Blog di Marco Castellani

Categoria: recensioni

Il teatro dei sogni

In questo blog non ho mai veramente trattato del mio rapporto con i libri di Andrea De Carlo, non ho mai espresso il mio amore viscerale per la sua scrittura. Forse perché è un argomento troppo impegnativo, forse dovrei scrivere troppe parole, dovrei tentare qualcosa di eccessivo, sovrastante, ingombrante.

Del resto un vero amore è sempre eccessivo, è felicemente eccessivo, esorbita allegramente e spensieratamente dagli accorti (triti e ritriti) bilanciamenti di buon senso e ragionevolezza. Che diamine. Il vero amore è sempre intrinsecamente rivoluzionario, irrompe nel mondo non con un quieto vivere ma con la prospettiva irresistibile di cambiarlo, con la speranza robusta e inestirpabile di cambiarlo in meglio.

Allora penso, ci salveranno (in caso) persone innamorate, mica quelle addette alle infinite noiose microscopiche variazioni del ciò che è opportuno, o peggio del ciò che è doveroso. Mai più saggezza mai più cantava Ivano Fossati, pronunciando probabilmente una parola definitiva al proposito, alla quale tornare almeno una volta ogni tanto. Sono i sogni quelli che muovono il mondo, ci piaccia o no: rinunciando a sognare, il nulla avanza, il mondo sprofonda nella tristissima pretesa di sapere qualcosa di sé, e di gestirla.

Comunque. C’è la parola sogni nel titolo di questo libro, e non per caso. Perché è un libro di denuncia e di sogno insieme, e le due polarità si intrecciano in modo mirabile, grazie alla perizia di Andrea (questo è saper scrivere, sissignore).

C’è la denuncia, nel libro. Anzi, la radiografia molto precisa ed insieme ironica e quasi divertita (come deve essere, in un romanzo) dei meccanismi interni di due formazioni politiche molto popolari in questo tempo: non è molto difficile indovinare qual è il riferimento preciso per il Movimento Rivolgimento e per l’Unione Nazionale. Non è difficile proprio perché nel romanzo si percorrono le modalità di esistenza ed espressione che abbiamo imparato essere proprie di quelle compagini, con una freschezza d’attualità veramente notevole.

C’è anche il sogno, nel libro. La consapevolezza profondamente ristoratrice (oggi più che mai) della necessità di sognare in grande per non far scivolare il mondo nella miseria della mancanza di speranza. Perché alla fine è questo, alla fine è il sogno – la voglia e la capacità di sognare ancora – che fa da spartiacque tra i protagonisti del romanzo. Tra il marchese Guiscardo Guidarini, Agnese e (in parte) l’assessora Annalisa Sarmani e tutti gli altri, sindaci e faccendieri e responsabili di immagine e dirigenti di partiti e cronisti d’assalto e conduttrici televisive di programmi che riverberano il nulla più patinato ed ostinato. La differenza è che i primi ancora sognano, mentre gli altri sono parecchio più impegnati a recitare un ruolo: ruolo che trattengono con i denti sopportando la moderata e misteriosa infelicità, senza farsi più domande, senza pensare di uscire dalla finzione, di gettare la maschera.

Il nuovo, sia la scoperta di un antico teatro o un accenno di consonanza sentimentale, in fondo è accessibile solo ai primi, come solo i primi fanno la storia, mentre gli altri abitano il mondo senza incidere oltre le loro convenienze spicciole. I primi, si noti, non sono eticamente migliori dei secondi se non per questa decisione di tenere aperta la porta, non chiudere i conti, non rinchiudersi nel proprio ruolo (e questo nel romanzo si capisce).

Dunque è una differenza di attitudine, non di casta o di derivazione lavorativa o affettiva o territoriale o sessuale o altro. Per questo è bello, perché il romanzo sembra offrire a tutti questa possibilità. Non è quello che fai, ma come lo fai. Se ti metti ancora a giocare con il tuo ruolo, se ti fai sorprendere e sorprendi, è quello che fa la differenza.

E la trama, la trama non la racconto perché mi pare inutile, si trova già in rete d’altra parte. E anche, per me non è così importante. Dirò solo questo, che il romanzo si impernia sulla scoperta di questo antico teatro, che in realtà è una formidabile cartina di tornasole per svelare i moti dell’intelligenza e del cuore di una serie di persone che, per i più vari motivi, gli ruotano intorno.

Quello che reputo assai più importante, è il modo di scrivere di Andrea, che a mio avviso è totalmente unico. Il modo di far affiorare i sentimenti delle persone, anche. Quel canale privilegiato che parla direttamente con il cuore, quel modo di trasmettere per cui sento una corrispondenza viva e palpitante. Certi modi di accostare le parole e usare la punteggiatura, proprio. Mi accorgo di nuovo, leggendo questo libro, che scrivere è qualcosa di infinitamente morbido, modellabile. La sua scrittura la riconosco d’istinto, non so dire perché, ma la riconosco subito. Almeno nei momenti migliori, De Carlo è completamente inimitabile. Non è questione appena di essere bravo o no, ma di trasmettere su un registro assolutamente unico.

Il senso di umanità dei personaggi, poi. Anche quelli più discutibili, mostrano quel lato umano che li fa sempre e perennemente suscettibili di riscatto: ti accorgi che dipende da loro, appunto. Che anche una cronista d’assalto come la Del Muciaro, per dire, può fare il salto, può affacciarsi alla vita vera, se vuole. E non c’è un giudizio definitivo e chiuso su di lei. Come non c’è sugli altri. Se non appena, in realtà, un poco più incastrati nel ruolo appaiono i personaggi più appaiono potenti – in senso sociale e politico – se non altro perché per loro rivestire la maschera richiede una determinazione maggiore, più serrata e precisamente collimata, che sembra lasciare meno spazio a possibili scantonamenti. Ma anche lì, alla fine c’è una descrizione di atti, un giudizio anche forte e severo, ma aperto. Niente è già scritto, e in un certo senso ogni personaggio si gioca fino in fondo, fino in fondo può scartare di binario, cambiare strada.

