Blog di Marco Castellani

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Iniziare a guarire

Le cose vengono un po’ da sole, è noto. O meglio, non sono sotto mai sotto controllo, sotto il tuo controllo. Sarebbe infatti superfluo dire che non avevo idea – non la avevo affatto – che questa onda , questa onda di necessità di guarigione sarebbe risultata così feconda, sarebbe stata intercettata, ripresa, rilanciata, in ambiti importanti, ma differenti da dove queste poesie sono nate.

L’ambito educativo, intendo. La costruzione della nuova umanità se non attraversa una istanza di guarigione, di vera guarigione, è soltanto l’ennesima violenza ideologica. Roba da scappar via, a gambe levate. Non disturbare, non distorcere, non deviare, riportarli a casa, a questo punto. Bring the boys back home, in caso. 

E’ per me già un grande risultato, da guardare con tremore e commozione, quello che è nato dal lavoro sul libro Imparare a guarire (Di Felice Edizioni, 2018), lavoro che nel contesto de La Scuola Visionaria hanno intrapreso i ragazzi dell’I.C. Corradini di Roma. Sotto la guida – che avverto illuminata e docile – della professoressa Carla Ribichini, questi ragazzi hanno iniziato  un po’ di tempo fa a lavorare sulle poesie del volume. Facendole veramente fiorire, oltre ogni mia possibile previsione.

E’ quando ciò che hai scritto, si rende seme di una nuova avventura, indizio di primi passi di una nuova umanità, di una prospettiva di crescere e guarire, ecco: è allora che tutto ciò che puoi fare, che devi fare, è rinunciare all’analisi, metterti da parte, e osservare. Zitto e guarda, insomma. Con gratitudine. 

Osservo allora ciò che nasce, che fiorisce, senza (troppo) interferire. Contento appena di essere un vettore di questa fioritura, un semplice ed umile lavorante in questo campo, sempre da dissodare e da tener pulito. Qualcosa che passa attraverso di te, ma non è tuo, di cui ti rendi strumento ma che non puoi possedere. Non c’è, probabilmente, motivo più grande per essere riconoscente. 
Ripercorro i primi segni di questo lavoro, le prime tracce luminose, con commozione. Leggo quello che hanno scritto i ragazzi, piccole donne e uomini di seconda media, e cerco di farmi da parte,  voglio farmi da parte, lasciando parlare soltanto il loro purissimo desiderio di guarigione. Un desiderio che non può che avere riverberi nella società, nel mondo, dalle cose più vicine, alle stelle. Non è infatti, di per sé, un desiderio contenibile, addomesticabile, non è un desiderio con dei bordi, dei limiti, delle frontiere. 
Così scrive Aurora, schiudendo un tesoro di candore e di sincerità soffusa,

Parte tutto da un semplice presupposto:
perché ci ammaliamo? Perché il nostro ego ci dà questo pensiero fisso:  stare male,  stare male dentro,  pensare di non andare bene, di non essere abbastanza. Stiamo male e non sappiamo guarire, è questo il vero dolore.
Voglio imparare a guarire dentro, a curarmi non con le medicine, anche se ho una mamma farmacista, ma magari con le dolci e morbide parole di una semplice poesia melodiosa.                                                                               
Tutto questo mi insegna a cambiare e a guarire.

Ora, guardiamo, guardiamoci dentro. In poche righe, c’è tutto, c’è veramente tutto. La fotografia della situazione in cui ci troviamo, la condizione umana com’è, fuori da tutti gli orpelli, gli abbellimenti e le maschere. Con una sincerità disarmante. Stiamo male e non sappiamo guarire, è questo il vero dolore. Quante parole inutili, quante ne spendiamo ogni giorno: tutte le parole che non dicono questo! Le parole che non dicono questo sono volgari, perché perdere deliberatamente tempo in chiacchiere è volgare. Meglio allora – chessò – una coraggiosa infrazione, una decisa irriverente trasgressione: perché lì, almeno lì, la ricerca della felicità non è ancora elisa, fermata, abortita. Davanti a parole inutili, no, io non ce la faccio più.

Però non ci si ferma lì, non si ferma lì, lei: c’è la tensione a cambiare, a curarsi non con le medicine, ovvero a non tamponare il disagio appena, ma lavorare in profondità (guarire dentro) per avviare una guarigione reale, non appena farmacologica. Questa guarigione, infatti, si nutre di parole, e queste parole possono certo essere dolci e morbide, parole di una semplice poesia melodiosa. La parola guarisce: questa è l’ipotesi positiva, la partenza di un viaggio. Questa è anche, se ci pensiamo, l’assunto di base di ogni approccio di guarigione, anche sotto l’aspetto direttamente psicoanalitico. Un rapporto terapeutico, proprio nel senso più ortodosso del termine, è fatto di parole. 

E una poesia, guarda caso, è ugualmente fatta di parole.

Qui riscopro io stesso, come in filigrana, l’origine profonda del titolo della raccolta, Imparare a guarire. Qui dunque arriva Aurora, giovane donna di seconda media che in tre frasi, in tre frasi appena, giunge sicura al punto d’origine, giunge certa al focus da cui tutto germoglia. Ciò che insegna a cambiare e a guarire, appunto. Mi piace l’accostamento delle parole cambiare e guarire, mi rimanda a quanto scrive Marco Guzzi nella prefazione al mio volume,

Imparare a guarire significa innanzitutto entrare in una dinamica esistenziale di trasformazione continua, significa mettere in discussione le nostre abitudini mentali e comportamentali, significa aprirci ad un radicale ricominciamento

Ci sarebbero molti interventi da citare, e magari si troverà un modo di raccoglierli, esporli, dare loro il rilievo che meritano. Per ora li conservo nel cuore, li riprendo nei momenti di oscurità, tanto possono fare luce, possono riscaldare, risanare. Strumenti di guarigione essi stessi, in pratica.

