Blog di Marco Castellani

Categoria: referendum

Dialogo

Tu sei un bene per me, e questa frase – che è stata quest’estate addirittura la nota dominante di una manifestazione frequentata e ricca come il Meeting di Rimini – ad una prima passata, ad una analisi frettolosa, può perfino apparire scontata

Eppure, è una frase che si apre ad una perpetua rivoluzione, se appena uno prova a sentirla fino in fondo, ad esplorarne le diecimila applicazioni pratiche. Se uno prova – con tutte le cadute e le smagliature del caso – a viverla. A comprendere vivendo, cosa cambia veramente del suo modo di intendere e rappresentarsi il reale. Vivendo, voglio dire, e non ragionandoci elaborando speculazioni teoriche. Nemmeno scrivendone in un blog, per intenderci: se infatti qui dico, è appena per trattenere i fili e le impressioni di una cosa che si è srotolata nel reale.

Dialogare è crescere


Perché se è vero (ammesso e non concesso, vogliamo dire…?) che il mondo è uno, è vero che cambia radicalmente in funzione dei nostri modelli mentali.
Tu sei un bene per me apre ad una serie di conseguenze che mi sorprendono, all’atto pratico.  Nel senso letterale, proprio: che prevale in me il sentimento di sorpresa. Non tanto a pensarle (corrono piuttosto il rischio, come sappiamo, di essere addormentate da un buonismo tanto accogliente quanto tragicamente inoffensivo): mi sorprendono a viverle, a vederle accadere. Come mi è accaduto ieri sera, al Nuovo Teatro Orione, per l’incontro sulla riforma costituzionale, organizzato dal Centro Culturale Roma.

Un momento dell’incontro al Nuovo Teatro Orione

Intanto. Ospiti sicuramente di rango, come  Stelio Mangiameli, professore ordinario presso l’Università degli studi di Teramo Cattedra di Diritto costituzionale e direttore dell’Istituto di Studi sui Sistemi Regionali Federali e sulle Autonomie “Massimo Severo Giannini” Consiglio Nazionale delle Ricerche (ISSiRFA CNR). Ricercatore di ruolo di Istituzioni di Diritto Pubblico, presso la Facoltà di Economia e Commercio dell’Università degli studi di Catania.

O come Luciano Violante, professore ordinario di istituzioni di diritto e Procedura penale e Presidente emerito della camera dei Deputati. Giudice istruttore a Torino fino al 1977, nel marzo 2013 ha fatto parte del gruppo di lavoro finalizzato alla presentazione di proposte programmatiche in materia istituzionale, economico-sociale ed europea.

L’incontro, che è stato intelligentemente e piacevolmente moderato dal giornalista Paolo Cremonesi, è stata per me questa  occasione di sorpresa. 

Ci sono andato per orientarmi sul referendum, innanzitutto. Perché è vero, se dico che non ho deciso, la gente mi guarda come per dire ah hai deciso ma non vuoi dirmelo. E invece no, non ho deciso. Vorrei prendere questa occasione come una opportunità di dialogo e di confronto, per capire cosa muove le persone ad una posizione o all’altra. Non mi interessa saltare di corsa a bordo di una qualche posizione prefabbricata. Stavolta no, mela voglio gustare tutta, questa possibilità. Mi piace cercare di capire, comprendere, relazionarmi.

Un collega di lavoro pochi giorni fa mi ha confessato, forse con qualche non voluta supponenza, per me è così evidente, io ci ho messo appena un attimo a capire da che parte stare. Ecco, io voglio proprio fare il contrario, invece. Voglio metterci del tempo, capire, comprendere le ragione delle parti. Questo deve essere il mio referendum, una mia occasione da non perdere. Per stringere legami, conoscere, esplorare. Anche una volta deciso, capire e frequentare le ragioni opposte.

Finalmente capisco meglio il volantino diffuso da Comunione e Liberazione, Per recuperare il senso di vivere insieme.  Eh sì che l’avevo un po’ sottovalutato, all’inizio. Come se dicesse belle cose ma poco reali, nel complesso.

E invece adesso, a valle di quello che mi sembra possa generare, ne apprezzo la peculiarità (e capisco la superficialità della mia prima frettolosa valutazione). Anzi, la salutare unicità. Perché la bellezza di quanto accade seguendo questa posizione, è veramente uno spettacolo. La posizione poi è semplice: capire la grande opportunità che è questa occasione, una opportunità di relazione con l’altro, prima che una corsa a capire da che parte “bisogna” stare.