Poi c’è il libro che ti piace e quello che ti piace meno, chiaro. Ad esempio il romanzo precedente, Una di Luna, non mi ha catturato davvero, mi è parso (nel complesso) giocato in tono minore, ho avvertito la mancanza di un affresco più grande, di un respiro di possibilità bella. Che qui invece ritrovo, felicemente. E perciò per me questo libro ha il gusto aggiuntivo di un ritorno, di assistere al ritorno di una persona che ti è cara, che ti è cara perché ti regala questo interlacciamento con il cuore, che ti è sommamente prezioso.

Ma quello che mi fa estasiare, su tutto, è la grammatica degli affetti. La descrizione precisa e dolce, dolcemente precisa, dei moti più lievi nel cuore, è qualcosa che mi riconduce di schianto al De Carlo che più ho amato, che amo da pazzi: da quando mi sono imbattuto nella sua penna con I veri nomi, fino al culmine di quel libro assolutamente straordinario e magico che per me rimane Durante.

Lo scrissi ad Andrea, una volta. Scrissi qualcosa come il difetto dei tuoi libri è che finiscono. Per i libri che ti affascinano, c’è questo problema, infatti. Che ti dispiace uscirne. Vedi le pagine che mancano alla fine, le soppesi (o guardi la percentuale di lettura sul Kindle, che si fa implacabilmente sempre più vicina al 100%) e avverti un senso crescente di disagio, di preoccupazione. Cavolo. No, non ti va di uscire. Non ti va di uscirne fuori, ormai. Del resto, è ragionevole. Come, hai vinto le mie difese, le mie diffidenze, hai costruito un castello di parole che mi parla davvero, sento tutti i personaggi del libro, mi metto nelle loro scarpe, soffro ed esulto con loro: i moti del loro cuore diventano i miei, per il magico potere della scrittura. E dopo tutto questo, mi chiedi di lasciare, di uscire?

Istintivamente, faccio resistenza. L’ho sempre fatta, davanti ad un libro che mi catturava. Con De Carlo l’ho fatta spesso. Qui se vogliamo, è esacerbata dal fatto che l’ultimo capitolo è veramente il culmine, è una chiusa geniale di impronta prettamente operistica (e non a caso si svolge in un teatro): i personaggi tutti insieme on stage in una sequenza davvero corale che è il cardine della narrazione ed insieme il momento in cui i nodi si sciolgono e si entra in un finale tanto sorprendente quanto – a pensarci dopo – perfettamente logico.

In questa fase terminale ogni personaggio entra in scena dovendo confrontarsi ormai senza scampo con l’opzione ancora possibile, di uscita in extremis dal nichilismo. È l’ultima possibilità dove ognuno gioca veramente se stesso.

Che sogni avete? Da dove vengono? Dalle pubblicità? Da internet? Oppure non ne avete nessuno? Cosa è successo ai sogni, dove sono andati? Sarà necessaria una catastrofe collettiva, perché si riprenda a sognare? Un blocco del nastro trasportatore che ci trascina a gran velocità verso il nulla?

Nell’intelaiatura delle diverse risposte si costruisce questo finale d’opera, dove l’emozione riprende piena dignità di esistenza e si propone come architrave ragionevole del tessuto del reale. Ripartire dalle emozioni, dall’affetto.

Perché quel che muove l’affetto è vero, è reale. Questo libro mi ha avvinto, tanto che sono ancora lì con i personaggi, passeggio nei luoghi del libro. Vedo quel teatro, e il teatro della vita politica italiana. E posso anche sorriderne, perché alla fine del libro capisco che c’è qualcosa che vola alto sopra tutte le manovre da piccolo cabotaggio, le convenienze spicciole. C’è voglia di fare, di migliorare.

C’è soprattutto qualcosa di lucente che non può morire, perché è profondamente radicato nel cuore di ognuno di noi.

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Il risveglio dell’umano

E’ uscito venerdì scorso (per ora soltanto in formato ebook) il nuovo libro di Julián Carrón, Il risveglio dell’umano (BUR Rizzoli). Il testo è una conversazione del teologo spagnolo con il giornalista Alberto Savorana. A tema, come ci si potrebbe attendere, la presente emergenza sanitaria e le sfide che questa comporta nelle vite personali di ognuno.
Una lettura semplice (ma non banale) che finalmente, al di là delle cifre sui guariti e sui deceduti che ci viene fornita quotidianamente con precisione esasperante, aiuta nel cammino di trovare un senso a quello che sta accadendo. Cosa ancora più importante, un senso personale. Un significato non “precotto” o fornito intellettualmente, peraltro.
E’ piuttosto un significato che richiede, in ogni persona che accolga la sfida, una postura attiva e non meramente recettiva.

In accordo con la “scuola” dell’Autore (che è alla guida del movimento ecclesiale di Comunione e Liberazione), infatti, il libro è un invito gentile a mettersi all’opera, a mettersi al lavoro nel cammino di scoperta di come questo periodo apparentemente “sospeso” possa essere usato per incamminarsi con più decisione verso la verità di sé.
Niente astratte dottrine, niente regole disincarnate, ma l’attenzione cordiale verso testimoni di una possibile pienezza, verso ogni “segnaletica” di un modo più vero di stare nel reale. Un testo che procede in un dialogo fitto e costante con quanto è stato detto e scritto sulla presente emergenza relativa al Coronavirus (al proposito si apprezza decisamente non solo l’ampiezza ma anche la freschezza dei riferimenti proposti, alcuni così recenti da arrivare alla data del 5 aprile di quest’anno).

