infatti – roba fresca fresca, di pochi giorni – conferma ora ed ancora che la maggior parte dell’Universo è fatta di qualcosa che non conosciamo, la elusiva “energia oscura”. E non è tutto: anche la maggior parte della materia, è materia che non conosciamo, anch’essa detta “oscura”, appunto.

Insomma l’universo, questo universo – nato (e lo sappiamo proprio da questi dati) 13,8 miliardi di anni fa, continua a stupirci con la sua formidabile carica di mistero. E’ così davvero affascinante, guardarlo, esplorarlo, cercare di capirlo. Perché quel poco che sappiamo (ed è già moltissimo) si immerge in un mare magnum di cose che ancora non sappiamo. Ma che siamo invitati ad esplorare, ogni giorno di più.

E le sorprese – questo sì, lo sappiamo – non mancheranno.

 

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Tutto quello che si vede… ed oltre!

Non è troppo diverso da quel che si pensava un tempo, alla fine. Ovvero, è sempre possibile mettersi al centro di tutto, e non è necessariamente un danno. L’importante – vorrei dire – è esattamente nel come lo si fa. Se è un passo che compiamo  con tracotanza ed arroganza, oppure con tremore e timore. Cambia tutto, anche se il centro è lo stesso, il punto focale rimane invariato. Geometricamente la stessa cosa. Esistenzialmente, un ribaltamento completo di prospettiva.

Per questo non mi disturba pensare la Terra – oggi, nel 2018 – al centro dell’universo, perché in un certo senso è davvero il centro. E’ il centro dell’universo osservabile, quello cioè di cui noi possiamo avere esperienza.

L’universo osservabile. Crediti & Licenza: Wikipedia, Pablo Carlos Budassi

Nell’illustrazione artistica, ripresa da APOD, si spazia con andamento logaritmico dall’universo vicino (quello prossimo al centro, con i pianeti del Sistema Solare) alle regioni più lontane, disseminate di galassie delle forme più disparate. Fino poi alle regioni estreme con cui possiamo venire a contatto, che sono quelle dalle quali, passati i filamenti di materia primordiale, ci giunge solo la radiazione di fondo cosmico, ovvero l’eco del Big Bang, quel grande scoppio da cui il nostro cosmo si è originato.

E questo è tutto. Oppure no?

Vediamo. I cosmologi ritengono che l’universo osservabile sia parte di qualcosa di ben più grande, un “universo” che contiene delle parti (anche abbastanza estese) con le quali non possiamo assolutamente venire a contatto, perché – sostanzialmente –  oramai troppo lontane a causa dell’espansione accelerata, tanto che nessun segnale può giungere fino a noi. E’ una zona a noi completamente preclusa, ci piaccia o no.

E questo è proprio tutto, stavolta. Oppure…

Vediamo. C’è chi argomenta che anche il nostro universo potrebbe essere “semplicemente” un esemplare di una specie di costellazione di universi (che ordinariamente sono isolati uno dall’altro), dove magari vigono anche leggi fisiche differenti. Per dirla tutta, ci sono anche delle teorie per le quali in ogni istante l’universo si divide in una miriade di altri universi. 

Mi sto riferendo alla cosiddetta interpretazione a molti mondi della meccanica quantistica. Certo non la sola ad ipotizzare una collezione di universi, oltre al nostro. Ma sicuramente una delle più pazzesche, solo che ci si pensi un momento.

C’è da dire che queste idee, seppur indubbiamente suggestive (e percolate, significativamente, nella percezione comune), non sembrano avere – almeno al momento – alcuna possibilità di verifica nel senso scientifico, o comunque di falsificazione nel senso popperiano: per farla breve, non c’è modo di dire se sono giuste o sbagliate. Possiamo pensarne quel che vogliamo, tanto non c’è da fare esperimenti o misure (almeno, per ora) per decidere.

Semplicemente, perché di altri universi – per definizione – non possiamo avere alcuna conoscenza (altrimenti sarebbero comunque parte del nostro, anche in senso filosofico). Per noi dunque c’è un mondo, semplicemente uno.