Riporto qui solo una altra suggestione, quella di Monica

Lo squarcio è una ferita aperta. E’ la fine fredda  delle mie cellule e, allo stesso tempo, uno spettacolare punto da cui ricominciare. Voglio essere come un globulo bianco e avere la forza di continuare, riempire e risanare tutte le ferite della mia pelle mortificata. Guardare oltre la crosta per quanto grande.  Non abbassare il capo, non farlo più!

Pero, che bello. Che bello percorrere, quasi scorrendo il dito, quasi toccandole, ripercorrere la scelta delle parole, soffermarsi, goderne.  La fine è un inizio, endings are just beginnings, penso. La fine fredda delle mie cellule – quella fine che non è più discorso, tempo a parlare trascorso, scende fino dentro le cellule – è al contempo uno spettacolare punto da cui ricominciare.  Cioè la crisi, la ferita aperta, è anche e soprattutto un punto di ricominciamento. Dipende insomma dalla prospettiva con cui guardi, probabilmente dipende da questo, carnalmente ne dipende.

Anche qui alla denuncia della condizione, segue rapida, incisiva, la tensione a progredire, a ricominciare, a risanare. E chiude con una spettacolare apertura verso una insurrezione. Perché poi tutto è uno, tutto converge al punto di guarigione. E ciò che ad oggi non parla di guarigione, non interessa, non interessa proprio più nessuno. La guarigione, che è anche sociale, che diventa irresistibilmente politica. Diventa materia da elaborare per una nuova umanità. 

Non abbassiamo il capo, non lo facciamo più.
Nel percorso di guarigione troviamo una nuova ragione, per essere al mondo,
per essere anche nel mondo. 

Me lo dicono, me lo suggeriscono due piccole donne,
in preannuncio nascosto di apertura, in incipiente,
risonante, tiepida fioritura.

Posso fidarmi, dunque. 

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La via della guarigione

Quando un libro viene pubblicato, ti accorgi presto, che non è un punto di arrivo, ma un punto di inizio. Perché comunque, a questa creatura nuova c’è bisogno – da subito – di volergli bene, di amarlo, di considerarlo non una cosa fatta per cui passare oltre, ma qualcosa da amare, da accudire, custodire. Prima ancora si sperare di piazzarlo qui o là, di vendere, di farlo circolare tra amici, parenti e poi in cerchi più allargati, prima ancora di cercare di compiacere l’editrice, che tutto sommato ha investito soldi su di te, ecco, c’è da fare questo. 

Nessuno si aspetta altro da te che tu ami la tua creatura. La ami così com’è, nella sua luminosa imperfezione (se perfino i capolavori sono imperfetti, chiaramente la perfezione non è la cosa da cercare), la ami come espressione di te stesso, espressione dialogante e come una apertura, una proposta, per chiunque ti incontri. 
La poesia è lo stupore di un nuovo inizio, di un inizio “bambino”, sempre… 
La poesia infatti è una proposta alla libertà di ognuno. La poesia è un grimaldello, anche. Sottilmente ma irresistibilmente antiretorico, è un grimaldello che disarticola ogni struttura di pensiero troppo consolidata, irrigidita, usurata da eccessive ripercorrenze quotidiane. La poesia scardina e liquida queste strutture, ma lo fa in modo accorto, in modalità sempre laterale, non frontale. Lo fa in tono sommesso per cui ti ridona morbidità di pensiero senza quasi che te ne accorgi. La poesia non sopporta i discorsi inutili, lei va al sodo: lustra la parola perché brilli.
Per questo è tragico che non si legga abbastanza poesia. Si leggono romanzi, saggi, dissertazioni (sempre poco). E non si legge abbastanza poesia. Perché c’è un pregiudizio, pesante, all’opera nelle nostre teste. 

Non avevo niente in particolare contro la poesia, però la trovavo decisamente una perdita di tempo. Nei casi migliori era uno svago o un esercizio letterario, in quelli peggiori, i più numerosi, era per me un’irritazione da evitare senza indugio. Poesia uguale debolezza, fuga dal reale, roba da sognatori o da gente complicata.”

Così scriveva Antonietta Valentini, qualche tempo fa, fotografando un atteggiamento molto diffuso (atteggiamento poi da lei stessa superato, come potete leggere). Dobbiamo infatti recuperare la consapevolezza che ci stiamo esattamente giocando l’opposto: la poesia è la possibilità diretta di entrare nel reale con una lucidità e consapevolezza nuova, con la mente spurgata da tanti inquinanti che la parola poetica, ovvero la parola usata in tutta la sua forza, può realizzare. 
Il titolo che ho scelto, Imparare a guarire, esorta consapevolmente ad un uso terapeutico della parola poetica, ben oltre la semplice percezione estetica (ma non troppo, in fondo la miglior cura è il bello). La prima sfida è per me: custodire questo libro, proporlo a chi mi vuole bene, a chi voglio bene, come canale di comunicazione privilegiato e diretto verso il cuore. Usarlo insomma come strumento di cura.
Del resto, è così per tutto. L’importante è esserci, non scappare. Rimanere, in questo. Avere il coraggio di respirare quel che si è scritto, distillato lungamente, in tante revisioni, a cercare la parola giusta, la parola esatta, come un colore, che si depone vicino agli altri per realizzare il quadro, secondo quanto deve essere fatto. 