L’uomo che si risveglia, si comprende dalla lettura, è l’uomo che riscopre, o meglio ricostruisce con questo lavoro di cesello quotidiano, la propria identità. E torna bene una frase che estrapolo dal libro di Marco Guzzi, Dizionario della lingua inaudita, laddove egli avverte che

Dobbiamo ricostruire la nostra identità, 
capire chi siamo in quanto occidentali,
europei, cristiani e nichilisti. E per fare questo
dobbiamo confrontarci, anche solo culturalmente
e a prescindere da qualunque adesione di fede,
con la novità assoluta della rivelazione cristiana,
su ciò che fa dell’evento di Cristo
l’inizio di una storia nuova sul pianeta.

Non è un libro che cambia la vita, questo di Carrón: è un libro che semmai aiuta a porsi in una strada per cui la vita può cambiare. O meglio, può cambiare la percezione che ne abbiamo, rinegoziando nel profondo le cose che crediamo di sapere. Ed anche – ed è forse il suo valore più denso – può aiutare a scoprire una utilità anche in questo periodo apparentemente “sospeso”. 

Per tutti, non solo per chi lotta in corsia, ma anche per chi deve “semplicemente” rimanere in casa.

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Solo la (tua) vita, convince

Devo ammettere che all’inizio ero anche un poco perplesso, approcciandomi al volume “La vita è l’opera“, una autobiografia di Marco Guzzi, ideatore dei gruppi Darsi Pace (con i quali lo scrivente entrò in contatto ormai diversi anni fa). Essendo dichiarata come autobiografia, il timore di una operazione con una certa dose di connotazione narcisistica, devo dirlo, mi è inizialmente affiorato alla mente. 

Abbiate pazienza, con me. Non avevo ancora capito (e qui mi permetto un gigantesco spoiler) che avevo tra le mani uno dei pochi libri che si possono davvero leggere, adesso.
La faccenda, se vogliamo dirla tutta, è che il sottotitolo – come capisce ogni lettore dopo aver voltato anche un modesto numero di pagine – è fondamentalmente una balla.
Sì care Paoline, stavolta avete barato: giunti al ventunesimo volume della gustosissima collezione Crocevia (le cui variopinte copertine formano adesso una allegra adunanza di colori, nello scaffale), chissà come mai, ma l’avete fatta sporca. Il sottotitolo, una biografia è chiaramente una deviazione dalla verità, non ci sono scuse. 

Una felice deviazione, dovrei aggiungere a questo punto. Una sperticata sottovalutazione, nel complesso.
Perché è ben di più di una biografia, ed al contempo (come vi dicevo poco fa) è l’unico modo possibile, adesso, per ragionare su alcuni temi importanti, mantenendo alto l’interesse di chi legge. 

Perché l’autobiografia è così avvincente, adesso? Perché proprio adesso, in questi tempi estremi, abbiamo bisogno di testimoni, non appena di incontrare verità disincarnate. Il fatto che tutto l’argomentare sia innestato su una vita reale, che sia non appena proclamato ma vissuto, rende le cose più vere, le rende potenzialmente vivibili anche per noi. Le rende esattamente, una proposta per noi.

Quello che disse Luigi Giussani già negli anni Novanta parlando ad un gruppo di responsabili del suo movimento, risuona oggi di una attualità quasi sconcertante, «Il grande problema del mondo di oggi non è più una teorizzazione interrogativa, ma una domanda esistenziale. Non: “Chi ha ragione?”, ma: “Come si fa a vivere?”».

La cosa stupefacente, per me, è capire come questa frase oggi, proprio in questi giorni, si possa prendere alla lettera, anzi che lo si possa fare soprattutto oggi: sì oggi, barricati in rifugi domestici per il virus, chiusi in ambienti fisici (e spesso mentali) ristretti, desiderosi quanto mai di una finestra di apertura, di un punto di fuga che però non sia una diversione sterile, ma sia piuttosto un radicamento, forte, in cose che contano, in poche grandi cose (per dirla ancora con Giussani). Ma per carità, in un modo vivo e fresco, di nuovo finalmente vivibile, gustabile, direi quasi spalmabile sulla pelle. Respirabile, se volete. Insomma, molto concreto. 

In fondo è la rassicurazione robusta e lieta, del si può vivere così che ci serve, in questo periodo. Non ci serve veramente altro. Dice Guzzi in un altro testo (e lui sa che mi piace da matti), che noi esseri umani “non abbiamo bisogno di molto altro, ma solo di infinita consolazione” (per il dettaglio, si trova adesso all’apertura del volume “Facebook, il profilo dell’Uomo di Dio”). Ed allora, facciamola corta. Basta con i discorsi. Solo di questo abbiamo bisogno. Infinita consolazione. Di verità disincarnate ed astratte, di speculazioni intorno ai massimi sistemi davvero non sappiamo più cosa farne. 

Non sappiamo che farne perché non ci sono utili, non ci aiutano più, perché ormai la nostra coscienza moderna, la nostra potenziale consapevolezza – ci piaccia o no – è oltre l’asfittica disamina di torti e ragioni, di istruzioni per l’uso della vita che non abbiano sangue e carne, dentro. E’ inevitabilmente, storicamente oltre, e nessun ritorno indietro è più tollerabile. Soprattutto ora, che siamo stanchi di giochetti dialettici, che i giochetti dialettici sono fragorosamente saltati in aria, spazzati via finalmente, da questa infausta ed inattesa emergenza sanitaria.
E per inciso, se dopo, si tornasse come nulla fosse, alla contrapposizione dualistica di torti e ragioni, al combattimento fragoroso ed inutile delle mille opinioni, rimbalzate da un pagina di giornale ai social e viceversa, beh avremmo davvero perso una occasione. Che è presente, senz’altro presente, pur in mezzo a tanta sofferenza. 

Che poi se vogliamo, non c’è che da riscoprirla questa verità, in fondo non c’è da inventarsi nulla. 