E ieri per me è stato come assistere ad una piccola festa di relazione, se così posso dire. Due persone intelligenti che si sono confrontate in modo rispettoso, veramente rispettoso dell’altro. Due identità che non si sono affatto nascoste o diluite (Violante è per il sì, Cremonesi per il no, dichiaratamente): tutt’altro, direi. Non si sono mimetizzate, ma hanno intrecciato le loro ragioni nel pieno rispetto dell’altro.

Un rispetto non artefatto, o simulato. Un rispetto che si respirava.

E mi sono finalmente reso conto di come sia generativa la posizione del volantino, proprio di quel volantino che avevo accolto con una certa sufficienza. Perché l’incontro di ieri nasce proprio da un lavoro appassionato sui temi del volantino, da una dichiarata ispirazione a quest’ultimo.

Ecco, la fecondità di tale approccio, ieri mi ha conquistato, intenerito. Rallegrato, ultimamente.

Ed è servito, anche sotto il lato della scelta, perché ho iniziato ad irrorare di ragioni una mia possibile scelta, ho iniziato ad orientarmi verso una posizione. Forse non serve nemmeno che la dica, perché poi non è questo il punto.

Il punto è non ricadere (ancora) nello stato mentale che divide, contrappone, distingue. Separa buoni da cattivi. Comprende solo attraverso l’esclusione, la divisione. Si coagula nella ricerca di un nemico (Renzi come Berlusconi, in questa dinamica, non fa differenza), o di uno schieramento entro il quale trovare dimora e una sicurezza di giudizio che evita il vero confronto con l’altro.

Il punto è proprio questo, di non perdere questa opportunità di crescita, di dialogo. 

“È solo la certezza del significato ultimo che fa sentire, come fossimo un detector, la più lontana limatura di verità che sta nelle tasche di ognuno. E non è necessario, per essere amico di un altro, che lui scopra che quello che dici tu è vero e venga con te. Non è necessario, vado io con lui, per quel tanto di limatura di vero che ha…”

Rileggevo questa frase di Luigi Giussani (contenuta in La forma della testimonianza, di J. Carron) e mi invadeva la forte evidenza di come questo si adattasse, si ritagliasse proprio sulle forme dell’incontro di ieri.

Quell’incontro che mi ha fatto capire che sì, con tutte le mancanze e i difetti e le intolleranze che posso avere di carattere, di temperamento, io voglio stare qui.

Posso votare una cosa o l’altra, ma dentro questa strada, questo orizzonte.

Dove ha senso – ed è anzi esaltata – la mia personale scelta, anche per il referendum costituzionale.

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Consolazione

E’ una parola importante, capisco bene che non può non figurare in questo mio personale dizionario, in perpetua formazione. E’ importante ma raramente ci penso – come se ci fossero sempre cose più decisive, più urgenti, da analizzare. Come se la priorità fosse sempre altrove. Meglio, come se la parola stessa racchiudesse un non so che, un sogno semplicemente troppo bello per essere una cosa reale, una cosa da adulti. 

In questa percezione del mondo, un bambino certamente si consola, si può e si deve consolare. Un adulto più o meno deve cavarsela da solo (o al massimo entrare in terapia), perché si suppone abbia maturato gli strumenti interni per affrontare i momenti difficili.

Il mondo peraltro è strano, è certamente molto più bizzarro degli schemi mentali che ci possiamo fare, che ci facciamo. E’ anche qualcosa che viene percepito in modalità molto differenti, a seconda dello stati psicologici e sociali in cui ci troviamo, che stiamo attraversando, come individui e come comunità. Potrebbe  anche essere, dunque, che ci stiamo nascondendo l’unica cosa reale, l’unica cosa di cui occuparci seriamente, e serenamente.
Photo Credit: idakrot Flickr via Compfight cc
Abbiamo bisogno di consolazione. O almeno, io ho questo bisogno di consolazione, anzi di una infinita consolazione. Sempre, in ogni momento. A volte il senso di mancanza di questa infinita consolazione stringe il cuore in una morsa in cui quasi non riesco a respirare.
Bene, direi.

Bene, perché già ammetterlo è l’inizio di una liberazione possibile. E’ dismettere l’atteggiamento dell’Ercolino sempre in piedi, è ritrovare – quasi come pietra preziosa – la propria fragilità e iniziare a dialogarci, provare ad abbracciarla. Sentirsi incompleti e non provarne scandalo, è il primo passo verso una riconciliazione con sé e con le cose.

