Blog di Marco Castellani

Categoria: realtà

Scorrimento verticale

Dalla scienza possiamo certamente imparare, e anche ben oltre la sua area di azioni, la sua ampiezza legittima di intervento. Imparare cioè, non solo come si comporta il mondo fisico, ma fare nostra l’attitudine che la scienza stessa richiede, per il processo di scoperta. In realtà (mio umile parere) è ciò che la fa davvero interessante. E non solo per gli scienziati o gli appassionati, ma per tutti.

Per professione indago il cielo secondo il metodo scientifico, che molti secoli fa un certo Galileo Galilei mise a punto, consegnandoci uno strumento formidabile, flessibile abbastanza da costituire un ottimo framework per gli scienziati attuali. Che ancora (nonostante tutti gli sforzi) migliore non ce n’è. E sì, dichiararsi “astrofisico” fa ancora effetto, nonostante tutto. Insomma, esiste una magia della volta celeste, magia che viene percepita da donne e uomini anche lontanissimi dalle questioni di scienza. Un tesoro di potenziale attenzione e passione che non va assolutamente disperso. Va amorevolmente custodito e incentivato, quando possibile.

Tornando al tema: una cosa nella quale lo studio delle stelle mi sfida continuamente, è la gestione della complessità. Mi pare qualcosa di molto moderno, molto contemporaneo. Credo vi sia qui un vero messaggio che noi scienziati dobbiamo prima far nostro, sopportando tutta la fatica del caso (siamo donne e uomini anche noi, con la nostra buona parte di inerzia mentale), per poi lasciar fluire fuori. Semplicemente, è un messaggio troppo importante perché rimanga confinato in un ambito ristretto.

A Galileo “bastava” puntare il cannocchiale al cielo, 
registrando quanto vedeva… 

L’astrofisica (come molte altre discipline) è davvero costretta ad abbracciarla questa scomoda complessità, a farci casa. Penso al caso di Gaia, tanto per rimanere su qualcosa a me familiare. Un telescopio (bel progetto dell’Agenzia Spaziale Europea) in orbita alta – a un milione e mezzo di chilometri da Terra – che ci ha già permesso di costruire un catalogo di quasi due miliardi di stelle (impresa senza precedenti). In fondo è l’analogo moderno di quello che ha fatto Galileo, puntando il cannocchiale verso la volta celeste. La prosecuzione esatta del suo stesso lavoro, per quanto la tecnica rende oggi possibile. Non c’è alcuno scarto, è un cammino naturale che da Galileo porta a Gaia. Ma se per Galileo (con il dovuto rispetto) le cose erano abbastanza semplici, per Gaia appaiono un tantino più complesse.

Il percorso alquanto complesso che deve attraversare una singola “misura” di Gaia, dall’osservazione in avanti,  prima di poter entrare nell’archivio. Crediti: ESA website


Così stanno le cose. Esiste ormai una complessità irriducibile che va inevitabilmente affrontata, per estrarre un solo dato scientificamente valido. Una complessità che si articola ad ogni livello: da quello dello strumento di indagine utilizzato a quello intrinseco del campo che si vuole indagare. Del resto leggiamo la natura ad un livello sempre più elevato di finezza, e questo è sempre più sfidante, tanto a livello teorico quanto a livello tecnico. Praticare la vera scienza (non la pseudoscienza e i suoi derivati) rappresenta – oggi più che mai – un allenamento preziosissimo a gestire il pensiero complesso.