Perché questo è anche il centro del messaggio cristiano, come evidenziato nel libro: nessuna verità disincarnata, la verità è una Persona. Lo ripetiamo da millenni, ma forse non l’abbiamo ancora ben capito, nel complesso. Meglio, non abbiamo assaporato tutta la aerea, sconfinata benefica larghezza ed inedita spaziosità di questa posizione, sempre nuova. Ma addentrandosi nel testo, questo si può anche non capire chiaramente, o non capire subito, e il fascino ti raggiunge ugualmente. Non ci sono ulteriori concetti da mandare a memoria, ci sono – Deo gratias! – cose che accadono.
Non è appena chi ha ragione che ci interessa, ma come si fa a vivere, perché la faccenda è questa, nel periodo presente, ogni sistema astratto che ci appagava tanto (in apparenza), è semplicemente saltato. Così è un aggancio biografico che appena ci può interessare, adesso. Così questo libro – e certamente altri, sullo stesso registro – oggi ci interessa particolarmente. O meglio, solo questo tipo di libri oggi si può realmente leggere, come saggio. 

Certo ci sono i romanzi, un buon romanzo attraversa i tempi ed è fruibile in ogni situazione. Ma come saggio, ecco, siamo qui, questo è ciò che è possibile leggere. Nessuna trattazione formale oggi regge. Questa sì, perché una vita è lo specchio di mille vite, ogni vita è una proposta alla nostra vita. 

Un libro esattamente per questi tempi, dunque. Sono tempi estremi, in cui solo una verità incarnata, una verità vivente, una verità non di concetti, ma di sangue circolante, ci può prendere.
Perché adesso ogni ulteriore diversione, deviazione, è semplicemente intollerabile. E allora si attraversano i temi eterni della cultura, della fede, della tecnica e dello sviluppo dell’uomo, della felicità e della politica, del matrimonio e della sessualità, della psicologia e del rinnovamento nella Chiesa, della morte e della creatività ma in modo ancora possibile, in modo ancora felicemente, carnale.

Ed è un piccolo ma robusto inno alla gioia quello che ne deriva, capace di ristorare e rincuorare il lettore smarrito di fronte agli eventi, donando un senso e una direzione, ragionevoli e (nonostante tutto) gioiosi, perché alla fine – fatemi dire così – non si tratta della vita di un tizio, che puoi conoscere o meno, puoi aver incontrato o meno. Non si tratta di essere esposti ad altre nozioni, a dotte speculazioni, riguardo la biografia di Marco Guzzi, riguardo i gruppi Darsi Pace, riguardo a questo o quello. Non sono ennesimi appigli perché tu “ti faccia un’idea”, metta un’etichetta alla cosa e passi avanti. 

No, ed è questo il bello. Alla fine capisci che si tratta della tua vita, e l’abilità semplice e potente di chi intervista (Francesco Marabotti) e chi racconta semmai, è sul rimanere ancorati a cose concrete di una vita, che scopri con piacere che riguardano direttamente la tua, di vita.

E la ristorano di una proposta, salutare.

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Le cose semplici

Non è un libro che si legge in un fine settimana, questo di Luca Doninelli. Ci vuole di più, parecchio di più, per attraversare da capo a piedi Le cose semplici. E’ un libro che richiama potentemente il valore della lettura. E non potrebbe essere altrimenti, con le sue 836 pagine (io non me ne sono troppo accorto, perché ho affrontato la versione Kindle, ma tant’è). 
E attenzione, vi avverto che non azzarderò una recensione vera e propria, ne sarei assolutamente intimidito. Ce ne sono, di recensioni, e a quelle senz’altro rimando. Io voglio annotare solo qualche impressione, soggettiva, umbratile, provvisoria. Però, sincera. 
Non è troppo facile, perché questo è un libro che esonda da tutte le parti. Del resto, ogni opera propriamente artistica ha questo di bello, non si lascia facilmente incasellare, definire. Ci si trova infatti davanti ad una sostanziale, salutare impotenza, visto che il linguaggio ordinario non è in grado di scavare a fondo, esaurire il materiale, definire con precisione. Perché il linguaggio ordinario, i principi ordinari di comprensione, di non contraddizione, di logica e perimetrica delimitazione, non funzionano più, vanno del tutto fuori giri. E questo è un bene, vuol dire che ci troviamo di fronte a qualcosa che merita. La mediocrità, infatti, è sempre facilmente definibile dal linguaggio normale, perché lei stessa non ha quel di più che trascende tale linguaggio. Qui è diverso, sostanzialmente diverso. 
Che poi la trama già è difficile, da definire in poche parole. E’ in sostanza la storia di una ricostruzione, potremmo dire. Sì, una lenta e fiduciosa opera di ricostruzione del tessuto sociale, di costruzione nuova di una possibilità di futuro, di una rinnovata architettura di speranza. 
Si ricostruisce, dopo il quasi azzeramento di una civiltà che non crede, non spera, non rischia, e perciò si rattrappisce, si ritira, si dissecca. Lascia il campo al nulla, nella misura in cui non ama, non palpita d’amore, non mette al centro l’innamoramento, la domanda inesausta del cuore di essere compiuto, felice. 
E difatti, non per caso, l’opera di (ri)costruzione viene di pari passo con lo sviluppo di una storia d’amore, di una storia che attraversa il tempo come ogni vera storia d’amore è chiamata a fare, che stende un tessuto connettivo di comprensibilità sulla devastazione sociale nella quale si snoda, che si impasta degli umori e delle debolezze dei protagonisti. Così è la storia di Chantal con Dodò, una storia intorno alla cui irresistibile verità anche le circostanze più avverse si arrendono, si aprono e si armonizzano, naturalmente senza elidere quella chiamata alla pazienza e al sacrificio che è così tipica – ci piaccia o no – delle cose semplici, delle cose vere. 
Fatemelo dire. Già leggerlo, è una avventura. Al giorno d’oggi, abituati al frazionamento di gesti, pensieri, azioni e decisioni, in un microcosmo sottile e mutevole di piccolissimi universi da consumare nell’istante, affrontare i tempi lunghi di un libro così, è una sfida. Un libro così è una lotta. Non si domina, infatti, ma si viene di fatto (piano piano) dominati. Non si racconta, ma si viene raccontati. Se però ci si arrende: questa resa è necessaria per entrare nell’opera. Solo con questa resa è possibile entrarvi. Un libro così, ti dice io ti devo raccontare, devo anche raccontarti, ma tu devi fare silenzio prima di tutto. Ed è una lotta, una vera lotta perché tu no, d’impulso tu non vorresti affatto fare silenzio, infatti tu sei pieno di cose da fare e di tante opinioni e giudizi da elargire, di situazioni da sistemare e sei normalmente pieno di fretta di far tutto questo, ma un libro così ti dice intanto ed innanzitutto, siediti e aspetta. 