Da ieri si può leggere online la bella prefazione di Marco Guzzi al mio volumetto; si può ordinare via ibs.it oppure all’editrice (info@edizionidifelice.it), fino al 20 di settembre ancora senza spese di spedizione. Se lo prendete, vi prego veramente di una cosa: leggete lentamente. Ci vuole spazio, tempo e spazio mentale, per aderire alla tavolozza di colori che ho provato a scegliere. Per non violentarla involontariamente. Non cercate ma fatevi cercare, non affannatevi per raggiungere, ma lasciatevi raggiungere. Siate spettatori passivi, provateci: cambia tutto. 
E’ un regalo di delicatezza che ho provato a fare, e a farmi. Una possibilità di (auto)guarigione, un avvio di guarigione, alimentato dalla morbidezza degli accostamenti delle parole, così come ho potuto, come mi è venuto. Un ritornare bambini senza infantilismo, ma nell’idea evangelica di apertura, di condizione necessaria – sempre da riprendere – per essere nel mondo, vivendolo davvero.
Quel che accadrà per questo libro, lo sanno le stelle. Ma fin d’ora è un canale aperto, una possibilità in più, di affratellamento intorno ai ritmi del cuore. Che sono quelli, sempre finalmente quelli, per tutti. 

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Imparare a guarire

Il fatto è che c’è sempre qualcosa che sborda, c’è sempre un overshooting, una volta chiuso qualcosa. Come se davvero non si potesse veramente chiudere qualcosa. C’è dunque qualcosa che rimane, che esorbita, che in qualche modo chiama ad una ripresa, ad un ampliamento, o una correzione di rotta. Un arricchimento, oppure uno sfilamento, un asciugare quello che è ridondante. Un dire meglio quello che c’è da dire,
 
Perché quello che c’è da dire non è un optional. E’ un lavoro che va fatto.
 
 
 
Questa nuova raccolta di poesie (sarà pubblicata in agosto), Imparare a guarire, è nata piano piano, e poi uscita – come la precedente – quasi sotto la pressione delle cose. Sono parole, appena. 

Non conosco nulla al mondo che abbia tanto potere quanto la parola. A volte ne scrivo una, e la guardo, fino a quando non comincia a splendere. (Emily Dickinson)

Sono parole arrivate in lenta progressione, accumulazione, in paziente precisazione. Arrivano e poi piano piano compongono un ambito, definiscono delle coordinate, un orizzonte. Cercano una visibilità e una loro specificità, ritagliano scenari, individuando dei colori dominanti. Che poi non vanno inventati, questi colori. non è uno sforzo di immaginazione, una strategia di composizione. Tutt’altro. E’ la vita che te li porge. La stessa che ti spinge a scrivere, ti fornisce il materiale grezzo, e la spinta per lavorarlo.

 
Molto di questo materiale è polarizzato dalla mia esperienza in Darsi Pace. Polarizzato, nel senso che il materiale viene ovviamente da ovunque ovvero dalla vita, in sé. Più ampia di qualsiasi catalogazione, esorbitante rispetto ad ogni schema. Allora è una sorta di griglia di ordine, appena, quella che viene ricercata, e che in questo caso è il percorso di ricerca di significato delle cose, che germina nella modernità di ricerca di significato di uno specifico percorso (che non elide o toglie spazio ad ogni percorso, semmai lo definisce meglio). 
 
E’ come un campo magnetico, una ipotesi di senso (sempre da verificare). Il materiale si ordina, allora, quasi spontaneamente. Non c’è ordine possibile nella mancanza di senso, infatti. L’ipotesi di senso permette al materiale della realtà – di cui sono fatte le poesie – di essere lavorato, come al materiale dell’animo. Peraltro ogni atto creativo, mi pare, si appoggia su una ipotesi di senso: altrimenti non è possibile. 
 
Imparare a guarire è fin nel titolo, la sommessa ipotesi di perpetua lavorabilità del reale,  del materiale reale fuori e dentro di noi. Oppure solo dentro, che il fuori ne deriva, comunque. E’ una sfida gentile a rimettersi in movimento, a camminare, appena, perché ogni materiale che incontriamo in realtà – lo sappiamo – è lavorabile, plasmabile. 
 
Questo progetto nasce e cresce, anche, per l’amichevole vicinanza di due poetesse. Due donne amiche dei versi, sacerdotesse delle parole, e sono davvero contento che sia così. Alessandra Angelucci, ha creduto subito nel mio materiale e mi ha insegnato discretamente come portare avanti l’opera. Valeria Di Felice ha accolto le mie parole e le ha fatte nascere, ospitandole nella forma di un libro per la sua coraggiosa e frizzante casa editrice.
 
La mia profonda gratitudine a Marco Guzzi (poeta, filosofo, creatore ed animatore dei gruppi Darsi Pace) per la bellissima prefazione, che a me rivela un amore all’idea di guarigione come riverberata nell’opera, e una attenta e partecipe lettura della stessa. La mia sincera gratitudine anche a Davide Calandrini, un amico bravissimo disegnatore, che ha fatto nascere la copertina, in un lavoro di paziente ascolto, prima di tutto delle mie parole scritte, e delle mie indicazioni. 
 
Ci sarebbe da ringraziare, ancora e tanto. Affetti, percorsi di guarigioni, terapie ed abbracci. Sorrisi e incoraggiamenti. Segni di stima, quando tu non ti stimeresti. Luci nel percorso. Soprattutto, chi condivide più vita con te, e ti incoraggia in modo implicito ma tenace, testardamente efficace. Ma rischierei di annoiare. Comunque è questo, sinteticamente: è tutte le persone che incontri e che ti fanno capire che essere te stesso è la loro gioia, in fondo. Tutto quello che ti chiedono, quello che desiderano nel rapporto con te (speculare a quello che tu desideri negli altri, quando non sei preso da una tua strategia piccola), è che tu sia te stesso. Che tu nasca. Ancora e sempre.
 
