Blog di Marco Castellani

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Questo giorno, molto verde

Nemmeno più mi ricordo quando è successo, però è successo. Tutto è partito da lì, da quel giorno, in effetti. Da un pensiero, appena. Poi, sono le cose piccole, nascoste, che hanno più peso sulla vita. Ed in effetti, l’innesco, la cosa in sé, sarebbe proprio piccola, proprio trascurabile.

Un pensiero appena. Ho pensato che sarebbe stato bello scrivere dei racconti, delle poesie, intorno al tema unico di un parco. Sì, un tranquillo parco cittadino, un’oasi quieta e sempre, un intermezzo verde in mezzo ai palazzi, uno spazio di accoglienza nel bel centro delle attività delle persone, dell’essere perpetuamente mobile delle cose. Per la cronaca: abitare in prossimità di un parco, non è estraneo affatto a tutto questo.

Insomma, uno spazio verde come area di scambio, zona salutare di sosta per i pensieri e gli avvenimenti. Anche, terreno neutro, spazio riconciliante. L’ho pensato così, in modo leggero e spontaneo. L’ho pensato quando ancora non ero per niente sicuro che questa cosa di scrivere facesse per me, che la potessi veramente prendere sul serio. L’ho pensato quando pensare a questo mi sembrava nient’altro una giocosa pazzia. L’ho pensato come una cosa fresca, infantile, possibile, interessante. L’ho pensato quando solamente sapevo che scrivere mi piace, mi fa star bene. E nient’altro.

Dopo, ho attraversato tanti momenti, di entusiasmo, di fatica, di stallo. Ho smesso e ho provato a fare altro. Ho smesso e ho provato a non far nulla. Infinite volte. Ho scritto un romanzo (con delle parti un po’ deboli e altre, credo, abbastanza interessanti). Ho messo insieme delle raccolte di poesie, l’ultima si chiama Imparare a guarire. Ho pubblicato poi un libro di racconti divulgativi per ragazzi, Anita e le stelle.

Sì tutto bene, tutto bello. Però intanto questo progetto rimaneva lì, quieto. E aspettava. Non se lo sognava, di farsi da parte definitivamente. Ogni tanto mi interrogava pure, tipo Marco che vogliamo fare di questa cosa? Io ovviamente non rispondevo, oppure adducevo scuse. Della serie, sì sì poi ci penso, vedi ora sto finendo questa cosa, sono molto occupato… Allora aspettava, lui. Con pazienza. Ogni tanto si rifaceva vivo. Sono qui, ti ricordi eh? Che vogliamo fare? E io, ovviamente, procrastinavo. Altre scuse, pretesti, tentativi di dilazione, distrazione. Tutti hanno qualcosa che chiama, in questo modo. Tutti cercano di sfuggire, di prendere tempo. E io non faccio certo eccezione.

Anche, un muro denso di obiezioni: la più tenace è sempre la solita, non sono capace, ma poi chi sono io per scrivere? E comunque, come lo pubblico? In effetti (lasciando perdere il resto, per ora) pubblicare una cosa così non è facilissimo, se non sei famoso. Intanto i mesi, anche gli anni, come loro abitudine, passavano. Venne il momento in cui pensai di usare una piattaforma come Wattpad per pubblicarlo, a puntate. Però un po’ di riflessione, e un po’ di osservazione, mi convinse che Wattpad è ottimo per brevi racconti romantici per adolescenti (lo dico con il massimo rispetto), cosa in cui io purtroppo non sono bravo per nulla, ma poco adatto a questo tipo di progetto, dove ci sono capitoli anche parecchio lunghi e certi momenti sono un poco più introspettivi.

E insomma. Le cose andavano avanti, la vita pure, e un angolo del mio spazio mentale era comunque occupato da questa cosa. Questo progetto, che ne facciamo? Ogni tanto lo riprendevo, alternavo fasi di esaltazione per certe parti, di sconforto per altre.

E niente. Alla fine le parti che mi piacevano hanno prevalso. Certe parti mi corrispondono talmente, che non potevo lasciarlo invecchiare, così incompleto. Mi sono messo a lavorare, riprendendo la lotta anche sui due racconti più lunghi: che mi hanno fatto tribolare e tremolare abbastanza, fino a che non ho sentito un sapore che iniziava a piacermi, anche lì. In generale, l’ampio intervallo del tempo di composizione mi ha aiutato, mi ha condotto a sperimentare stili diversi, a osare in certi punti, a tentare modalità espressive particolari.

Intanto mi veniva l’idea per l’ultimo capitolo, quell’idea così semplice ma così… boh, questa non ve la dico, ma mi piace tanto. Ritengo sia abbastanza originale: perlomeno, io non ricordo di averla incontrata in nessun libro. Però se leggete, non saltate avanti: non si fa, non vale.