Dunque l’avventura è aprirsi, fare silenzio, ascoltare. E la voce del narratore è solida, consistente. Mantiene quello che promette (e un libro di più di ottocento pagine promette molto, ed è impegnativo poi mantenere). Ci sono momenti che vai avanti a fatica, momenti in cui proprio lasceresti perdere, ti chiedi anche perché hai iniziato un libro così. Io mi sono anche fermato e ho letto altri libri, per non posticiparli troppo, cosa che forse non si dovrebbe fare. Ma poi ho ripreso. E ho trovato momenti assolutamente puri, limpidi, momenti di dialoghi fulminanti e frasi che ti stordiscono, proprio ti stordiscono, per quell’accento alla struttura luminosa del reale, che non lo capisci a fondo ma quando lo trovi, se lo trovi, ti ci attacchi tanto è bello, importante, definitivo. 
E in fondo questo libro parla soltanto d’amore. Ma è ovvio. Non sarebbe tollerabile un viaggio per centinaia di pagine, se non parlassero d’amore. Nessuno sano di mente, potrebbe sopportarlo. E di Parigi. Il racconto dell’innamoramento tra Dodò e Chantal è anche il racconto di una dolcissima Parigi, narrata con morbidissima precisione, fino ai crocicchi delle strade, fino al dettaglio più minuto, importante perché investito di una storia d’amore, che dona a tutto una dignità incredibile, che restituisce a tutto la sua specifica dignità d’esistenza. Nell’esperienza di un grande amore tutto ciò che accade diventa avvenimento nel suo ambito diceva Romano Guardini
Che poi, una storia d’amore che non contempli Parigi, in qualche modo anche remoto anche celato anche indiretto, non è credibile, non è vera. Ma questo libro mi richiama e mi ricorda, in una fitta trama di rimandi anche sottesi, lievissimi ma tenaci, un grande capolavoro come I promessi sposi. Che infatti, non a caso, vengono citati nel romanzo. Il manoscritto manzoniano è sostituito da una serie di quaderni. E la peste qui è, in chiave moderna, questo disfacimento nichilista della trama del reale. Identica è la chiamata all’opera di ricostruzione, in fondo. Identica l’urgenza, morale nel senso opposto a moralistico, ovvero nel richiamo alla necessità della gioia. 
In fondo questo libro parla solo d’amore, appunto. E di Parigi. E di Dio. Sì perché è anche una lunga e articolata lotta (nel senso di Giobbe) con Dio, con l’urgenza di capire come e perché Lui incontra la nostra storia, di cedere alla prospettiva pazza e sconvolgente di un Amore, totale. 
Dunque alla fin fine il libro parla di una cosa soltanto. Per questo in fondo le cose sono semplici, anche in una articolazione così lunga. Perché parla di quello che coinvolge il cuore, di quello che lo definisce e prende sul serio la trama profonda dei suoi bisogni, dei suoi desideri. 
Prendere sul serio un bisogno, prendere sul serio la sete di verità e compimento, che risiede nella parte più sacra del cuore umano. Questo distingue l’arte dalla chiacchiera, dal fatuo riempimento di tempo. Da questo, come nel libro, possiamo partire per ricostruire l’umano, in noi e tra di noi. 
Così che le cose tornino semplici, davvero. 

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La casa degli sguardi

A volte ci sono dei suggerimenti a cui sei grato, semplicemente grato. Perché poi non sono semplici suggerimenti, sono delle proposte per incrementare la vita, per aumentarla. Sono spunti che ti aiutano ad essere vivo, un po’ di più. 
Spesso infatti ci diciamo, anche noi fisici ed astrofisici, che tutto è relazione, ma poi ci dimentichiamo che questo ha grandi e profonde ricadute anche nella nostra vita ordinaria. Proprio gli incontri e le connessioni, infatti, rendono questa vita più fonda, più imprevedibile, più meritevole d’essere vissuta. Un po’ più inattesa e lieta, in generale. 

Lo spunto di incontro con questo libro, e con Daniele Mencarelli, che ne è autore (che incontro personalmente al meeting), è quello di un ambiente e  di amici di cui ti fidi. Un suggerimento di lettura che non riesci a buttar via facilmente.

Certo, magari ti chiedi, perché proprio questo libro? Capisci la proposizione dei testi di Giussani (che peraltro, l’hai capito ormai, sono fonte inesauribile di sorpresa), capisci tanto altro (come i classici della narrativa, tesori luminosi dei quali sei grato, ma che in verità ti sorprendono meno, a livello di proposta), nei libri consigliati, ma questo in particolare ti incuriosisce. Un libro di narrativa contemporanea? Deve esserci sotto qualcosa, non può essere semplicemente come tanti altri, un prodotto per l’estate, uno dei tanti lanci editoriali che strizzano l’occhio ad argomenti facili, a narrazioni di poco impegno. Deve esserci una storia umana, sotto.

Quando chi ti propone qualcosa è per te autorevole, sei persuaso (lo sei, anche se ancora non comprendi) che quel che ti indica è di valore.