Finalmente può dire “Benvenuto Marco” mi scrive Laura, pochi giorni fa. Significativo. 
 
Ed è questo, che uscirà tra pochi giorni. La cosa più bella proprio è che è un lavoro di amicizie, in fondo. Non è roba mia, in fondo. Non penso che ci sia cosa più bella, lieta e robusta (a parte certi momenti di gioia donata), di un lavoro di amicizie: quasi, davvero, un anticipo di guarigione. 

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L’avventura della poesia

E’ come avventurarsi in un territorio nuovo. Sempre nuovo, ma segretamente amico. Come scoprire percorsi sottilmente fraterni. Percorrerli è avvertire delle misteriose corrispondenze, attivare delle risonanze che altrimenti resterebbero inespresse.
Tale è l’avventura poetica, nella sua essenza. Credo che la poesia rivesta un ruolo di perpetuo mistero, di splendida ostinata irriducibilità al senso del comune vivere. Chissà. Forse perché viene proprio per illuminare, per rischiarare il comune vivere, e dunque vuole, vuole farlo, deve farlo — necessariamente deve — da una prospettiva diversa.
Riguardo proprio adesso le mie povere poesie, quelle che piano piano sono venute, stanno venendo alla luce dopo la raccolta In pieno volo. E mi accorgo che è in opera lo stesso meccanismo, la stessa officina è attiva, è (ri)aperta. Soprattutto, capisco da dentro che la poesia si nutre di un enorme rispetto verso il potere della parola, vorrei dire, di ogni singola parola.
Lo capisco proprio dalla strategia compositiva. Che non la decido io, non la pianifico io, ma mi viene dettata da qualcosa, dall’esterno. Io di mio ci metto poco o niente. O meglio, ci metto tutto nella decisione di cedere a questo invito, a starci a questa avventura creativa, o a bloccare, a scappare, a defilarsi, a cercare di definirsi altrove, altrimenti.
Ma il guaio è questo, che ogni altra strategia di definizione è appena una pretesa e non è più una resa, è una pretesa celebralistica di costruzione di un diverso piano di riflessione di sé. Come tale, è uno sforzo, non è un riposo. Il riposo è solo nell’adesione ad un compito, nell’acconsentire a sviluppare il seme secondo le sue direttive (che non decidi tu, non decido io), a lasciar esprimere, a farsi da parte.
Scrivere, quando c’è la spinta per scrivere, non è indulgere nel proprio ego. E’ tutto il contrario, semmai: è accettare di farsi piccolo, di farsi attraversare, di farsi strumento. È mettersi a servizio. Bloccare questo, bloccare tutto questo, voler intervenire ad interrompere questo mirabile, misterioso, cosmico dipanarsi, è la pretesa egoica, è lo sforzo volontaristico, l’ideale parossistico di definirsi da sé.
Non c’è bisogno di essere Ungaretti, per scrivere poesie. Non c’è bisogno di essere pubblicati da un grande editore, né da uno meno grande. E’ tutta una cosa interna, una cosa molto più interna. Riguarda la connessione che hai con tutto il resto, riguarda anche un po’ (assai più di un po’) il senso del (tuo) vivere, il senso di essere su questa terra, adesso. Se ti accorgi che non puoi farne a meno, se le provi tutte ma l’impulso di scrivere non ti molla, comunque non ti molla (piuttosto, lui aspetta che tu la smetta di cercare i modi per defilarti, poi ti torna a chiamare)… Ancora, se nello scrivere capisci meglio il mondo, o entri in un mondo che capisci meglio, dove ti trovi meglio, forse è proprio il segno che tu devi scrivere.
E allora il problema non è più quanto sei bravo o sei efficace, il problema non è più quanto riesci a “sfondare” con le tue poesie. Se te le pubblica Mondadori o se girano solo a fascicoli tra i tuoi parenti ed amici. No, queste sono ennesime proiezioni esterne, non riguardano il centro, il tuo centro. Qui sei ancora tu che sei insicuro e vuoi comandare il gioco, vuoi vedere tutto il pacchetto senza iniziare veramente a viverlo, vuoi ragionare e controllare. Non è questo, non è questo il centro.
Il tuo centro è essere onesto riguardo una certa chiamata. I cui esiti mondani non sono assolutamente cosa di cui tu ti debba occupare, anche se innegabilmente le gratificazioni possono aiutare, e anche tanto (nessuno può negarlo).
Le gratificazioni servono, anche perché rassicurano di un cammino preso. Ma non sono prevedibili, calcolabili, programmabili. Io, per dire, l’ultima cosa che pensavo, mentre andavo sistemando le poesie di In pieno volo, chiedendomi se mostrarle ad altri o tenerle per me, è che una professoressa di scuola media se ne sarebbe innamorata tanto da farle leggere in classe, e proporle addirittura nel programma di esame dei suoi ragazzi. Eppure, è successo. Non sono state pubblicate da un grande editore, ma intanto questo è successo. Ed è una bella gratificazione. Dunque anche le gratificazioni non le puoi mettere in conto prima, in alcun modo. E questo è un bene, perché ti svincola da ogni gretto calcolo “costi/benefici” e da ogni ragionamento piccolo borghese tra tempo impiegato e “riuscita” dell’opera.
Ma io oserei dire che la gratificazione più grande la ricavi proprio ed intimamente ed esclusivamente nell’assecondare il flusso, nel lasciar esprimere il senso dell’universo che fluisce nelle cose, nelle persone, in te che scrivi. Finalmente, scrivi.
Scrivere poesie è inerentemente un cammino iniziatico, è qualcosa che non puoi esaminare compiutamente da fuori senza sporcarti le mani, sporcarti le mani con le parole.
E’ qualcosa che non puoi comprendere senza entrarvi dentro, entrarvi dentro con la mente e con il cuore e con il corpo, senza bagnarti di parole con tutto il corpo. Prenderle, lisciarle, gustarle, cambiarle…
Non si tratta tanto di capire qualcosa, ma di vivere qualcosa. Di assecondare una esigenza misteriosa che è profondamente radicata, diciamo pure una chiamata, e mettendo da parte ogni pretesa egoica di verifica e controllo, dire io ci sono, ed entrare nel sentiero di queste parole, di questi versi, non sapendo assolutamente dove potrà condurti.
Ma sapendo solo che il tuo compito è percorrerlo.