Insomma è qui, lo potete trovare su Amazon, per ora in formato ebook, magari tra un po’ anche a stampa. Ma ci pensate. Quante cose possono accadere intorno ad un parco? Quante situazioni sussistono in modo sincrono, simultaneo, avvengono lungo questo incredibile tracciato polifonico multipista che è la vita? Quanti linee d’azione parallele insistono in uno stesso luogo, gravitano in una stessa area? Non lo comprendiamo, non lo percepiamo con la mente lineare, razionale. Questo è logico. Noi ci occupiamo di una cosa alla volta, laddove in uno stesso istante si svolgono infinite storie, si snodano innumerevoli eventi. Dovremmo aprirci un minimo alla irriducibile intelaiatura polifonica del reale, certo: ma è proprio difficile.

Sì, il reale è polifonico, mentre i pensieri sono monofonici, e spesso, purtroppo, anche cacofonici. Quando pensiamo il reale lo riduciamo ad una tessitura monofonica, di cose che si succedono una per una. Ma è una riduzione incredibile, una compressione quasi intollerabile. Il pensiero a volte si rinchiude in sé stesso, fa guerra a tutto ciò che potrebbe modificare il suo procedere a spirale sempre sugli stessi percorsi, il suo ostinarsi al giro del criceto nella ruota. Fa guerra all’ipotesi del nuovo, alla possibilità anche episodica e laterale di una inaspettata felicità. Ecco, le persone in questi racconti, a tratti se ne accorgono, questo loro lo avvertono. Magari non riescono ad uscire a questa consapevolezza, in modo lucido e determinato. Ma si accorgono.

Ecco, allora la faccenda è riprendersi il pensiero luminoso, aperto e felicemente incompleto, limpidamente provvisorio. In questo libro provo a sporcare le parole che uso, a sporcarle di questa polifonia di vita, di questa felice imperfetta incompletezza delle situazioni. La parola che non si sporca di niente, non tira su umori odori e sapori, come una buona pasta tira su il sugo, non vale nulla. E basta, insomma. Non ce ne facciamo nulla di cose troppo terse, troppo pulite.

Credo di aver chiaro cosa volevo raccontarvi, dopotutto. Desideravo che anche le storie più affastellate, complicate, si affacciassero ad un margine di speranza, all’apertura infinitamente interessante della possibilità, del fatto che niente è detto, che l’universo è in movimento accelerato, che nessuna situazione è statica. Volevo dirlo innanzitutto a me, e dirmelo nella unica maniera in cui so parlare a me stesso, nella maniera che mi riesce meglio, scrivendo.

A volte poi, mentre me lo dico, un altra, un altro, intercetta il mio discorso, lo trova interessante. E questo è veramente bello. Qualcosa che ha a che fare con ciò che pomposamente si chiama arte ed è accessibile, nella sua magnanimità, non solo ai conclamati grandi artisti ma a tutti noi nella misura in cui ci rendiamo disponibili a lasciare che un po’ di noi stessi venga usato da altri, senza che noi si detenga il controllo, si reclami il copyright emozionale.

Diciamocelo tutto, la sfida è questa. Tu, scrittore, vorresti avere questo controllo, dici tante belle parole ma vorresti controllare come la gente usa quello che scrivi, vorresti dire la tua, spiegare, evidenziare, manifestare, fare il critico di te stesso. Chiaro, il tuo ego spinge in questa direzione. Ma è un lasciar andare che ci vuole, un lasciare andare che è necessario. In questo caso, un ammettere che il ruolo del lettore è altrettanto creativo e inventa cose e le fa vivere tra le tue parole, che tu nemmeno hai idea. Nel caso migliore, il lettore fa l’amore con le tue parole, in un modo che tu non te lo immagini nemmeno. Le parole sono tue, ma le connessione che attivano, sono personalissime, sono di chi ti legge.

E che sia così, l’ho capito anche nell’ultimo giro di revisione, che è stato supportato da amiche ed amici. Che mi hanno arricchito e istruito, così che gli ultimi aggiustamenti, si può dire, sono stati fatti, insieme. E insieme si va più lontano, anche nella scrittura.

Questo è un fatto, incontestabilmente. E come si dice in un racconto di questo libro, un solo fatto, sorpassa mille pensieri.