Il libro l’ho terminato pochi giorni fa, e sono grato, come dicevo, semplicemente grato. E’ una storia umana che tocca il cuore in modo profondo, perché Daniele racconta senza infingimenti, senza veli letterari. Mette giù la realtà così com’è, senza proporsi di abbellirla. All’inizio ti spiazza, totalmente. I suoi problemi di dipendenze, i rapporti con i genitori, soprattutto il nulla che attanaglia, non lascia respiro. Il senso del tempo che porta via tutto, da cui non si può scappare – se non apparentemente, con uno stordimento dei sensi, con una smemoratezza chimica od alcolica, che però riporta invariabilmente al punto iniziale. Ed anzi, nel tempo, accresce il disagio, la confusione. E allarga drammaticamente la confusione, lo stordimento, il cupio dissolvi, proprio alle persone a cui più si tiene.

E’ una situazione drammatica, quella da cui parte il libro. Tutto questo è raccontato così, in modo diretto. Senza abbellimenti, senza scansare gli aspetti più penosi e dolorosi.  E nel contempo, senza usare una sola parola più di quelle necessarie.

Lo confesso. Io ci credo che Daniele è un poeta. Non ho ancora letto molto di lui, a parte questo libro, ma ci credo totalmente. Perché solo un poeta ha questo profondo rispetto per le parole, per quello che dicono, che indicano. Solo un poeta le usa con verità ma con misura, senza indugiare negli effetti di coloriture eccessive o senza farsi tentare da sbiadimenti moralistici. Le usa per la profondità che loro hanno, insomma le rispetta, come già si diceva. Una per una.

Solo un poeta, insomma,  parla con questa verità.

La storia che racconta Daniele, scopertamente e dichiaratamente autobiografica, è come una salita dantesca dalle tenebre alla luce, una storia della quale preferisco lasciarne fuori i dettagli per non guastare a nessuno l’esperienza della lettura. La cosa che mi preme notare, è che il passaggio avviene in modo graduale, non trascurando niente, non censurando nulla. Parte anzi da una visione sincera di sé, fuori da ogni infingimento. Solo una presa di coscienza integrale di quello che si é, senza scandalo e senza belle intenzioni, può mettere in moto. Ma certo, non basta.

Due cose fondamentali che mi arrivano dal libro, devo ancora dire. Due cose rendono infatti possibile questo cammino, rendono praticabile, lavorabile, questo percorso.

Una è il valore dell’amicizia (che letteralmente, può salvare la vita). Davide è l’amico poeta che concretamente fornisce l’appoggio per Daniele, gli rende concreta la possibilità di un percorso di uscita da una condizione insostenibile, orientata alla vittoria del nulla, all’autodistruzione. L’amicizia entra in campo come opposizione profonda e radicata, a questa deriva. Come offerta di una relazione che sfida il nulla, ne smentisce la suggestione, lo sfianca. Ma questo è il primo passo. E non è tanto il fatto concreto, l’opportunità specifica (l’offerta di un lavoro presso l’Ospedale Bambino Gesù, in questo caso), ma il fatto profondissimo che scende nel cuore, di sentirsi guardati, sentirsi amati. Essere guardato infatti è il primissimo passo, che consente a Daniele di ripensarsi come esistente, e di poter scommettere su una positività del reale, che pure a volte sembra drammaticamente nascondersi.

L’altro è la percezione di evidenza, appunto, di questa positività, che non rimane appesa ad una teoria o ad uno sforzo volontaristico perché si riesca a vedere, ma si palesa lei stessa, in una inedita ed inattesa  bellezza.  Qui arriviamo al punto, all’architrave del libro. Non sono discorsi, non sono prediche, non sono elencazioni di valori morali che potranno salvare Daniele, che potranno salvare ciascuno di noi. E’ piuttosto la percezione potente della bellezza, come uno squarcio di luce che entra fino nelle circostanze più penose, vi entra e le illumina di una nuova possibilità.

L’episodio della suora che viene sorpresa mentre sorride e scherza con un bambino orribilmente (per Daniele, per tutti noi) malformato, è il vero punto di deflagrazione interna, di uno scoppio sotterraneo ma devastante, potentissimo, ingestibile. L’evidenza di una bellezza che muove la anziana suora a comportarsi in questo modo, è in un certo senso terribile. Nel senso che non ti lascia in pace, non ti dà tregua, ti accende dentro l’esigenza di spiegarti, di rispondere a quello che hai visto. Di fartene un modello, diremmo noi scienziati. Ma nessuno modello riduzionista riesce a tenere, nessuna ipotesi a decostruire rimane salda, quando chi vive è costretto, è ricondotto, ad ammettere la verità, l’accento di verità – e quindi di bellezza – di quanto ha visto, con i suoi occhi.

Vivendo nella carne, appunto. Non sono discorsi, ideologie, strategie ed utopie a sollevare Daniele, a sollevare ognuno di noi dai suoi stati più bassi, da donargli nuova libertà nelle sue dipendenze. E’ il tocco concretissimo del reale che lo viene a trovare, con quell’evidenza lancinante di un altro fattore che a questo punto entra, deve entrare, nella sua e nostra concezione del mondo, dei rapporti tra le persone, del destino ultimo del cosmo fin nelle sue più lontane stelle. Si tratta di non abiurare mai più a questa concretezza: «Noi non vogliamo Cristo solo, vogliamo anche gli alberi, la donna, tutte le creature!» diceva don Giussani.

Ed è davvero una occasione concretissima che fornisce a Daniele quel punto di appoggio che rende di nuovo la sua vita plastica, modificabile, lavorabile. E che insieme gli insinua quel gusto necessario per intraprendere l’opera, che è fatica e sacrificio, come per tutti noi, in qualsiasi condizione ci troviamo.

In quel gusto di costruzione i nostri limiti non sono più scogli insuperabili, si ammorbidiscono essi stessi, e si crea piano piano la sensazione di poter scorgere un percorso, che non censura, non dimentica nulla, non insiste sulla debolezza ma scommette sul potere della vita, su questa luce che affiora sul volto di una suora di più di ottant’anni che abbraccia e sorride a ciò di cui noi siamo spaventati. Da lì si inizia a vedere la realtà con occhi nuovi, e a questa nuova visione la realtà risponde, in un percorso che – non a caso – apre a Daniele la strada per realizzare la propria vocazione, donando la risposta operativa alla domanda più profonda, io perché sono qui? che è sotto alla domanda pressante perché questo dolore? che accompagna tante pagine del libro.