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Quella dolce purezza del sì

Francisco de Zurbaràn, L’Immacolata Concezione- particolare. Guadalaiara,
Museo Diocesano di Siguenza

Attendere. Essere in attesa, paziente. Rinunciare.

Rinunciare a seguire il filo implacabile del pensiero,
del progetto, la catena irredimibile del fare.
Essere nuovi, essere rivoluzionari, essere.

Essere nuovi ed antichissimi, essere autenticamente originali.
Essere propriamente sé stessi, essere.

Essere in relazione, schiantare l’autosufficienza impaziente.
Don’t carry the world upon your shoulder.

Sfondare il senso di dover dare senso al mondo, con il proprio fare.

Lei non doveva fare nulla, peraltro.
Proprio nulla.

Solo essere d’accordo,
solo non porre ostacoli,
solo non fare valutazioni su sé stessa
o sul mondo,
non doveva nemmeno capire

il disegno, solo questo:
solo dire sì.

Purissima, entra nel mondo senza
alcuna ombra disarticolando
nel profondo gli usati meccanismi,
le note dinamiche,
nella forza preventiva
di questo sì.

La fecondità arriva.
La fecondità arriva quando ti arrendi.
Quando lasci fare, ti rendi morbida
ti lasci fare.

Lei non poteva dare senso al mondo
con il suo fare, soltanto.
Non avrebbe potuto.
Poteva solo accogliere.

Capisci che quando ti arrendi sorge un seme
sorge un seme dentro di te e diventi
feconda, diventi bella in ogni cosa
in ogni cosa
che fai o che non fai.

E’ la sconfitta suprema, il ground zero
della tua mente, final-mente, delle sue architetture
crescenti e ricrescenti come cellule malate
come cellule impazzite.

Ben conosci, del resto, questi
acri di architetture infeconde,
universi desolati e freddi, vastità
gementi.

Vedono, i tuoi occhi dolci,
la sconfitta di ogni ideologia,
affondata nel suo stesso spazio,
implosa nell’assenza di senso,
morta intrisa in sangue e violenza,
quella violenza inesorabile del vuoto.

Allo stesso tempo, imperniata nello stesso istante,
esulta il tuo cuore per  la vittoria radicale del
pensiero poetico e

d’ogni umana arte, come universo pulsante
propriamente carnale,
lietamente espulso dall’orbita
dal pensiero razionale.

Quella perpetua sottesa vittoria
della bambina in te che
vuole solo la mano che guida, l’affetto, un senso
dolcissimo di essere
salvata

mai più saggezza mai più

abitando questa sola
pazza e sconveniente saggezza,

l’estrema saggezza
di accogliere,
acconsentire:

lasciarsi cadere
al di tutto, fuori di te eppure

al tuo vero centro,
grembo accogliente
dell’universo tutto.

Roma, 8 dicembre 2016

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Combattente

E’ abbastanza sorprendente capire che ci si può stupire ancora. In effetti è una regola della vita, forse la regola della vita. Quella che manda avanti tutto, comunque. Che ti permetti di respirare, in fondo. Che non ti permette mai di dire i giochi sono chiusi perché lo sai, lo sai che per dirlo devi comunque mentire, dire comunque una cosa che non è nell’ordine delle cose, non lo è affatto. E’ una variazione arbitraria della trama dell’Universo, dei suoi misteriosi campi di forza. Misteriosi, sì, ma nella loro struttura ultima, non tanto nel loro manifestarsi. Su questi, chiunque sia su questa nostra Terra già da un po’, inizia certamente a farsi le sue brave idee.
Così entrare nel nuovo disco di Fiorella Mannoia, Combattente, intanto, scompagina un po’ i miei pensieri pigri, quelli che mi vogliono insegnare a non cercare più lo stupore, che tanto non si trova. Beh, una bella favoletta, perché invece si trova, eccome.

Anche qui, in un disco che già immagini un po’ convenzionale. Beh sì, Fiorella ha cantato tantissime splendide canzoni, ma che vuoi ormai, alla sua età (terribile frasetta), dopo tanti successi…  Il bello di queste cose da finta persona matura è quando vengono spazzate via dalla realtà. Allora sì che uno inizia a prenderci gusto.
Perché già da Combattente, la prima canzone che poi dà in maniera molto discreta ma efficace, la cifra interpretativa di tutto il lavoro (poi si capisce, è un concept album appena un po’ nascosto, ma è evidente), capisci che c’è qualcosa che non torna. Accidenti. Qui rischi di stupirti di nuovo. 