E non è poco, vista l’estensione e l’abbondanza che lo contraddistingue. E tenuto anche conto che ancora, di questo universo, dobbiamo – davvero – comprendere quasi tutto.

Anche, oserei dire, come viverci nel modo migliore, più bello

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Ciao, Stephen.

Niente. Quando muore uno scienziato di questo calibro, la notizia trascende velocemente l’ambito strettamente accademico, supera il confine degli addetti ai lavori. E coinvolge irresistibilmente un ambito ben più vasto, ben più ampio e variegato della solita cerchia.

Non fosse un evento tragico, si potrebbero fare considerazioni su come la scienza sia in realtà sempre molto presente nell’immaginario collettivo. Sia come sotto traccia, pronta a venire fuori, ad esondare, in particolari occasioni: l’abbiamo visto più volte, può essere un atterraggio di una sonda su un pianeta lontano, l’uscita della Voyager I dal Sistema Solare, il tuffo finale di Cassini dentro Saturno.

Tanti spunti per ricordarci che il nostro mondo è grande come l’universo. E il nostro mondo, ci interessa. Il suo perenne mistero, ci cattura.

E’ questo, secondo me: la sete di infinito, la voglia di conoscere almeno qualcosa di questa sconfinata immensità in cui siamo lanciati, a bordo i un pianetino ai margini di una galassia gigantesca, ebbene quella sete rimane viva, sempre. A volte scorre sottotraccia, appena coperta dagli strati un pochino polverosi della vita quotidiana. Ma rimane viva. E’ lì, e riguarda tutti.

Capire che ci stiamo a fare nell’universo, non può più prescindere dal capire l’universo. Almeno un po’. E lui ci ha provato, ci si è speso fino all’ultimo, nel capire.

Alla NASA, nel 1980

Così ieri mattina seguivo i messaggi su Twitter con l’hashtag StephenHawking e comprendevo con inequivocabile evidenza – se pur servissero altre evidenze – come questa figura di scienziato sia entrata profondamente nel cuore delle persone (molto al di là del grado molto specialistico delle sue ricerche). D’accordo: il fatto di essere un grande scienziato, ed insieme affetto da una penosa malattia invalidante, ha certo contribuito a creare il suo mito. Ma non è solo questo, probabilmente non è solo questo. Il fatto di non arrendersi mai è stato determinante, da come mi pare di capire.

I messaggi su Twitter si succedevano a gran velocità, e moltissimi davano – come è giusto – un condiviso tributo di ammirazione per il suo coraggio di andare avanti, di cercare,  fino alla fine.

Alcuni rielaboravano questo tributo con intelligente simpatia, legandolo alle storie personali.

Mettiamola così, in modo molto semplice. La gente ha bisogno di vedere che c’è chi non si arrende, di fronte anche a difficoltà grandi. Le persone ne hanno bisogno, per proseguire il proprio viaggio nel cosmo, in questo spicchio periferico  ma tutto speciale di spaziotempo. Anche, per sentire più “amico” questo universo, più praticabile. Più percorribile. Per non sentirsi persi nel vuoto.

Oggi più che mai, infatti, per tanti versi ci sentiamo spaesati, a volte senza una guida, senza un manuale di istruzioni. La gente ne ha bisogno davvero, cerca un esempio, un modello, cerca qualcuno da ammirare. Mutatis mutandis, potremmo dirlo anche – accenno solo un paragone che potrà sembrare azzardato – per Giovanni Paolo II, per quell’eroismo semplice e sofferto che ha contraddistinto i suoi ultimi anni di pontificato, che ha colpito e catturato ben oltre la cerchia di chi si professa cristiano.