C’è bisogno di vedere, di vedere accadere cose così, di leggere libri così, per non squalificare la nostra vita giocandocela in modo opaco o spento. E per ritornare a domandare davvero, a domandare la gioia piena: perché domandarla non è sconveniente, non è fuori luogo, ma è proprio questa domanda (a volte sussurrata, a volte urlata) il luogo dove poter dimorare, dove poter tornare a dimorare.

Non bisogna nemmeno essere capaci di sorridere, se talvolta non ne siamo capaci. Piuttosto, occorre avere occhi aperti per vedere il sorriso aprirsi sincero sul volto di un’altro quando – per fortuna o piuttosto per grazia – ancora accade, davanti a noi.  

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Roma, somiglia anche a me

Roma mi somiglia Roma mi somiglia by Serena Maffia
My rating: 4 of 5 stars

Mi è piaciuto. La poesia della Maffia è sanguigna, pulsionale, apparentemente delicata con degli affondi inattesi, luminosi, completamente carnali. Roma è diffusa in tutta questa raccolta poetica, che gioca con i mille ritmi del cuore, e l’innamoramento è sempre del corpo e della città, di un corpo e una citta, definita, determinata, storica e luminosa. Non c’è separazione tra privato e sociale, tra spazi intimi e angoli e piazze cittadine, c’è appena un comune sentire, un soffio di sottile gioia che comprende e non separa, mette insieme e lascia fiorire. Poesia leggera, che non pretende e non spaventa, e per questo, poesia (di nuovo) possibile compagna di vita.

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Ecco, ogni tanto ci penso. Lasciare traccia di quanto si legge, anche questo è un compito. Qualcosa che aiuta a fare un cammino, ad uscire dalla distrazione, dalla omologazione. Che è la stessa cosa. Il cammino che abbiamo davanti è di esprimere la nostra personalità, di macchiare il mondo di noi stessi, dei nostri personalissimi umori, odori. Siamo unici, e ogni tragitto di letture – anche – ci rimette davanti alla nostra unicità.  Come reagiamo a quanto troviamo scritto, come interagiamo con le parole pensate, dette, scritte da altri? 
E la poesia, specialmente la poesia, non è alla fine una semplice faccenda di interazione, di intersezione, tra chi scrive e chi legge? Ogni libro di poesia che trovo, che apro, non è per me la possibilità di arricchire la parola scritta, facendola vibrare dei miei stessi personali autostati, impregnandola di vita, della mia vita? La poesia grande, quella vera, assorbe la vita degli altri, è aperta ad ogni vita, la fa risuonare e la esalta. La mia vita passa dentro i versi di qualcun’altra, do qualcun’altro, e mi ritorna più colorata. 
Come Roma. Lei, lei davvero si fa teatro attivo delle emozioni di chi la percorre; le assorbe, le custodisce, le impreziosisce delicatamente e le ritorna più dense, arricchite di una qualità speciale. Personale, soprattutto. Roma non ha tempo da sprecare (e nemmeno tu, nemmeno io), per rimanere anonima, spersonalizzata, disincarnata o astratta. No, per niente. Invedce, Roma avvia un dialogo speciale ed unico con ognuno. Così che lo posso dire, alla fine. O già all’inizio, già al primo scorcio di infinito domestico. Roma mi somiglia, infatti. 
Somiglia anche a me. 

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Quei promessi sposi

Ecco, mi è venuto in mente di scrivere, di scrivere qualcosa per ogni libro (più o meno) che finisco. Mi è venuto in mente per fermare qualche impressione, sensazione, della mia lettura. E’ lacerante, a volte, di fronte a certi libri, perché tutto quel che si può dire non si esaurisce certo in un post. A volte, come per quello di cui mi sto per occupare, credo che quello che si può dire non si esaurisce affatto. Dunque non è una descrizione del libro quanto la descrizione (anche questa, gravemente incompleta) di una specifica interazione con esso, che poi sarebbe la mia specifica lettura. Mi servirà per ricollegarmi alle impressioni che ho avuto in chiusura del testo. E forse, chissà, potrà anche servire a qualcun’altro. 
Bene, stamattina ho finito I promessi sposi. E’ un libro, un’opera, per le quale mi sentirei di spendere la parola capolavoro. E la lettura è stata una sorpresa. Ho capito come nella lettura scolastica, molto molto tempo fa, non avevo realmente compreso nulla di veramente importante. Non mi era arrivata la bellezza del testo, quasi per nulla. Ma è un testo bello, bellissimo. Mi arriva questa volta, dopo decenni dalla prima (forzata) frequentazione. Veramente nei classici ci si può dimorare, si può tornare e tornare molte volte. E se sono classici di solito un motivo c’è. Chiuso il testo rimane forte una sensazione di gratitudine per quello che si è vissuto.

