Blog di Marco Castellani

Categoria: Oldfield

Ritorno a Ommadawn (il maestro, è tornato)

Credo che anche per l’autore, avere l’ardire di intitolare una composizione nientemeno che Return to Ommadawn sia una cosa impegnativa, e non troppo comoda. Così alto è — nella mente di molti — il termine di paragone, quell’Ommadawn che Mike Oldfield fece uscire come suo terzo album in studio. Parliamo, ragazzi, del lontano 1975.
Ora, probabilmente alcuni dei miei lettori nel 1975 non erano nemmeno nati. Ebbene, Mike Oldfield era diventato improvvisamente famoso con il suo Tubular Bells, due anni prima. Ommadawn è formato da una suite articolata in due parti (corrispondenti alle due facciate di un disco a 33 giri, tanto per capire come la creatività e la tecnica sempre si allacciano). Non c’è da spenderci molte parole, in questa sede: a detta di molti rimane il suo capolavoro, tuttora. Personalmente ritengo Amarok il suo lavoro più coraggioso e insieme più riuscito, così speciale e geniale che a mio parere è davvero uno dei dischi più importanti del secolo scorso, perlomeno nell’ambito della nuova musica.
E Ommadawn non è appena un disco: è un mondo, comunque.
Ecco, tanto per dire che tornare ad Ommadawn non è affatto uno scherzo. E’ tornare su un livello, approdare ad un plateau, che si è saldamente ancorato nell’immaginario di moltissime persone. In forza di quello che hanno provato ascoltando il disco, molti anni fa, e un una serie di reiterati ascolti: in forza di una esperienza. Roba da far tremare i polsi, anche a chi l’ha creato.
Dunque il titolo è impegnativo, di per sé. Ma ha la sua ragion d’essere: lo schema di due parti di Ommadawn è ripreso fedelmente, quasi fino alla stessa durata (questo, è poco più lungo). Siamo lì, siamo tornati in quel territorio.
Vorrei far notare, che tornare dopo quarantadue anni, in sé è una certificazione di valore tutt’altro che scontata. Si torna in forza di un interessa che rimane, che perdura. Si torna perché si riconosce un punto di valore che il tempo non ha fatto sbiadire.
Devo anche dire che non ci credevo.
No, non ci credevo più, in questo ritorno. Ci speravo, certo: ma senza crederci davvero. Dopo Man on the Rocks, gradevole ma così pienamente integrato nell’orizzonte del pop/rock radiofonico di buon livello (e con qualche guizzo sì, perché il genio è sempre tale), temevo che Mike, il mio Mike, si fosse stancato di scavare nel cercare l’oro, si stesse insomma avviando verso una onorevole pensione, diciamo, diluendo un po’ il suo talento in realizzazioni parziali, poco ambiziose.
Che poi niente, a volte non si può essere obiettivi. Quando è piuttosto una questione affettiva, non ci si reinventa di colpo critici equilibrati. Quando i ricordi tornano ad un ragazzo che provava a registrare su nastro Incantations con un microfono appoggiato vicino all’altoparlante di una radio, in una cucina resa più silenziosa possibile. A quel ragazzo che fu folgorato quando gli capitò di vedere in televisione una performance live di QE2. Che impazzì a riascoltare Tubular Bells 2 e poi Tubular Bells 3 un insano numero di volte. Che sull’onda emozionale impalpabile ma concreta di Tubular Bells 3, onda lunga, aprì un gruppo su Internet per riunire i fans, quando ancora non era affatto pratica comune, quando Facebook non esisteva affatto. Era il 5 ottobre del 1998. Un altro millennio.
Ora torniamo in queste atmosfere, ci tuffiamo in un periodo, in un mood, che si pensava chiuso per sempre. Affidato appena al pensiero nostalgico, semmai. E invece no, è qui. E’ qui di nuovo.
Lo stupore è grande, per me. Ed anche la gratitudine, per avere qualcosa così da poter ascoltare. Quel poco che ne dirò, sull’ascolto, è frutto di un incontro ancora molto recente, ma già appassionato. Un incontro che le parole non posso rendere se non per approssimazione, essendo metaverbale per eccellenza.
Dunque. Se la prima parte è gradevole, è bella, è la seconda che mi cattura completamente. Quel punto in cui non puoi essere — diciamo-— finalmente più disincantato e obiettivo, non puoi essere più moderatamente cinico e freddo, dove la semi-delusione ordinaria trova un punto di sospensione, perde aderenza, si scioglie finalmente. Quel punto di aggancio avviene e la musica ti dice ora vieni dove ti porto io perché io sono in risonanza con il tuo cuore, lo sono come tu stesso non riesci quasi mai ad essere. Quando dice così una musica, un quadro, un libro, è imperativo ascoltare. E’ come se ti dicesse qualcosa di enormemente importante per te.
E che c’è di più importante della percezione della bellezza, dell’armonia, quale informazione più di questa vogliamo ascoltare dall’Universo?
E’ quel tema, per me. Entra poco dopo il secondo minuto, in modo sussurato, sommesso. E poi cresce. Viene lasciato, ripreso. Ma mi aggancia subito. Poi nel finale esplode e tu ormai sei lì, sei nel finale, ci sei dentro completamente, ogni tua fibra ne risuona, non puoi evitarlo, non vuoi evitarlo.
Quando si agganciano tali corrispondenze è sempre un evento magico, da guardare con grande rispetto. Qualcosa succede. Qualcosa accade tra la struttura del cuore e i suoni che arrivano all’orecchio. Un linguaggio misterioso e non verbale dice cose e ottiene risposta, coinvolgimento.
Dopo l’ascolto mi rimane nel sangue la struttura di quel grappolo di note. La struttura ricircola nella mente, come un loop balsamico, qualcosa che ripete il suo messaggio di armonia nascosta, lo prolunga nel tempo.
Così mi capitava con Tubular Bells 3, e in quel caso era la modulazione di apertura e chiusura, sussurrata dal vento. Mi capita di nuovo, adesso.
E’ sempre bello innamorarsi, e innamorarsi di una musica non è troppo diverso da altre forme di innamoramento, nel senso che porta a galla un’armonia tra le cose che tu quasi non vedevi più.
E non ci vogliono discorsi — ci vuole una musica. Un suono. Una modulazione dell’essere. Dove ci stanno mille discorsi insieme e non ce ne è al contempo nessuno. Dove la mente viene liberata e non invasa.
Liberata, per una corrispondenza.