Dopo un paio di ascolti la melodia mi prende, e insieme le parole, perché girano molto bene insieme. E mi sembra che dica qualcosa in modo nuovo, o fresco, qualcosa che mi fa bene risentire, riascoltare.
È una regola che vale in tutto l’universo

Chi non lotta per qualcosa ha già comunque perso

E anche se il mondo può far male
Non ho mai smesso di lottare

Che poi la cosa si fa più radicale. Da vale a cambia, il passaggio non è di poco conto.
È una regola che cambia tutto l’universo

Perché chi lotta per qualcosa non sarà mai perso

Mi risuona. In fondo è l’atteggiamento con il quale affrontiamo le circostanze, le sfide, che le cambia. Ne cambia la stoffa, la qualità, la consistenza. Non so dire come esattamente questo avvenga, ma le cambia, comunque. E’ esperienza comune, è esperienza di tutti. Anche una canzone allora ha valore, ha un valore forte, puntuale. Perché ti conduce i pensieri in questa zona. Li fa uscire dalla regione di circolazione improduttiva, dalla stagnazione. E li muove delicatamente in un una zona lavorabile. 
Capire che il mio atteggiamento influisce sul modo in cui faccio esperienza del mondo, è una nozione preziosa. Qualcosa che devo riprendere e ripercorrere spesso. 
Ed è appena l’inizio. E’ bello che nelle altre canzoni ritrovi comunque il tema accennato da Combattente che ritorna, lo trovi sempre sottotraccia, e ogni tanto riaffiora esplicitamente, a formare una bella coesione dell’esperienza di ascolto. Sarà che sono irrimediabilmente malato dall’aver appassionatamente vissuto l’epoca dei concept album, quelli che andavano negli anni settanta, chissà. Di fatto, l’ascolto di una serie di canzoni – pur belle – che trattano argomenti tra i più disparati, riunite in un album e proposte tutte assieme, mi ha sempre lasciato addosso una sensazione un po’ di non compimento. 
Esatto. Con questo album il pericolo è scongiurato. Hai la sensazione piacevole di rimanere in tema, anzi, di approfondirlo guardandolo da una serie di posizioni diverse, declinandolo in una varietà di situazioni. La cosa acquista gusto, ed interesse.
Al mio orecchio, in ogni canzone c’è almeno un friccico di nuovo. Nelle parole, nella melodia o nell’arrangiamento. C’è sempre un po’ il gusto del non ascoltato, e un accento di verità, che supera l’impressione di mestiere che invece trovo in tanta musica moderna (sto invecchiando, me ne rendo conto, e faccio probabilmente discorsi di chi sta invecchiando… abbiate pazienza, voi che leggete).
Ma la vera chicca del disco, quella che mi fa sobbalzare i pensieri, arruffarli  e scompigliarli per evidente abbondanza di bellezza,  è lì, verso il centro, quasi nascosta. Del resto, anche come inizia, in maniera tutt’altro che roboante, anzi. Con una melodia appena accennata, la voce di Fiorella che quasi indulge sul parlato. E solo dopo un po’ si aggancia alla melodia, che scopro poi efficace, persuasiva. E splendidamente agganciata alle parole. Quelle parole che (una volta tanto) appaiono davvero e compiutamente poetiche. Cioè capaci di sorprenderti in un epifania che – per un istante – spazza via i pensieri ricircolanti e squarcia un velo oltre il quale rimani soltanto in silenzio, in ammirato silenzio. 
Tale è il potere della musica, e delle parole, quando si trova chi lo sappia far sprigionare, far rifulgere.

Sto parlando de I pensieri di zo, di Fabrizio Moro (fino ad ora per me, perfetto sconosciuto, tanto per richiamare la canzone dell’album che era anche colonna sonora dell’onomimo film).  E visto che pare che su Youtube la canzone non sia facilmente reperibile (immagino, per comprensibili motivi di copyright) qui mi debbo accontentare di riportare il testo, che prendo dal sito di Fiorella.
Anche se, diciamolo: accontentarsi, è un po’ far torto alla canzone, perché ci arriva addosso con un testo assolutamente favoloso. Certo, rende al massimo con la musica, dunque se non l’avete fatto, vi consiglio di cercare di ascoltarla. Vale la pena, ve ne accorgerete. 
Sai quando senti le parole che escono deliziosamente dal sentiero del già detto, che – apparentemente inoffensive – si accostano, si agganciano tra loro in modo da evocarti suggestioni, brandelli di situazioni, persone o momenti di persone, echi di giorni mezzo ricordati (per dirla con l’ottimo Roger).

Ma che belle le sere d’estate
un poì prima di uscire
quando senti che esisti davvero
e non ti sai più gestire

E il cuore beve queste parole e scalpita, riconosce la bellezza, come rispondenza misteriosa al vero delle cose, e se ne nutre. Parrà sembra esagerato per una canzone, ma a pensarci non lo è poi tanto. Specie se siamo convinti che il bello possa prendere dimore dappertutto, sia assolutamente trasversale e non inquadrabile in nessuno schema. Sia sempre un po’ oltre i nostri ragionamenti (compresi quelli che dicono che è oltre, naturalmente). In altre parole, sia ultimamente irriducibile a qualsiasi sua concettualizzazione. 
Io penso così, almeno.
E allora lascio il posto alla possibilità di emozionarmi, quando ascolto I pensieri di zo.

Mi viene da pensare, è come un contraltare più carico di letizia della pur bellissima canzone di Vasco (guarda un po’ stupendamente interpretata dalla Mannoia) che è Sally. E’ di più, è come Sally rivoltata come un guanto da una prospettiva più gioiosa,  ancora possibile, sempre possibile.
Sentire di esistere davvero. Forse qui è racchiuso il senso del tema. Quell’essere combattente non è fine a se stesso, o ad una ribellione sterile, stigmatizzata, già vista, già percorsa. E’ una rivoluzione inedita che ancora ci aspetta, quella che ci porta ad esistere davvero. 