Bene, perché capisco che non posso vivere senza cercarla, questa consolazione. Che non ho davvero altri modelli di vita praticabili (o almeno, in più di mezzo secolo, non li ho mai trovati) che esulino dal cercare, dal domandare, questa infinita consolazione. Per dirla con le parole di Marco Guzzi,

Non abbiamo bisogno di molto altro,

ma solo di infinita consolazione.

Noi esseri umani abbiamo sempre bisogno

di consolazione, anzi di un’infinita consolazione.

Abbiamo sempre bisogno di essere consolati,

confortati nella nostra sofferenza

strutturale, nella nostra fragilità, nella precaria

giornata terrena.

Non abbiamo bisogno di molto altro,

ma solo di infinita consolazione:

tutto perciò dovrebbe essere finalizzato

a questo scopo: il lavoro, la sapienza,

ogni forma di compassione e di amore,

siano modi per consolare, per dire

all’essere umano: tu hai un grande valore,

non temere, non sei solo, e questa scarpata

ripida e dolorosa

ti sta portando

sempre più prossimo alla gioia, a tutto ciò

cui aneli, spesso senza nemmeno saperlo.

Marco Guzzi

Questa necessità di consolazione, che avverto oggi in maniera straordinariamente concreta e pressante, non può essere più relegata dunque a istanza psicologica individuale. Non è solo questo, non è più una spiegazione sufficiente. Riconosco che i tempi si stanno facendo stretti: tanto in senso personale quanto in senso sociale.  Diceva assai profeticamente Don Giussani, qualche anno fa, che

 il grande problema del mondo di oggi non è più una teorizzazione interrogativa, ma una domanda esistenziale. Non: “Chi ha ragione?”, ma: “Come si fa a vivere?”. Il mondo di oggi è riportato al livello della miseria evangelica; al tempo di Gesù il problema era come fare a vivere e non chi avesse ragione; questo era il problema degli scribi e dei farisei.

E’ proprio così, secondo me. Ma quanto invece sembra periferico, nelle conversazioni che incontro, che attraverso! Sembra l’ultima cosa, la più indicibile, la più inconfessabile. Perfino in questi giorni che precedono il referendum, qualcosa ancora  ci trasporta, ci devia, e nei discorsi pro o contro la riforma costituzionale, prevale la logica degli schieramenti, l’affezione ad una parte, a volte quasi pregiudiziale. O l’avversione verso uno o l’altro dei personaggi dell’agone politico. Tutte posizioni probabilmente insufficienti, che mancano il bersaglio – che perdono l’occasione.
Dunque quel che sembra periferico diviene qui essenzialmente centrale.  E di importanza politica, prima di tutto. Ha detto infatti il presidente Mattarella, che il nostro Paese «ha bisogno di rinnovato entusiasmo, di fraternità, di curiosità per l’altro, di voglia di futuro, del coraggio di misurarsi con le nuove sfide che abbiamo di fronte (…) in un tempo di cambiamenti epocali. (…) Senza farci vincere dalle paure».
Ecco che il circolo si chiude, i nodi tornano al pettine. La dimensione sociale abbraccia – ancora una volta – quella intima, personale. Quell’accenno conclusivo al non lasciarci vincere dalle paure riporta questa condizione a cardine necessario per un corretto e produttivo agire politico. 

Del resto è abbastanza evidente: come fa un essere dominato dalle sua paure non affrontate, ad intervenire costruttivamente nell’agone sociale? Non si muoverà in base alle sue problematiche irrisolte, piuttosto?

Dunque non è più lecito – sopratutto dopo la morte delle grandi utopie sociali – tenere separato l’ambito politico da quello personale. O peggio, aspettarsi la salvezza dall’intervento anche generoso verso le condizioni esterne. Anche risolvessimo – per assurdo – problemi enormi come la fame, la povertà, rimarrebbe sempre qualcosa. Rimarrebbe un bisogno enorme di consolazione, di conforto dalle paure.

 
Ma io non mi lascio vincere dalle paure, nella misura in cui decido di lavorarle, mi metto in cammino, e per il fatto stesso di camminare, mi dispongo nella condizione migliore per accogliere quelle consolazione che può, forse può arrivare. Può arrivare, se rilasso le barriere, se mi lascio contaminare dall’esterno, se abbraccio questo dialogo disarmato con le mie parti scomode o con l’interlocutore esterno che – per tante ragioni mie e sue – mi può apparire “scomodo”.

Perché in fondo è abbastanza la stessa cosa. No, anzi, è proprio la stessa.

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