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Sailing

Salpare. Smetterla con questa vista già ben saputa, di barche ormeggiate al porto: alzarsi ogni giorno, colazione e quotidiano e chiacchiere per convincersi che no, oggi forse fuori c’è maretta, meglio non muoverci. Aspettare, non rischiare più di tanto, rimanere in porto…. Invece no. Salpare. Andare in mare, perché la barca è fatta per questo. Vivere ogni situazione fino in fondo, vivere sempre intensamente il reale (L’unica condizione per essere sempre e veramente religiosi è vivere sempre intensamente il reale, senza rinnegare e dimenticare nulla dice Don Giussani, e quanto viene dimenticato quando non fa comodo al nostro gioco di sponda, di piccole infelicità covate, di quieta invidia per una vita piena).

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Vivere sempre tutto, anche gli sbagli viverli – quando capita di sbagliare – e poi si può comunque tornare indietro a chiedere scusa, a chiedere perdono. Non siamo perfetti non pretendiamo da noi stessi la perfezione. Smettere di stare a valutare la robustezza dello scafo, a fare conti sterili su quanto e dove potrebbe portarci se solo ci decidessimo. No no, invece partire salpare prendere il largo. Onorare la vita che ci chiede di vivere. Sentire il vento sulla faccia lo spruzzo dell’acqua fredda e salata che ti urta ma ti fa capire ti fa sentire che sei vivo e che stai facendo quello che devi fare, vivere. 

Cast the lines away

From the dock at the harbour bay

All those cares and worries and woes

You can save them for another day

Because we’re sailing, sailing

Yes we’re sailing, sailing

(Mike Oldfield, Sailing)

Lasciamo la paura di sbagliare dietro, lasciamocela scorrere sulla pelle e disperdersi nel vento. Paura di sbagliare? Ma  certo che sbagliamo, come possiamo evitarlo? Io ho sempre fatto solo sbagli ma uno sbaglio che cos’è cantava Lucio uno dei grandi della nostra canzone (uno dei due grandi). E anche un tipo che magari non è stato sempre nelle mie preferenze musicali, Noi siamo liberi, liberi, liberi di sbagliare siamo liberi liberi di volare… Che poi uno che ha scritto una canzone come Sally e soprattutto l’ha affidata alla Mannoia, che gli vuoi dire… 

Ora stavo pensando comunque che la frase di Vasco liberi di sbagliare mi piace molto molto di più di una frase che uno potrebbe dire liberi di far ciò che vogliamo … Sì la seconda mi sembra più fredda, liberatoria solo in apparenza. Perché nella prima si sente la presenza di un sistema di riferimento, nella seconda, nell’apparenza di una permissività globale, in realtà c’è il triste segno di un nichilismo sconsolato, per dire alla fine è tutto uguale, siamo soli… Orribile a dirsi, orribile e invalidante solo a pensarsi. Lo sbaglio è più dolce della tentazione dell’autonomia perché c’è qualcuno (o Qualcuno) che ha cura di te, non è tutto freddo e uguale, c’è una strada. Come dire, vivere e (anche) sbagliare sapendo che c’è comunque un papà che ti guarda, che ha cura di te, non è la stessa cosa che far quel che ci pare perché tanto a nessuno importa di ciò che fai (purché non lo disturbi). Io la leggo così. 

