Categoria: Oldfield
Salpare. Smetterla con questa vista già ben saputa, di barche ormeggiate al porto: alzarsi ogni giorno, colazione e quotidiano e chiacchiere per convincersi che no, oggi forse fuori c’è maretta, meglio non muoverci. Aspettare, non rischiare più di tanto, rimanere in porto…. Invece no. Salpare. Andare in mare, perché la barca è fatta per questo. Vivere ogni situazione fino in fondo, vivere sempre intensamente il reale (L’unica condizione per essere sempre e veramente religiosi è vivere sempre intensamente il reale, senza rinnegare e dimenticare nulla dice Don Giussani, e quanto viene dimenticato quando non fa comodo al nostro gioco di sponda, di piccole infelicità covate, di quieta invidia per una vita piena).
Vivere sempre tutto, anche gli sbagli viverli – quando capita di sbagliare – e poi si può comunque tornare indietro a chiedere scusa, a chiedere perdono. Non siamo perfetti non pretendiamo da noi stessi la perfezione. Smettere di stare a valutare la robustezza dello scafo, a fare conti sterili su quanto e dove potrebbe portarci se solo ci decidessimo. No no, invece partire salpare prendere il largo. Onorare la vita che ci chiede di vivere. Sentire il vento sulla faccia lo spruzzo dell’acqua fredda e salata che ti urta ma ti fa capire ti fa sentire che sei vivo e che stai facendo quello che devi fare, vivere.
Cast the lines away
From the dock at the harbour bay
All those cares and worries and woes
You can save them for another day
Because we’re sailing, sailing
Yes we’re sailing, sailing
(Mike Oldfield, Sailing)
Lasciamo la paura di sbagliare dietro, lasciamocela scorrere sulla pelle e disperdersi nel vento. Paura di sbagliare? Ma certo che sbagliamo, come possiamo evitarlo? Io ho sempre fatto solo sbagli ma uno sbaglio che cos’è cantava Lucio uno dei grandi della nostra canzone (uno dei due grandi). E anche un tipo che magari non è stato sempre nelle mie preferenze musicali, Noi siamo liberi, liberi, liberi di sbagliare siamo liberi liberi di volare… Che poi uno che ha scritto una canzone come Sally e soprattutto l’ha affidata alla Mannoia, che gli vuoi dire…
Ora stavo pensando comunque che la frase di Vasco liberi di sbagliare mi piace molto molto di più di una frase che uno potrebbe dire liberi di far ciò che vogliamo … Sì la seconda mi sembra più fredda, liberatoria solo in apparenza. Perché nella prima si sente la presenza di un sistema di riferimento, nella seconda, nell’apparenza di una permissività globale, in realtà c’è il triste segno di un nichilismo sconsolato, per dire alla fine è tutto uguale, siamo soli… Orribile a dirsi, orribile e invalidante solo a pensarsi. Lo sbaglio è più dolce della tentazione dell’autonomia perché c’è qualcuno (o Qualcuno) che ha cura di te, non è tutto freddo e uguale, c’è una strada. Come dire, vivere e (anche) sbagliare sapendo che c’è comunque un papà che ti guarda, che ha cura di te, non è la stessa cosa che far quel che ci pare perché tanto a nessuno importa di ciò che fai (purché non lo disturbi). Io la leggo così.
Comunque questo è anche per salutare il ritorno di un mio vecchio amico, uno di quelli con cui ho condiviso tanti anni. Uno di quelli che quando serve è sempre lì, a volte non sai cosa dire ma non fa niente, lui non ha bisogno di parole ti offre la sua musica e tu lasci che sia lei a parlare, lasci che sia il suo ritmo a scaldarti il cuore quando sente freddo (I let the drums do the talking, cantava Nik Kershaw tanti anni fa, in uno splendido pezzo). Come un riepilogo veloce – quando ne avessi bisogno – del fatto che le cose belle ci sono, esistono.
Mike Oldfield è così. Uno di quelli che ha fatto sempre musica della più varia possibile, dai pezzi sinfonici alle suite progressive fino alle canzoni più commerciali. Ma l’ha fatto e lo fa a modo suo, personalissimo (come ogni vero artista) e io riconosco e leggo e avverto il codice sottotraccia che attraversa tutta la sua produzione, dai pezzi ambiziosi e folli e fantastici come Amarok alle canzoni – se vogliamo – più radiofoniche come quelle di Man on The Rocks. Il messaggio di speranza (parola forte eh) che passa in tutta la sua produzione, mi arriva nelle cellule, le riorganizza, riattiva le dinamiche virtuose sopite, mi rimette in assetto, mi restituisce un po’ di allegra baldanza.
E’ musica – finalmente! – non intrisa di relativismo o nichilismo, è musica che dice quello che il tuo cuore cerca, esiste e lo dice in ogni nota, lo dice in una canzonetta con voce e chitarra o in un pezzo complicatissimo e progressivo. Ti dice che puoi navigare, che è bello navigare, perché la vita in fondo è buona. Ti dice che in fondo vale la pena. E’ semplice, non so come è, ma l’avverto subito. Ascolto due o tre note in fila, la sua chitarra, e avverto sempre questo messaggio, vale la pena. E così lo avverto in questo ultimo lavoro. D’accordo, sono canzonette (ma di che qualità, comunque), se proprio volete dir così. Ma la struttura interpretativa del reale che trasmette, è quella che più mi fa bene, mi costruisce, mi fortifica.
Bentornato.
Insomma, hai questi ottantadue minuti… ascolti, un po’ impaziente, cerchi il succo, le parti decisive. E dopo un pochino ti chiedi, ok, quale è il punto? Dove è che si comincia a fare sul serio? Dove sta un vero climax? Dove mi porta questa musica? Il fatto che mi spiazzava era questo, che la musica non mi portava da nessuna parte. Volevo farmi condurre, ma rimanevo al palo. Allora mi annoiavo.
Ogni tanto lo risentivo. E rimanevo in questo stato di perplessità, gli davo un garbato credito, più per il nome del musicista che per l’impatto dell’opera su di me.
Fino a che sono andato a correre. Lì sì, lì ha funzionato veramente bene. Correvo e osservavo la natura, e le note con i percorsi indefiniti, o candidamente ripetuti, non erano più un problema. Affatto. Era come una patina dorata che si appoggiava delicatamente sulle cose, specialmente sugli alberi, le piante, sul tramonto stesso. E la ripetizione non era monotonia, ma era funzionale all’avvicinamento graduale alla sostanza delle cose. Un avvicinamento delicato, uno svelarsi progressivo e rispettoso. Finalmente qualcuno che suggerisce, e non cerca di riempire a tutti i costi.
Anzi, non risolverebbe nulla. Rimarremmo sempre in superficie. Passeremmo la vita alla superficie delle cose: ben più tragico che sentire la morsa del vuoto, a pensarci.
Ditemi se non è cosa che valga la fatica delle nostre giornate…
Io: No, veramente non mi pare…