Posso grattarvi la schiena?

Oggi è stata la volta di And I’ll Scratch Yours. Che sarebbe, insomma, Vi gratterò la schiena. Ultimo disco di Peter Gabriel, appena uscito.
Cioè.
Come mi faceva notare mio figlio, non è proprio un disco di Peter Gabriel. Il fatto è questo: lui se ne esce con una serie di canzoni nelle quali… non avrebbe proprio fatto nulla! Niente altro che raccogliere e selezionare delle cover per i suoi brani più famosi. Non è da tutti uscire con un album… senza dover avere la preoccupazioni di scrivere una nota.
“Inquietante” fin dalla copertina… 😉
Così anche sul web leggo commenti di gente (giustamente?) un po’ indignata, del resto come accadeva con la prima parte del progetto, quell’iniziale Scratch my Back, quella sbarazzina proposta Grattami la Schiena in cui Peter si esercitava in cover di altri artisti. Gente che diceva e dice (giustamente?) ma quand’è che ti metti a fare nuove canzoni, Peter?
Diciamolo subito. Per me Peter Gabriel è uno che la musica la sa scrivere. E la sa scrivere molto bene. E soprattutto, scrive quella musica che io voglio ascoltare (il resto della musica non mi interessa). E’ uno che mi riesce ad inviare dei segnali davanti ai quali posso andare oltre la semplice percezione estetica di un bello: sono segnali che il mio cuore riconosce e interpreta come particolarmente appropriati e favorevoli a quella comprensione (direi) metafisica del cosmo così sfuggente a parole, così esulante da ogni articolazione verbale, e tuttavia così necessaria. Insomma, il potere dell’arte, possiamo dire. Quelle cose per cui uno – non si sa come – si sente più amico del mondo e di se stesso.
Con tutto ciò ero perplesso anch’io. Ennesima operazione commerciale? Furba trovata di un artista che vive della sua pur meritata fama senza però proporre qualcosa di suo?
L’ascolto dei preview in iTunes mi ha comunque convinto ad acquistarlo. C’era qualcosa… Stamattina l’ho portato alla prova del fuoco, l’ho fatto fluire negli auricolari dell’iPhone mentre correvo al parco. E mi sono deciso. Io amo questo disco. 
Intanto vi sono artisti del calibro di David Birne, Brian Eno, Lou Red, Paul Simon. Ma fosse solo questo, non sarebbe ancora abbastanza. 

La prima impressione è di sorpresa. Le canzoni sono molto diverse dall’originale, sono tutte molto ripensate. Eppure si sente una sorta di rispetto, non sono stravolte. Solo, assumono come un altro colore, risuonano secondo altri rapporti, altre suggestioni. Così pensavo, Peter è come i Beatles (affermazione importante, della quale mi assumo la responsabilità). In qualsiasi salsa lo presenti, è sempre bello. Ne evinco una cosa: il nucleo pulsante, il centro di interesse, è nascosto nella parte più intima della musica, non nell’arrangiamento. Come tale, viene preservato dalle nuove interpretazioni. Brilla, e continua a brillare.
Anzi queste nuove interpretazioni mi destano nuovo interesse. Come se lo stesso nucleo pulsante, illuminato da una luce nuova, potesse finalmente mostrare aspetti diversi, esporre zone finora rimaste in ombra. Facendomi capire che c’è di più, c’è più sugo da estrarre di quanto si poteva pensare nell’ascolto dell’originale.
Come sempre, è correndo che riesco ad ascoltare la musica con maggiore attenzione. Sospetto che sia per quello, che mettendo l’ego da parte – distraendolo con la fatica – io sia libero di attingere con più apertura ad ogni proposta artistica.
C’è come una dominante, nel disco. Mi sembra straordinariamente unitario, come clima musicale, considerato il fatto che è stato realizzato da artisti diversi. I suoni degli strumenti mi arrivano spesso come sgraziati, impastati nei rumori – eppure parlano, parlano di più che se fossero lisci e smussati. Mi fa pensare a com’è la pasta casareccia. E’ ruvida e imperfetta al tatto, ma raccoglie più sugo.
Poi c’è questo. Che dobbiamo entrare nel merito. Lo sappiamo: le canzoni di Peter parlano spesso di una disarmonia, di una distanza, di una estraneità. Come se molte volte dica, beh ragazzi qui c’è qualcosa che non va (perdonate la drastica semplificazione). E il suono di queste canzoni aderisce a questo, fino dalla scelta timbrica. Così ogni aspetto è in relazione all’altro.
Però è quel tipo di attitudine che invece di gravarmi addosso, mi libera. Come uno che abbia l’onestà di dire il suo imbarazzo nella percezione del mondo e dell’uomo così come ce la restituisce l’evo attuale – e fa quello che un artista deve fare: lo esprime.
Ed è per me più liberante più di un disco perfettamente impacchettato e superficialmente sereno (proiezione perfetta dei discorsi da nichilismo divertito di cui parlavo nel post su Lampedusa). Perché pesca nell’ambito delle cose ultime, le più importanti: musica bruckneriana, direi. Non cerca di di-vertirmi, di farmi evadere da me stesso. 
Così è il mistero dell’arte, la vera arte. Il disagio, l’estraneità, la stessa disperazione, vengono innervate di senso e restituite perché noi le si possa meglio elaborare. Consapevoli che ogni percorso di liberazione personale richiede un lavoro, una discesa verso il basso, una accettazione di ogni parte d’ombra.
E l’arte può essere funzionale a questo lavoro. Anzi, la vera arte, lo è sempre stata.

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New Blood, due appunti

Mi sono deciso, alla fine. Sono due giorni che vengo al lavoro ascoltando New Blood, il disco dove Peter Gabriel ha scelto di incidere alcune sue celebri canzoni presentandole in chiave orchestrale.
Davanti a questo progetto sono abbastanza in bilico. Mi piace la musica sinfonica, adoro il tardo romanticismo e sono folle di amore e ammirazione per Gustav Mahler e per Anton Brucker. Per dire, insomma, che l’orchestra non mi spaventa.
Eppure per qualche motivo, rimango un pò interdetto. Faccio due premesse: una è che, nel panorama musicale odierno, ogni nota che esce da un disco come questo è comunque mirabile. La seconda, è che magari con ascolti ripetuti verrò a rivedere alcune mie impressioni (non ne sono certo, ma è possibile).
Certe rivisitazioni mi sembrano più riuscite. Ad esempio, la versione di Digging in the Dirt è proprio bella. L’orchestra ci sta bene, l’arrangiamento è veramente godibile. Non l’avrei detto, visto il tipo di canzone. Anche quel capolavoro sublime che è Darkness ne esce bene, proprio bene.
D’altra parte, Don’t Give Up ha questa Ane Brun alla voce, che (chiedo venia) mi fa gemere di nostalgia per la versione con la mia amata Kate Bush. Forse non ho colto la scelta interpretativa, ma questa voce tremula non mi riesce proprio a conquistare. Insomma, se dici Don’t Give Up, se esorti a non cedere, non è che puoi dirlo (penso io) con una voce che già sembra instabile di per sè. Devi essere esortativo, affermativo, ti ci devi buttare. 
Su Red Rain, lì crollo completamente. A metà brano mi assale una voglia irresistibile di ascoltare la versione originale, con lo stupendo crescendo ritmico di Jerry Marotta. Il problema è che mi manca troppo. Eccola.

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