Lo so, per alcuni versi due figure agli antipodi, perché sappiamo cosa pensava il nostro scienziato del rapporto tra scienza e fede. Eppure gli antipodi sono un residuo di una visione geometrica cartesiana, un po’ semplicistica. Lo spazio tempo – ormai lo sappiamo bene – è mobile, permeabile, fluttuante, imprevedibile, modificabile. Gli opposti si incontrano, si baciano (e infatti i due si sono incontrati, e anzi Stephen ne ha incontrati altri tre, di papi). Gli opposti, del resto, sono un frutto della mente giudicante, divisiva, non certo della mente che si apre all’infinito. Ecco, lì non c’è contrapposizione, le forse si unificano procedendo verso il punto focale. La geometria cartesiana – troppe volte impalcatura indiscussa della nostra testa – si sfalda, non regge. E’ vecchia.

C’è spazio per chi ha una visione e la segue con forza, sia pure con vis polemica, la argomenta, la innerva di ragioni. E’ sempre un’apertura. Solo i tiepidi non aggiungono niente, non aggiungono sapore all’alchimia universale.

E poi, se vogliamo davvero: non era conciliante con la spiritualità o la religione, ma era stato lo stesso accolto all’Accademia Pontificia delle Scienze (e questo è semplicemente bellissimo, secondo me). A proposito, segnalo che proprio il quotidiano cattolico Avvenire peraltro oggi esce alla grande con un bell’articolo di Piero Benvenuti (in passingex presidente del mio ente, l’Istituto Nazionale di Astrofisica) che assai intelligentemente si smarca subito dal possibile inghippo di vetuste contrapposizioni, ed inquadra in un contesto ampio e aperto l’opera e la visione di questo grandissimo scienziato…

Preferisco onorare la sua memoria pensando che egli abbia voluto richiamare la nostra attenzione, anche con forme provocatorie, sulla necessità impellente che la filosofia e la teologia non ignorino i messaggi provenienti dalla cosmologia attuale, soprattutto dalla evoluzione globale ed unitaria dell’universo.

Non c’è bisogno di altro, perché cadremmo nella retorica. E non è proprio il caso.

Chiudo con un piccolo ricordo personale, se mi è concesso. Moltissimi anni fa – ero un ragazzetto – forse per la prima volta sentii parlare di lui da un altro astrofisico, da mio papà. E ricordo ancora benissimo, a distanza di decenni, l’ammirazione e perfino la commozione con cui ne parlava (ricordo il luogo dove eravamo, quasi le impressioni più minute). E per me già basterebbe questo, per dolermi della sua scomparsa.

Addio Stephen, ora le stelle le vedi, davvero. E sono sicuramente sfolgoranti.

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Fusione di galasse in NGC 2623

Dove si vanno a formare le stelle quando le grandi galassie si uniscono? Per comprendere questo argomento, ancora molto dibattuto, gli astronomi sono andati ad indagare nuovamente il sistema NGC 2623, costituito da due galassie nell’atto di fondersi una con l’altra (ce ne occupammo anche noi, nel lontano 2009).

L’indagine – si può dire davvero – è stata condotta “ad ampio spettro”, mettendo insieme i dati raccolti con una serie di strumenti diversi, ognuno operante in bande diverse. E’ stato usato il Telescopio Spaziale Hubble per quanto riguarda la radiazione in banda ottica, lo Spitzer Space Telescope per l’infrarosso, XMM Newton per la banda X, ed infine GALEX per la radiazione ultravioletta.

Il sistema NGC 2623, due galassie profondamente “coinvolte”. Crediti: ESA/Hubble & NASA

L’insieme di tutti questi dati mostra senza possibilità di equivoco, come le due galassie appaiano ormai decisamente “compromesse” una con l’altra, tanto che i due nuclei si sono già praticamente uniti in un gigantesco nucleo galattico attivo.

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Se la materia oscura è … fluorescente

Come mai l‘ammasso di galassie di Perseo brilla così evidente in un particolare “colore” nella banda X? Nessuno lo sa con certezza (tante sono le cose del cielo che ancora dobbiamo capire). Però potrebbe essere qualcosa che ha a che fare con la materia oscura.