Comunque questo è anche per salutare il ritorno di un mio vecchio amico, uno di quelli con cui ho condiviso tanti anni. Uno di quelli che quando serve è sempre lì, a volte non sai cosa dire ma non fa niente, lui non ha bisogno di parole ti offre la sua musica e tu lasci che sia lei a parlare, lasci che sia il suo ritmo a scaldarti il cuore quando sente freddo (I let the drums do the talking, cantava Nik Kershaw tanti anni fa, in uno splendido pezzo). Come un riepilogo veloce – quando ne avessi bisogno – del fatto che le cose belle ci sono, esistono

Mike Oldfield è così. Uno di quelli che ha fatto sempre musica della più varia possibile, dai pezzi sinfonici alle suite progressive fino alle canzoni più commerciali. Ma l’ha fatto e lo fa a modo suo, personalissimo (come ogni vero artista) e io riconosco e leggo e avverto il codice sottotraccia che attraversa tutta la sua produzione, dai pezzi ambiziosi e folli e fantastici come Amarok alle canzoni – se vogliamo – più radiofoniche come quelle di Man on The Rocks. Il messaggio di speranza  (parola forte eh) che passa in tutta la sua produzione, mi arriva nelle cellule, le riorganizza, riattiva le dinamiche virtuose sopite, mi rimette in assetto, mi restituisce un po’ di allegra baldanza.

E’ musica – finalmente! – non intrisa di relativismo o nichilismo, è musica che dice quello che il tuo cuore cerca, esiste e lo dice in ogni nota, lo dice in una canzonetta con voce e chitarra o in un pezzo complicatissimo e progressivo. Ti dice che puoi navigare, che è bello navigare, perché la vita in fondo è buona. Ti dice che in fondo vale la pena. E’ semplice, non so come è, ma l’avverto subito. Ascolto due o tre note in fila, la sua chitarra, e avverto sempre questo messaggio, vale la pena. E così lo avverto in questo ultimo lavoro. D’accordo, sono canzonette (ma di che qualità, comunque), se proprio volete dir così. Ma la struttura interpretativa del reale che trasmette, è quella che più mi fa bene, mi costruisce, mi fortifica. 

Bentornato. 

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Correre tra luci ed ombre…

Quanto si apprezza di più la musica quando si corre. Quando la fatica ti allenta un momento la maglia fitta dei pensieri, quel lavoro incessante della mente che di solito ti scherma dalla meraviglia, fa come una rete di protezione dietro la quale non vedi più, non ti riesci a meravigliare più. Qualche giorno fa sono andato a correre, macinando sentieri di montagna abruzzese con Light & Shade di Mike Oldfield nelle orecchie. Un doppio disco con cui ci ho spesso litigato. Diciamola tutta: inizialmente è stata proprio una delusione, temperata solo dalla mia inossidabile stima per questo straordinario musicista.

Insomma, hai questi ottantadue minuti… ascolti, un po’ impaziente, cerchi il succo, le parti decisive. E dopo un pochino ti chiedi, ok, quale è il punto? Dove è che si comincia a fare sul serio? Dove sta un vero climax? Dove mi porta questa musica? Il fatto che mi spiazzava era questo, che la musica non mi portava da nessuna parte. Volevo farmi condurre, ma rimanevo al palo. Allora mi annoiavo.

Ogni tanto lo risentivo. E rimanevo in questo stato di perplessità, gli davo un garbato credito, più per il nome del musicista che per l’impatto dell’opera su di me. 

Ricordo invero anche qualche occasione in cui mi è parso particolarmente significativo, direi nutriente. Erano occasioni d’ascolto in cui non davo mai piena attenzione alla musica: di solito stavo anche facendo altro. Così permettevo che le note, le sonorità mi scivolassero addosso, senza difese. E funzionava. Incredibilmente, funzionava.

Fino a che sono andato a correre. Lì sì, lì ha funzionato veramente bene. Correvo e osservavo la natura, e le note con i percorsi indefiniti, o candidamente ripetuti, non erano più un problema. Affatto. Era come una patina dorata che si appoggiava delicatamente sulle cose, specialmente sugli alberi, le piante, sul tramonto stesso. E la ripetizione non era monotonia, ma era funzionale all’avvicinamento graduale alla sostanza delle cose. Un avvicinamento delicato, uno svelarsi progressivo e rispettoso. Finalmente qualcuno che suggerisce, e non cerca di riempire a tutti i costi.