Scriveva Holderlin (citato nel saggio Poesia e Rivoluzione, di Marco Guzzi), già nel 1797,  “Io credo in una rivoluzione futura delle concezioni e delle modalità di rappresentazione, che farà impallidire tutto ciò che finora è stato”.

In effetti, ogni bellezza parla di questo, e niente che ci interessi davvero parla di qualcosa meno di questo. Una rivoluzione tutta da fare, sempre e di nuovo.

Come ormai è chiaro, l’unico motivo rimasto per sentirsi ed essere realmente combattenti.

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Imbrigliarti tutta

Pomeriggio, interno domestico. Sono lì sul divano. Sto leggendo una rivista di poesia  sull’iPad, quando rimango colpito da un componimento breve. La sua forza – e certo anche il tema – sono complici acché io non rimanga distratto. Anzi. Rimango colpito non soltanto dalla poesia in sé. C’è un fattore aggiunto, c’è che mi ricorda qualcosa. Nel mezzo della lettura mi viene in mente qualcosa. Qualcosa – tra l’altro – di molto più recente della poesia stessa. 

Di più recente ma di straordinariamente simile.

Ma perché io non proceda troppo chiuso… intanto, eccola.

Cavallina brada, perché sbirci me con l’angolo degli occhi

assassini e corri via? Non avrei doti, io, per te?

Attenta! Saprei perfettamente conficcarti il morso,

imbrigliarti tutta, farti fare la curva a fine giro

Vivi la prateria, scarti ariosa. Puledra, non hai 

chi ti pesa addosso, e che sa tutto di cavalle.

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Bene, bisogna dire subito che è una poesia antica,molto antica.  E’ stata scritta da un tale di nome Anacreonte, un poeta greco che visse ben cinque secoli prima di Cristo. La poesia mi colpisce per la metafora decisamente scoperta e (a parer mio) molto efficace. Vedete, ha qualcosa di decisamente moderno, nonostante i secoli che ci separano dal momento in cui fu composta. Come certi componimenti di Saffo, questa poesia risveglia la mia sensibilità con un accento integralmente contemporaneo. Non devo da fare alcuno sforzo per immedesimarmi, per attraversare i secoli.

La poesia è di adesso, accade ora. Del resto, tutto ciò che non accade ora in fondo non interessa, in fondo non esiste.

Ma dicevo, mentre leggo la poesia, un altro materiale mi viene a cercare. Degli altri versi mi risuonano in testa. La mente aggancia una analogia, trova una  corrispondenza, verifica spontaneamente  un intreccio. 

Così mi tornano in mente quelle parole. La canzone è breve, e possiede quella stupenda accorata introduzione che scende subito nel punto. Non c’è tanto da fare accademia, o indulgere in disamine filologiche del testo (come nella poesia di Anacreonte, peraltro), quanto di esprimere un desiderio, anzi – potremmo dire – un bad desire… Qualcosa che tiene sulla graticola, che scotta. 

Hey little girl is your daddy home

Did he go and leave you all alone

I got a bad desire

Oh, I’m on fire

Qualcuno l’avrà riconosciuta: è I’m on Fire, di Bruce Springsteen. Non sono un particolare fan del Boss, ma sono un fan sfegatato di questa canzone. Così diversa e così sincera, ha un taglio intimistico affascinante.

Ma quello che mi colpisce adesso è la strofa successiva

Tell me now baby is he good to you

Can he do to you the things that I do

I can take you higher

Che potremmo ardire di tradurre  come

Dimmi bimba se lui è bravo con te

Se può farti quel che ti farei io

Io posso portarti più in alto

Che ricalca – in pratica – qualcosa scritto appena 2500 anni prima….

Saprei perfettamente conficcarti il morso,

imbrigliarti tutta, farti fare la curva a fine giro

Che possiamo dire. La modulazione dei sentimenti umani è quella. Cosa aveva l’uomo di due millenni fa uguale a quello contemporaneo, se non il fatto stesso di essere uomo, quel nucleo di speranze e desideri, bisogni ed evidenze elementari dai quali ultimamente si riconosce e che la letteratura elabora e rispecchia? E la poesia è come schianto che percorre i secoli, i millenni. Ed è sempre e continuamente moderna. 

Poesia è il dire anti-retorico per eccellenza. E’ il dirsi sincero e perennemente rivoluzionario. Anche quando parla di amore, anche quando alza il velo sui bad desires. Sulla poesia la retorica non prende: scivola, slitta via, non fa presa. Le poesia celebrative di quel partito o di quella ideologia sono poesie – prima di tutto  – brutte. Sono versi violentati. Forzati a qualcosa che non vogliono fare. A qualcosa che non possono essere. Ad un giro che non vogliono e non possono compiere.

La parola spurgata dalla costruzione retorica torna al suo alveo originale. E’ parola che guarisce. Che sfida e converte ogni costruzione egoica iniettando un devastante siero che richiama tenacemente l’uomo a (ri)scoprire se stesso, la sua umanità. Lo costringe a lasciare la presa, lo prende di sorpresa, sbriciola la sua inesausta pretesa di costruirsi una sua sicurazza, di fabbricare un proprio idolo, di formularsi autonomamente uno schema di salvezza. Per riconsegnarlo, spogliato di tutto ciò che non è essenziale, alla sua profondità infinita, al suo infinito bisogno.

E’ davvero un ricostituente planetario, come indica Marco Guzzi nella bella poesia Dal parlatoio.  

Credimi!
E’ forte la parola che ti mando.
La guarigione
Passa per gocce
Medicamentose, per idee.
Scrivile
Tu.
E’ il ricostituente
Planetario.
Non c’è armamentario
Che ti serve. Va’ come sei.
Spargi il mio contagio.