L’ammasso di galassie in Perseo (Crediti: X-ray: NASA/CXO/Oxford University/J. Conlon et al.; Radio: NRAO/AUI/NSF/Univ. of Montreal/Gendron-Marsolais et al.; Optical: NASA/ESA/IoA/A. Fabian et al.; DSS)

Di fatto, l’ammasso presenta una notevole peculiarità, quando osservato nella banda dei raggi X (tecnicamente, intorno ai 3.5 Kev). Ebbene, in questo “colore”, la parte esterna appare particolarmente brillante, mentre la zona centrale, che probabilmente circonda un buco nero di grande massa, risulta invece peculiarmente oscura.

Questo fatto non è per niente facile da interpretare, con le caratteristiche note dell’ammasso di galassie.

Una ipotesi che potrebbe forse spiegare questa stranezza, è quella della “materia oscura fluorescente” (per i più arditi, qui l’articolo originale). Questa strana materia potrebbe essere particolarmente abile nell’assorbire la radiazione a 3.5 KeV, responsabile del “colore” di cui stiamo trattando. Dopo l’assorbimento, la materia oscura fluorescente sarebbe in grado di riemettere questa radiazione (proprio con un effetto analogo alla fluorescenza) creando dunque questo eccesso di colore. Dappertutto, tranne nella zona intorno al buco nero centrale, dove – per le condizioni peculiari dell’ambiente – vincerebbe invece l’effetto di assorbimento.

Insomma, fluorescente o no, le ipotesi sulla materia oscura (e sull’energia oscura), continuano a fioccare. E’ un campo aperto della ricerca cosmologica, anzi un campo apertissimo. Le teoria ci dicono che materia ed energia oscura formano circa il 95% della massa-energia dell’Universo. Capire questo “quasi tutto” è una sfida emozionante per la cosmologia moderna: forse, è la sfida in assoluto più intrigante, che oggi si ponga lo scienziato che guarda il cielo.

Una sfida così grande, che travalica l’ambito degli addetti ai lavori, per assurgere a dignità di vera impresa culturale, di deciso interesse per l’avventura umana della scoperta del mondo (e del nostro ruolo in esso).

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Chi fa le onde gravitazionali?

Lo spazio cosmico non si riposa mai. Accadono cose continuamente, cose di cui stupirsi: anche nelle regioni più lontane. Cosa sta accadendo – ad esempio – al centro della galassia attiva chiamata 3C75? Non è proprio dietro l’angolo, perché la distanza stimata si aggira intorno ai 300 milioni di anni luce, ma è parecchio interessante, comunque

Crediti: X-Ray: NASA/CXC/D. Hudson, T. Reiprich et al. (AIfA); Radio: NRAO/VLA/ NRL

L’immagine è una combinazione di dati in banda X e radio, e mostra due buchi neri di grande massa che “danzano” all’interno di 3C 75, ad una distanza relativa di circa 25000 anni luce. Sono circondati da gas caldo (ma proprio caldo, parliamo di milioni di gradi) e sputano fuori getti di particelle relativistiche, come se piovesse (o anche molto di più).

Tutto questo avviene proprio al centro dell’ammasso di galassie chiamato Abell 400. Gli astronomi ritengono che i due enormi buchi neri continueranno il loro paziente corteggiamento cosmico ancora per alcuni milioni di anni, per poi finalmente fondersi insieme, a formare un unico buco nero di massa veramente enorme.

Negli stadi finali della danza – come sappiamo – il sistema diventerà una potente sorgente di onde gravitazionali, sulla scorta di quanto abbiamo avuto modo di registrare, negli ultimi tempi, per configurazioni simili.

Dunque stiamo osservando gli attori di un gioco cosmico che ha contribuito non poco ad aprirci gli occhi su un nuovo modo di vedere l’universo. E probabilmente, anche di pensarlo.

Imparando, da questo, che c’è un campo ancora vastissimo da esplorare, da capire. E soprattutto, che le sorprese non sono mai finite.

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