Infatti il vuoto si avverte, a volte (e non è una sensazione piacevole). Tutti corrono a cercare di riempirlo, ma c’è, capita di trovarlo, di sentirlo. Anche tanta musica cerca di riempirlo: troppa. Non questa, comunque. E la cosa va bene, perché l’armonia nascosta delle cose, non più contrastata, può venire alla luce. Quello che prima sembrava semplicità eccessiva nella mia corsa si tramuta in finissima delicatezza. Le impressioni possono allora rimanere aggrappate alla musica, alle sue maglie larghe.
C’è il vuoto, ti prende il cuore come un messaggio che va ascoltato:  coprirlo di forza non è una buona idea, non funziona. Cioè funziona, ma solo per poco. Poi tanto lui torna a galla. E invece lasciarlo venir su, esser disposti a soffrire e a farselo passare addosso, questo può essere una strategia migliore per superarlo, per continuare il cammino. Essere dolci con il vuoto, anche. Faticoso, certo. Vorremmo scappare, non vederlo. Non vedere dentro noi stessi, coprirlo. Far finta che non ci sia. Sarebbe più comodo, da un certo punto di vista. Ma non risolverebbe molto.

Anzi, non risolverebbe nulla. Rimarremmo sempre in superficie. Passeremmo la vita alla superficie delle cose: ben più tragico che sentire la morsa del vuoto, a pensarci.

Allora sei dentro, ci sei dentro. E devi camminare. Anzi, talvolta, anche correre. E allora corri, in questa situazione. Corri con le gambe e il tuo animo cammina. E camminando, anche lentamente, già respiri ed ogni cosa è più illuminata. Mi pare che alla fine conti questo, la disponibilità a camminare, più che tante altre cose e di tanti bei propositi.
E vedi appunto il tramonto e la vegetazione nella sera, e la musica aderisce così bene, così bene a tutto quanto, a tutta lo stupore per il tramonto del sole – un prodigio quotidiano a cui solo la mia abitudine e la mia  distrazione ha potuto rubare la perpetua meraviglia.
Arrivare a vedere tutto come un prodigio, risvegliarsi dall’abitudine, sarebbe straordinario. Se ci mettiamo all’opera, accettiamo di fare un lavoro su noi stessi, pian piano possiamo, sì. Possiamo recuperare questa dimensione della meraviglia, possiamo allargare una epifania sperimentata durante una corsa, portandola nella vita ordinaria. Dismettere la istintiva diffidenza verso il mondo, per aprire davvero gli occhi, e scoprire che niente è mai uguale, in fondo niente è già visto.

Ditemi se non è cosa che valga la fatica delle nostre giornate…

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Allora, la musica inglese, non la sai…

Scendo in garage con la deliziosa compagnia di Agnese. Per l’occasione, mi intrattiene facendomi alcune domande musicali. In quel che segue, elaboro un pochino il senso del dialogo di stamattina.
Agnese: Allora, questa canzone la conosci? La la la…
Io: No, veramente non mi pare…
Agnese: ma come, è quella tal cantante … ! Famosissima! Si sente in televisone! Davvero non la conosci?
Io (crescente imbarazzo): Mi pare proprio di no. Ma se me la presenti, magari…
Agnese: e poi quel gruppo.. che fa quella canzone…
Io: Ma proprio no, mai sentiti. 

La conclusione è ferrea.
Agnese: Ma insomma tu che musica conosci? Ma che sfigati ascolti? Vediamo… 

Breve riflessione.

… intanto, la musica inglese non la sai.

Fermi fermi. FERMI TUTTI! La musica inglese non la so? La musica inglese non la so?

Cara la mia piccola bimba di dieci anni, carissima Agnese che ti affacci sul mondo magico di armonie e suoni. Non mi dire che la musica inglese non la so, non lo mando giù. Ho passato decenni interi ascoltando i Beatles, i Pink Floyd, i Genesis. In più, vi faccio due scatole così ogni volta che venite in macchina con me (finché ancora ci venite) facendovi ascoltare praticamente l’opera omnia di Mike Oldfield (Amarok però me lo vietano, purtroppo… devo stare da solo per sentirlo. Epperò prima o poi, lo dovranno scoprire, questo tesoro).
E Kate Bush? E Loreena McKennit, Enya (irlandesi, ma va beh, siamo lì)? E Norah Jones? Ah no, quella è americana. Vabbè, come non detto, levate l’ultima. E’ che per me ha comunque qualcosa di british, non so…
E poi, Agnese cara… Dove eri quando il tuo papà ha preso quella tremenda sbandata, durata mesi e mesi, per  Tubular Bells III? Ah ok, non c’eri ancora. Tieni allora, guarda che ti regalo. Per me questa è musica inglese. Anzi, è musica e basta. Tu mi dirai, è roba dell’altro millennio. Beh, ma è pur sempre vino di botte buona, dico io.

… La musica inglese non la so? 

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