Questo mi sembra di capire: l’Universo risulta tanto complesso quanto noi “sopportiamo” che sia, momento per momento. Dal cielo delle stelle fisse, dal modello stazionario in avanti, fino ad affacciarsi alla prospettiva tipica della nostra epoca, di un cosmo in espansione accelerata in cui avvengono continuamente ogni sorta di fenomeni di differente energie e su diverse scale spaziali, con una varietà che davvero pare non avere fine. Progettare e realizzare strumenti di indagine più evoluti equivale – di fatto – ad abilitarsi a ricevere un segnale più sofisticato dal cosmo, che verifica o smentisce le teorie attuali e allo stesso tempo invita a salire ad un livello più alto di complessità, ad intraprendere un dialogo con il mondo naturale su un parametro nuovo di finezza, potremmo dire. E non c’è indicazione, per ora, che questa progressione continua, questo dialogo su livelli sempre più fini, possa avere un termine, possa trovare un confine.

Cavoli. Il pensiero complesso è una sfida continua. Qualcosa che non è facile da sostenere per molto tempo, per chiunque. La tentazione di individuare scorciatoie interpretative – tanto di un fenomeno fisico quanto di una problematica sociale – è sempre in agguato. Le pseudoscienze spesso si sviluppano proprio dietro un’idea interpretativa molto semplice, che rassicura e fornisce un apparente riparo contro un grado di complessità che spaventa, in quanto difficile da padroneggiare.

Perché il punto è questo: si tratta di praticare un atto di umiltà, introdursi in un mondo che non possiamo dominare nemmeno in senso dialettico, su cui non possiamo esercitare alcun tipo di potenza o prepotenza. Un mondo che non ci appartiene, ma esonda continuamente dalla nostra misura, ci indica sempre altro, ci spinge a decentrarci continuamente (in analogia stretta a come siamo decentrati cosmologicamente). E questo non sempre fa piacere, non appare normalmente agevole.

Nel dialogo su temi sociali e politici adottiamo spesso degli schemi interpretativi, dei filtri che semplificano il reale e sembrano (finalmente) ordinarlo secondo parametri che possiamo ben controllare. Anche qui, infatti, la complessità ci spaventa. Accidenti, non sappiamo proprio come affrontarla. Ci piacerebbe trovare uno schema che – come un grande magnete in un campo di limatura di ferro – orienti tutto verso una certa polarità, ci dia la confortante sensazione di avere la chiave di interpretazione di quello che accade. Ed anche – perché no – il brivido sottile di “avere capito cosa c’è sotto”, che risulta enormemente gratificante per l’ego.

Peccato che tutto questo avvenga ad un prezzo. Ed è che la ipersemplificazione del reale porta spesso a costruire tesi che rischiano – a dispetto della loro attraente sobrietà concettuale – di non essere affatto incisive sul mondo. Poiché infatti risentono di una forte attitudine ideologica, non sono abbastanza docili ai fatti, alla loro continua mutevolezza, alla loro connaturata impermanenza.

Qualche piccolo esempio. Uno schema (che andava di moda alcuni anni fa, più che ora) è interpretare il conflitto sociale come semplice lotta tra le classi, porta ad una indebita semplificazione riducendo drammaticamente i parametri in esame, fornendo magari risposte per ogni occasione, ma risposte “di plastica” che inevitabilmente risentono della povertà dell’analisi, e come tali si dimostrano insufficienti per ogni azione pratica, anche infarcita di abnegazione e buona volontà.

Un altro schema è quello (decisamente di maggiore attualità) che rintraccia nell’azione più o meno occulta di determinati “poteri forti”, votati alla loro autoconservazione e al loro ampliamento, la spiegazione di una larga serie di dinamiche politiche e sociali. In particolare, tutti sappiamo come pullulino interpretazioni “alternative” dell’attuale emergenza sanitaria che più o meno pesantemente attingono alla nozione di Big Farma, come entità sovranazionale capace di stravolgere e determinare le politiche sanitarie, che sarebbero così ultimamente guidate da criteri di profitto e non da considerazioni di salute pubblica.

Certo, nemmeno qui è lecito semplificare. I poteri forti esistono, non è in questione. Agglomerati di interessi si conoscono e si incontrano quasi spontaneamente, individuando strade per custodire e rilanciare gli interessi comuni. Sono uno dei fattori in gioco. Non certo l’unico, però. Ricorrere a questi come “motore ultimo” di tutto quanto accade, è probabilmente semplicistico.