Per questo la poesia non è di questo mondo: è in questo mondo ma non appartiene alle strutture di questo mondo. E’ sempre rivoluzionaria e perennemente guaritrice. E’ qualcosa che scalpita dentro ogni architettura precostituita e perciò stesso già stantia: qualcosa che non puoi domare, non puoi imbrigliare. 

Ma dalla quale, se appena ti lasci prendere, appena inizi a darti pace, sei imbrigliato.  

Cioè, sei liberato

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Vedere la poesia

Vi sono diversi modi per fruire la poesia. E’ vero che da sempre la parola scritta ha ammesso ed anzi incoraggiato una serie di possibili ibridazioni e contaminazioni, nella tensione ad esplorare sempre nuove potenzialità espressive.

A mostrare nuovi colori, indicare nuovi sapori, rinnovate suggestioni. 

Tutto questo è stato comunque improvvisamente accelerato dall’avvento di Internet e del relativo globale rinnovamento, del nuovo inizio che ha portato nel mondo della comunicazione. In questo senso il primo Internet (1.0 diciamo), ha fatto del testo, della parola, la sua vera chiave di volta. Le immagini erano poche ed anche piccole, perché le velocità di trasmissione e le potenzialità tecnologiche di reti e computer non permettevano certo di sbilanciarsi sul fronte della multimedialità. Chi scrive se lo ricorda, per  averlo vissuto: è stato davvero un Internet della parola (scritta).

Una stagione con delle proprietà caratteristiche, ben definite. Che è ormai definitivamente tramontata.

Ora nelle nostre reti viaggiano – con pari rilevanza e dignità – parole e suoni, luci e rumori, immagini e filmati. Ma la parola ha sempre in Internet un suo ambito privilegiato: blog (come questo), email, social network… un ampio e articolato ventaglio di possibilità. Pensate a quanto passa ancora – nonostante il diluvio di immagini e filmati – attraverso la parola. A quanto sempre sarà la parola a trasportare la possibilità antichissima e sempre nuova di modulare, di comunicare, sul livello delle emozioni. Quel livello senza il quale la comprensione stessa della realtà (a quanto ci dicono anche studi psicologici rigorosi) è al più incompleta, parziale, inefficace. 

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Vedere quindi il tempo che si dipana / nel respiro dell’acqua / con una pazienza che non è la mia

Pure, la parola si può cercare di ibridare, di sposare, con ciò che è diversa da lei. Del resto, la parola evoca sempre immagini, sempre rimanda a qualcosa altro da lei. Quando leggo un romanzo la mente lavora, elabora colori, forme, decide paesaggi, crea delle stanze, abita delle situazioni. Mentre leggo, si può dire, la mente “riceve” la sceneggiatura e costruisce il suo film. Con tanto di colori, sensazioni, sapori, immagini. A volte lo fa anche meglio dei professionisti del settore. E’ quello che nasconde lo scambio di battute che avremo sentito tutti, prima o poi: “Ti è piaciuto il film?” “Sì, ma era meglio il libro”. Tradotto, vuol dire era meglio il film che ho costruito io rispetto a quello che ho visto al cinema. 

Giocare con queste possibilità vuol dire entrare in un campo aperto ed accessibile a chiunque.

Come scrittore, rimango curioso di come il verso possa intersecarsi ed ibridarsi con le immagini, di come insieme si arricchiscano e formino qualcosa di diverso: non appena una traduzione o al limite un tradimento dell’intento poetico originale, ma proprio una cosa nuova, che vive in un territorio altro, che è simile ma differente dalla poesia. 

Questo che vado a descrivervi è appena un esperimento. L’idea è mescolare le mie parole con delle immagini, per vedere – come diceva Jannacci – l’effetto che fa. Enucleare qualche verso, una breve sequenza, una minima scansione del testo, e accostarla ad una foto. Azzardare una suggestione, un possibile percorso interpretativo. 

Per questo esperimento ho scelto Pinterest, il social network che consente di pubblicare immagini con brevi commenti, organizzate tematicamente. Ho aperto un board dedicato, dove ho iniziato ad inserire dei pezzettini del mio recente volumetto di poesie “In pieno volo”. Ogni pezzettino, ogni brano, è accompagnato da una immagine. E’ appena una scelta, tra le diecimila che si potrebbero fare. Arbitraria e suggestiva e opinabile e godibile come ogni scelta. 

Follow Marco’s board In pieno volo on Pinterest.

Spero che questo spazio possa suggerire ipotesi di lettura intriganti, che possa magari spingere qualcuno ad incuriosirsi del volumetto, a decidere di leggerlo. Oltre a ciò, quello che mi piacerebbe è aprire anche ad altri la stessa possibilità: fare di questo spazio un ambito comune. Mi interesserebbe molto vedere che immagini e che brani del libro altri potrebbero selezionare. In un gioco di incastri potenzialmente illimitato, dove può essere il lettore – perché no – che fa scoprire qualcosa all’autore, che lo stupisce.

Che gli suggerisce risonanze ed evocazioni che lui, scrivendo, non aveva pensato.

Ma questa è la magia della scrittura. Non è una cosa a senso unico, una freccia che parte dall’autore e si ferma al lettore. E’ un gioco intrecciato di rimandi, è un processo creativo a molti poli. Dove ogni persona coinvolta apporta qualcosa.

Se volete, se avete letto il libro o lo leggerete, vi invito fin d’ora ad accompagnarmi attivamente in questo  progetto. Commentate il post o contattatemi su Facebook, vi abiliterò l’accesso al board. Scegliete dei versi da In pieno volo e condite con una immagine di vostra scelta. Sarò curiosissimo di osservare gli accostamenti. Di imparare qualcosa di nuovo dalla vostra creatività, e (anche) dai miei stessi versi.

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