Non tanto per la vicenda, ma per come è raccontata. Come per tutta la grande letteratura, del resto. La vicenda è un pretesto (ed è tanto nota che sarebbe anche ridicolo volerla riassumere). Quello che conta, quello che rimane, è la prosa, il tono, le considerazioni dell’autore e più di tutto i rapporti tra le parole, la tensione che si crea per i loro accostamenti, per come sono usate. 
Le parole veramente sono mattoncini che creano un mondo. 
Quello del Manzoni è un mondo che ti rimane addosso come uno strato di protezione buona, di ragionevolezza pacata e disincantata, in fondo, di positività ultima del reale. Una positività che non censura niente, non nasconde niente (i capitoli sulla peste sono di un realismo e di una poesia, insieme, difficilmente imitabili). E per questo, proprio per questo, diventa credibile. Come lo scarto del Manzoni, veramente geniale, da un classico lieto fine, pur nell’approdo sostanzialmente positivo della vicenda di Renzo e Lucia. C’è. rimane, quella tensione del già e non ancora, caratteristica dell’ipotesi cristiana sulla vita, sul mondo. 
Ipotesi cristiana, o meglio pretesa cristiana per dirla con Giussani. Non è questo infatti un libro che si possa facilmente separare dalla fede, a mio avviso Non si può, senza inaridirlo, senza impoverirlo, disseccarlo alla radice, renderlo arido, renderlo – stavolta sì – noioso. Perché la radice è indubbiamente cristiana: è in fondo un inno alla ragionevolezza della ipotesi cristiana, dall’inizio alla fine. In questo riposa, mi pare, il vero motivo della dedizione del Manzoni verso questo racconto.
Il che non vuol dire che sia necessario sentirsi cristiani per leggerlo, affatto. Ma è forse richiesto, per fruirlo fino in fondo, gustarne la bellezza, un atteggiamento appena simpatetico, appena di apertura, verso questa ipotesi, questa possibilità sempre aperta di visione dell’uomo e del mondo. Allora si avverte la bellezza profonda del testo. Aprendosi appena a questa possibilità, qualsiasi sia il proprio tragitto di vita, o le cose che crediamo di credere.
Testo che – possiamo dirlo – è una bomba. Che diverte, istruisce, commuove, rallegra, intriga. Qua e là magari annoia, certo non ha i ritmi dei romanzi moderni. Ci vuole in altre parole una certa determinazione, bisogna mettere in conto, qui e là, una pur minima fatica. Che  però, ed è questa la mia esperienza, viene ripagata abbondantemente, viene ripagata oltre le aspettative. 
E si scoprono delle cose interessanti, anche stilisticamente. Delle cose piuttosto moderne, a dire il vero. Solo un accenno: ho notato con stupore che nelle fasi più concitate, Manzoni passa in modo molto disinvolto dalla narrazione nel passato all’uso dei verbi al tempo presente. Per poi tornare al passato, con la massima naturalezza. E’ come se ti immergesse nel momento, di colpo, rendendolo contemporaneo, e poi ti riportasse, quando è opportuno, a quella distanza di sicurezza che ti consente anche di riflettere, di ruminare, con la dovuta distanza.
Ma le note stilistiche sarebbero molte, e certo da lasciare a chi è ben più esperto del sottoscritto. Per cui non indugerò oltre, su questo. Tornerei piuttosto alla apertura necessaria per fruire appieno del testo, come si è accennato.
Ecco, chi si sente questa anche minima apertura, godrà moltissimo dell’edizione che ho letto anche io, quella edita dalla BUR con una breve ma densissima premessa, preziosa direi, una conversazione tra il poeta Davide Rondoni e Don Luigi Giussani. Poche pagine, ma luminose ed importanti. 
Eppure un’altra cosa che viene a galla pian piano, un’altra semplice bellezza di cui si diventa sempre più grati durante la lettura, è l’apparato di note a cura di Laura Cioni e Silvia Fornasari. Non solo rivelano una comprensione “amorosa” del testo, una condivisione appassionata della coordinate di fondo, ma più volte vi si ritrovano delle vere gemme davanti alle quali  io personalmente mi sono dovuto fermare, a riflettere. Non faticherei a definirle un vero valore aggiunto a questa opera immortale. Insomma, se il libro è un inno alla ragionevolezza del traversare la vita con l’ipotesi cristiana, le note rafforzano ed impreziosiscono questo inno, donando nuovi spunti preziosi alla ruminazione personale. 
E alla fine, un altro motivo di gratitudine che rimane, dopo la lettura di queste pagine. Un testo “antico” che feconda questo apparato di note, è un testo tutt’altro che morto: un testo vivissimo, che opera nel presente e aiuta a comprendere il presente. 
Un vero classico, insomma. 

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Bianca come il latte, rossa come il sangue

Vi sono libri che instaurano un rapporto particolare con chi li legge. Non dipende solo dal libro, non dipende esclusivamente dal lettore: è come un’affinità che vibra nella composizione virtuosa di chi conosce con l’oggetto del conoscere. 
Questo libro mi è piaciuto molto. Quando un libro mi piace davvero lo capisco perché mi ritrovo, ad un certo punto, a verificare con una certa apprensione il numero di pagine che ancora mancano, come a controllare che vi sia ancora un certo periodo minimo “garantito” prima di dover sbucare fuori. Quando sbuchi fuori da un libro, o da una musica, che ti piace, ti senti grato ma avverti anche un senso di mancanza. Come dire stavo bene lì dove stavo…
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Biaca come il latte, rosa come il sangue  (Alessandro d’Avenia)

Non sarà un capolavoro,  ma è ben scritto (e pensato). E la storia di Beatrice, di Silvia e Leo mi ha preso. Mi ha commosso in diversi punti. Mi ha fatto pensare. Soprattutto mi ha  rasserenato, come lo scrivere onesto e non furbetto può rasserenare. 
Perché mi piace? Forse perché è coraggioso nello sdoganare il mondo dell’adolescenza da tanti stereotipi e luoghi comuni. Finalmente l’adolescenza viene riumanizzata.  La malattia di Beatrice è il punto dove la finzione non regge più, e si vede come l’adolescente e l’uomo maturo sono molto vicini, molto più di quanto la percezione comune porterebbe a pensare (ci capita di pensare a compartimenti stagni, perché è meno faticoso: il bambino e il suo mondo, l’adolescente e i suoi problemi, e così via). 
L’adolescente e l’uomo maturo sono vicinissimi perché in entrambi brucia forte una domanda di senso. E che il giovane chiede e cerca un adulto capace di intercettare la domanda di senso (anche a scuola). 
Che se c’è un senso nella vita e nel dolore, se dopotutto ci fosse, esistesse davvero, più tragico ancora del dolore stesso sarebbe il non percepirne nemmeno il riverbero…

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