Il tratto caratteristico di questi schemi di massima, mi pare, è la refrattarietà all’analisi paziente dei particolari, alla rilevazione della “grana fine” che ogni porzione di realtà custodisce e può esporre, come dicevamo, se adeguatamente interrogata. Manca la voglia e la pazienza di analizzare diligentemente il mosaico: al contrario, si pretende di giungere subito ad un momento di sintesi, che permetta di descrivere tutto con ridotto contenuto informativo, in un modo che sia facile da assimilare e propagare.

Non mi interessa arrivare ad alcun punto, che non sia questo richiamo a rispettare la complessità di un fenomeno, di un avvenimento, di una emergenza, della gestione di una pandemia (quello che volete). L’informazione complessa spaventa, annoia. Vorremmo avere tutti delle facili chiavi interpretative, ridurre tutto a pochi byte di informazione, perfettamente portatili, perfettamente spendibili sui social. La banalizzazione e l’estremizzazione di un punto di vista lo spogliano della sua intrinseca rete di articolazioni e lo mutano in una piccola capsula, perfettamente rilanciabile e pronto per i vari like, i plausi, le manifestazioni prefabbricate di indignazione, l’esecrazione spicciola manifestata in pochi secondi. Prima di passare ad altro.

Ha ragione Samuele Bersani, siamo ormai tutti campioni nazionali di scorrimento verticale e anche se sappiamo che questo non ci aiuta a capire, alla fine non ci interessa. Ci piace troppo, farci catturare da emozioni semplici, comprensibili, elementari. Facilmente condivisibili, spendibili su Internet.

Sono appena uno scienziato, non mi voglio improvvisare sociologo, predicatore, analista del costume. Come scienziato mi limito a questa “semplice” osservazione: gestire propriamente la complessità, acconsentire a che ogni fenomeno sia interpretabile a prezzo di una fatica nel vagliare il grado di compresenza di differenti narrazioni, non è immediato, non ci viene facile. A me, almeno, non viene per niente facile: d’istinto vorrei ridurre ogni problema alla mia interpretazione, riducendo i gradi di libertà del fenomeno e innalzando alte mure contro ogni diversa visione (perché lo confesso, alla fine tutte queste opinioni differenti dalla mia, mi danno fastidio).

Il fatto è questo: posso certamente farlo, posso anche guadagnare diversi like e perfino prosperare nella mia bolla informatica, ma perdo mordente nel comprendere il reale (e qui praticare un po’ di vera scienza, aiuta a capirlo). Se è questa comprensione che cerco autenticamente, forse devo mettere in conto la fatica di una analisi, che riparta ogni mattina da un onesto lavoro di scavo, di indagine paziente.

Rifuggendo le semplificazioni: comode, ma fallaci.

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Una storia particolare

Ragioniamo troppo, ragioniamo troppo. O almeno, io ragiono troppo. Sono sempre lì a pensare che i miei problemi possano avere una soluzione mentale, possano essere dipanati in una analisi minuziosa che scenda implacabile su ogni particolare, su ogni snodo, fino a dipanare la matassa.
In certi casi, grazie al cielo, mi accorgo che non funziona così. Che le coordinate operative di questo universo sono altre. Mi accorgo che la soluzione dei problemi non è mentale, ma è esperienziale per lo più. O se vogliamo, è iniziatica. Proprio nel senso che i problemi si snodano dentro un percorso.

