Qualche appunto a margine della “Lezione di Rock” sul disco Wish You Were Here dei Pink Floyd, tenuta all’Auditorio del Parco della Musica (Roma) il 13.2.2011.

Gino Ernesto e Assante Castaldo sono stati bravissimi. Ci hanno trasportato in un romanzo, un’avventura splendida ed interessantissima.

Tutto è cominciato dall’ascolto di quella prima nota trattenuta, lunga, quasi inquietante, sulla quale si apre Wish You Were Here (il disco tema della serata)… come un inizio che ha già dentro tutto. Poi si è sviluppato il tema di Syd Barret, un tuffo all’indietro nei primi Floyd, le canzoni da solo, quando era stato estromesso dal progetto Pink. Il rapporto tormentato con gli altri membri del gruppo, i problemi psichici e di dipendenza da droghe. Il suo carisma, perdurante nonostante tutto, le innovazioni musicali portate… tra parole e canzoni, tra discorsi e proiezione di video famosi o canzoni semisconosciute, un percorso indubbiamente di grande fascino.

I due sono stati bravissimi perché – al di là della indubbia competenza e capacità comunicativa – hanno gettato su ogni considerazione una luce “filosofica”, facendo sempre riferimento ai grandi problemi dell’esistenza umana. Dalla mancanza di Syd nel gruppo, al tema della “mancanza” in se (quanto mai interessante, dominante, moderno, fondamentale). Hanno ragione quanto dicono che i Pink, disco dopo disco, alzano la posta, puntano sempre più in alto. Il gioco si fa serio, l’obiettivo è ambizioso: scandagliare il senso stesso dell’esistenza.
E’ inevitabile (e gustoso) il tuffo indietro nella psichedelia, nella scena musicale inglese degli anni ’60. La rivoluzione portata da quei quattro ragazzi. Lo scardinamento della forma canzone (lucida l’annotazione  di come la musica di oggi, che pure amiamo, sia tornata molto più convenzionale, “strofa-ritornello-strofa”, rispetto agli esperimenti del rock progressivo e di tanti pezzi dei Pink. Careful with that axe Eugene… “Attento con quell’ascia, Eugenio”. Niente ritornelli, solo un lungo pezzo di musica. Un urlo….)
E’ vero anche questo, sono pezzi che potrebbero durare 4 minuti, o 10, o 15, sono molto più “liberi” di quanto siamo abituati ad ascoltare oggi.
Poi veniamo di nuovo proiettati in avanti: i concerti, l’analisi del momento del grande successo dopo il “disco perfetto” (The Dark Side of The Moon). Infine, l’approdo alla elaborazione/risoluzione del “problema Syd” – rimasto sempre come pendente, ingombrante presenza su tutto il gruppo – con Wish You Were Here. Non manca la tesi originale, avanzata dai due relatori: la chiusa di Wish rivelerebbe un Roger Waters che ormai quasi si identifica con Barret, non dice più “tu” (come nella prima parte) ma arriva ad un “noi”; e questo dopo che il disco è passato attraverso una lucida analisi dei meccanismi impietosi della “macchina” (musicale, ma non solo: Welcome to the Machine, Have a Cygar).

Meccanismi che stritolano l’uomo e lo rendono schiavo (tema ripreso poi anche in The Wall, seppure in una diversa chiave), capace solo sognare la liberazione, ma come in un sogno triste senza apparente presa sul reale. La scommessa, penso io, è tutta qui: è se invece un modo ci sia, un percorso di “liberazione”, di “umanizzazione”, possa esistere. Se Qualcuno, in un certo momento, in un certo punto della storia, ce lo abbia indicato. Ce lo abbia, di più, guadagnato. E che sia vero, ora.

Ognuno qui decide secondo la sua libertà (e qualunque sia la sua posizione, ogni mattina è chiamato a decidere, a investire di senso la sua giornata), paragonando la sua esperienza con le esigenze del suo cuore. Mettendosi in ascolto. Vivendo. Comunque, non può non convenirne: questo è il punto.

Eccoci al punto, anche della serata: Roger riveste, secondo la tesi, l’uscita prematura di scena di Syd Barret con la sembianza di una opzione, di una scelta quasi volontaria, dettata da una valutazione del gioco che gli altri non avevano ancora… Il gioco della rockstar e quello del vivere si mescolano, inevitabilmente. E la posta è alta, altissima. Senza una guida – penso io – una Presenza dolce che ti aiuti a traversare il mare del vivere, si può purtroppo – tragicamente – arrivare ad invidiare anche la crisi, l’uscita dal gioco. A vedere la triste pazzia, la nuda follia, come una lucida scelta, un’opzione di libertà.
E’ ancora Roger che nel disco dice forse, riferendosi alle difficoltà sperimentate del gruppo nella fase “post Dark Side” (il successo, i soldi… ma perché, a che serve? Quasi come appuntava Pavese: “A Roma apoteosi.E con questo?”),  che confessa, che ammette: “Vorrei che IO fossi qui”.
Poi tantissime altre note, musicali e raccontate. Due ore e tre quarti, ma ad un certo punto ti metti più comodo e il tempo non importa più. Staresti lì fino a mattina, perché senti che non è tempo perso. Sei su un percorso di scoperta…
Scopri come queste cose possono essere trattate con serietà e competenza, scopri come ti arricchiscono, perché appunto si parla della posizione dell’uomo davanti al Destino, alla sua vita, alla ricerca di senso.
Scopri anche come è contagiosa la passione, vedi due persone serie ma appassionate e ti accorgi di come ti coinvolgono. Niente ti coinvolge così tanto come quanto vedi che coinvolge le persone che te lo annunciano. Giustamente, cerchiamo l’umano, in tutto.

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