Ogni storia diventa leggibile dentro una sola Storia…  
Questa è un po’ la sfida, per la nostra mentalità moderna. Tendiamo a pensare di poter far nostro intellettualmente quel che vogliamo, evitandoci una esperienza, se possibile. Diciamo fammi capire per far nostra l’idea, magari evitando la verifica esperienziale.
Eppure non è mai stato così, non è mai avvenuto così. Siamo qui per scoprire i perché attraverso le esperienze, non attraverso le pagine di wikipedia. Siamo cioè chiamati ad essere di nuovo protagonisti.
Il mondo moderno sembra davvero cospirare affinché noi ci si possa cullare nell’idea di traversare il mondo da spettatori, attraversarlo come in punta di piedi, senza sporcarsi le mani, magari. Stando da questa parte del teleschermo, mentre le cose accadono dall’altra. Una polarità semplicistica, che ora mostra tutto il suo limite, in maniera impietosa.
Abbracciare la vita, ricercarne appassionatamente un significato, è ipso facto rivendicare un ruolo da protagonista. Non c’è scampo, non c’è guittezza. E’ un po’ quello che efficacemente riassume la celebre frase di San Giovanni Crisostomo,

l’uomo che prega ha le mani sul timone della storia.

Seguendo una storia, una storia particolare, nella tentata fedeltà ad una trama di incontri, siamo finalmente liberi dal dualismo attivo-passivo, perché il seguire è un atto apparentemente passivo che in realtà ribalta il gioco, e si trasforma in un atto che ci radica alla terra e ci permette di agire in essa, e non solo di formulare concetti ed intrattenerci dialetticamente in essi.
E non è nemmeno solo questo, anche se questo è già tantissimo.
E’ infatti prima di tutto una questione conoscitiva. Diceva una famosa canzone, di qualche anno fa, che

da che punto guardi il mondo, tutto dipende

C’è un infatti un mito moderno del quale ho iniziato a sospettare, del quale ormai non mi fido più. L’ho esplorato, mi ha stancato, mi ha deluso. E’ semplicemente falso.

E’ falso che si possa davvero conoscere il mondo svincolandosi da una appartenenza, da una adesione.
E’ proprio l’opposto. Senza una storia particolare, senza una appartenenza, non si capisce il mondo. Serve un’ipotesi da gettare al di fuori, una ipotesi di ordinamento, di intimo coordinamento, perché il flusso di informazioni che ci raggiunte e ci sollecita continuamente, si componga in un insieme di senso. Altrimenti non si comprendono le stelle, la natura, l’amore, gli affetti, i difetti.
Ovvero. Il mondo non è uno scenario oggettivo separabile da chi lo osserva.
Non è un insieme di dati da registrare e comporre, per ottenere il senso. Anzi così si ottiene solo un mondo senza senso, più pungente quanto più il dato vuol essere preciso, completo, scientifico. Del resto, non è difficile leggere un senso di disperazione radicale dietro l’imponente flusso informativo tipico del mondo moderno.
Perché tutto questo? In altre parole, che me ne faccio di questo grado di dettaglio così esasperato, di questa analiticità estrema, se il mio occhio non comprende più quello che sta guardando? Se ha perso di vista la struttura di senso che tiene tutto collegato?
Il senso del mondo riverbera dal senso più profondo che abbiamo in noi stessi. E questo dipende totalmente da quel principio di ordine ed intellegibilità al quale ci affidiamo.
Affidiamo, sì. Perché questo è il punto cardine, il tratto fondamentale. Anche, lo spartiacque intorno al quale si dividono gli animi, si rivelano le posizioni del cuore.
Perché alla radice di tutto, della possibilità di intellegibilità del mondo, c’è inequivocabilmente un affidarsi, un atto di fede. C’è qualcosa che non può essere matematicamente dimostrato, che richiede una adesione per fiducia ovvero secondo parametri non quantitativi, ma derivati da un insieme di esperienze e di valutazioni, di aperture, di squarci e di suggestioni. Un punto di snodo, una elastica salutare sospensione dal ragionamento dialettico.
Snodo che deriva in ultima analisi da quella misteriosa trama di corrispondenze che si istaura tra il proprio cuore e il reale, il mondo fisico. Ovvero, da una esperienza, da una storia particolare e personale.
Scrive Marco Guzzi in Fede e Rivoluzione, che

… ogni ricerca della verità, tenetelo bene in mente, anche quella più scientifica, presuppone sempre un atto, più o meno consapevole, di affidamento a convinzioni indimostrate, a parole già dette e ricevute, ascoltate e credute, e quindi un atto, appunto, di fede

La percezione della realtà deriva da questo atto di fede, si sia un cattolico, un rivoluzionario boliviano o un monaco buddista.
Da questa storia, dunque. Da quello che un bel giorno abbiamo percepito come la verità. A cui tornare e ritornare, ogni volta come fosse la prima.

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Scrivi se la realtà è positiva

Una delle cose belle dell’attività di scrivere è che è richiede una disciplina. Che per scrivere bene e con profitto devi entrare in una sorta di disciplina dello scrivere, che è poi esattamente quella del vivere. Così che una cosa aiuta l’altra.


Anche perché se hai la vocazione di scrivere e la censuri, per certo non vivi bene. 


Una prima  cosa che si deve imparare riguarda l’atteggiamento. Essere positivi. Questa è una cosa su cui  faccio abbastanza fatica, per carattere. Sono soggetto tanto ad entusiasmi quando a repentine discese. Facilissimo allo scoraggiamento, a perdermi nel classico bicchiere d’acqua. 

… e` uno dei miei limiti
io per un niente
vado giu`

se ci penso mi da’ i
brividi

(Samuele Bersani, Spaccacuore)
Anche io ho i brividi per quanto basta poco a mandarmi giù. Pazzesco.

Writing

Però questo non aiuta la scrittura. Se lo vuoi fare davvero, se vuoi seguire seriamente la tua passione, devi farlo in modo professionale. Consideralo pure un lavoro. Se ne hai un altro, di lavoro, meglio per te, ma questo devi trattarlo altrettanto seriamente.
Come nel lavoro, l’atteggiamento è tutto. Un atteggiamento positivo permette di passare agevolmente anche nei momenti no, in cui tutto ti sembra contro, tutto sembra andare storto. Ritengo che l’ostacolo più grande sia – dopo i momenti di entusiasmo (Sì scriverò per tutta la mia vita!), la palude insidiosa dello scoraggiamento. Hai presente, quando guardi quello che hai scritto e… 
… no, non ti piace.  (Inutile girarci intorno)
Manca qualcosa, non va bene, è lento, è scritto male, è ampolloso, è pieno di te, non è scorrevole. E lì che scivola in testa la frase più pericolosa, non riuscirò mai a scrivere bene. Che errore! Cacciala via, immediatamente.
E’ una scusa, una scusa orribile per non abbracciare completamente la meravigliosa rivoluzione che può attenderti: vedere il mondo con occhi nuovi. Vedere tutto con gli occhi di uno scrittore. 

Questo mi ha sempre affascinato. L’occhio di uno scrittore è lanciato avanti, non vede semplicemente le cose, ma cerca le connessioni tra loro. Vuole mettere in ordine delle parole, delle parole vive, così cerca un ordine nel mondo. Cerca sotto le cose per arrivare alla sostanza.

Un atteggiamento intrinsecamente positivo, spalancato sulla realtà. 

Anche se fosse una realtà dolorosissima.

Un atteggiamento positivo, per non essere preda del sentimento (e delle sue fluttuazioni), si deve basare su un fatto di ragione. Riconoscere che la realtà stessa è positiva. Questa è la scommessa di chi scrive, di chi ha il coraggio di creare. 

Se sei nel nulla non scrivi, di solito. Se crei stai combattendo il nulla, hai scelto di combatterlo: stai seguendo la tua vocazione e in forza di questo riconoscimento, lotti ipso facto per un mondo migliore, più luminoso, più umano. 

Un riconoscimento magari timido, imperfetto, timoroso. Un inizio di riconoscimento. O l’inizio dell’inizio di un riconoscimento.
Che è già una roba completamente diversa dal nulla. 

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