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L’avventura della poesia

E’ come avventurarsi in un territorio nuovo. Sempre nuovo, ma segretamente amico. Come scoprire percorsi sottilmente fraterni. Percorrerli è avvertire delle misteriose corrispondenze, attivare delle risonanze che altrimenti resterebbero inespresse.
Tale è l’avventura poetica, nella sua essenza. Credo che la poesia rivesta un ruolo di perpetuo mistero, di splendida ostinata irriducibilità al senso del comune vivere. Chissà. Forse perché viene proprio per illuminare, per rischiarare il comune vivere, e dunque vuole, vuole farlo, deve farlo — necessariamente deve — da una prospettiva diversa.
Riguardo proprio adesso le mie povere poesie, quelle che piano piano sono venute, stanno venendo alla luce dopo la raccolta In pieno volo. E mi accorgo che è in opera lo stesso meccanismo, la stessa officina è attiva, è (ri)aperta. Soprattutto, capisco da dentro che la poesia si nutre di un enorme rispetto verso il potere della parola, vorrei dire, di ogni singola parola.
Lo capisco proprio dalla strategia compositiva. Che non la decido io, non la pianifico io, ma mi viene dettata da qualcosa, dall’esterno. Io di mio ci metto poco o niente. O meglio, ci metto tutto nella decisione di cedere a questo invito, a starci a questa avventura creativa, o a bloccare, a scappare, a defilarsi, a cercare di definirsi altrove, altrimenti.
Ma il guaio è questo, che ogni altra strategia di definizione è appena una pretesa e non è più una resa, è una pretesa celebralistica di costruzione di un diverso piano di riflessione di sé. Come tale, è uno sforzo, non è un riposo. Il riposo è solo nell’adesione ad un compito, nell’acconsentire a sviluppare il seme secondo le sue direttive (che non decidi tu, non decido io), a lasciar esprimere, a farsi da parte.
Scrivere, quando c’è la spinta per scrivere, non è indulgere nel proprio ego. E’ tutto il contrario, semmai: è accettare di farsi piccolo, di farsi attraversare, di farsi strumento. È mettersi a servizio. Bloccare questo, bloccare tutto questo, voler intervenire ad interrompere questo mirabile, misterioso, cosmico dipanarsi, è la pretesa egoica, è lo sforzo volontaristico, l’ideale parossistico di definirsi da sé.
Non c’è bisogno di essere Ungaretti, per scrivere poesie. Non c’è bisogno di essere pubblicati da un grande editore, né da uno meno grande. E’ tutta una cosa interna, una cosa molto più interna. Riguarda la connessione che hai con tutto il resto, riguarda anche un po’ (assai più di un po’) il senso del (tuo) vivere, il senso di essere su questa terra, adesso. Se ti accorgi che non puoi farne a meno, se le provi tutte ma l’impulso di scrivere non ti molla, comunque non ti molla (piuttosto, lui aspetta che tu la smetta di cercare i modi per defilarti, poi ti torna a chiamare)… Ancora, se nello scrivere capisci meglio il mondo, o entri in un mondo che capisci meglio, dove ti trovi meglio, forse è proprio il segno che tu devi scrivere.
E allora il problema non è più quanto sei bravo o sei efficace, il problema non è più quanto riesci a “sfondare” con le tue poesie. Se te le pubblica Mondadori o se girano solo a fascicoli tra i tuoi parenti ed amici. No, queste sono ennesime proiezioni esterne, non riguardano il centro, il tuo centro. Qui sei ancora tu che sei insicuro e vuoi comandare il gioco, vuoi vedere tutto il pacchetto senza iniziare veramente a viverlo, vuoi ragionare e controllare. Non è questo, non è questo il centro.
Il tuo centro è essere onesto riguardo una certa chiamata. I cui esiti mondani non sono assolutamente cosa di cui tu ti debba occupare, anche se innegabilmente le gratificazioni possono aiutare, e anche tanto (nessuno può negarlo).
Le gratificazioni servono, anche perché rassicurano di un cammino preso. Ma non sono prevedibili, calcolabili, programmabili. Io, per dire, l’ultima cosa che pensavo, mentre andavo sistemando le poesie di In pieno volo, chiedendomi se mostrarle ad altri o tenerle per me, è che una professoressa di scuola media se ne sarebbe innamorata tanto da farle leggere in classe, e proporle addirittura nel programma di esame dei suoi ragazzi. Eppure, è successo. Non sono state pubblicate da un grande editore, ma intanto questo è successo. Ed è una bella gratificazione. Dunque anche le gratificazioni non le puoi mettere in conto prima, in alcun modo. E questo è un bene, perché ti svincola da ogni gretto calcolo “costi/benefici” e da ogni ragionamento piccolo borghese tra tempo impiegato e “riuscita” dell’opera.
Ma io oserei dire che la gratificazione più grande la ricavi proprio ed intimamente ed esclusivamente nell’assecondare il flusso, nel lasciar esprimere il senso dell’universo che fluisce nelle cose, nelle persone, in te che scrivi. Finalmente, scrivi.
Scrivere poesie è inerentemente un cammino iniziatico, è qualcosa che non puoi esaminare compiutamente da fuori senza sporcarti le mani, sporcarti le mani con le parole.
E’ qualcosa che non puoi comprendere senza entrarvi dentro, entrarvi dentro con la mente e con il cuore e con il corpo, senza bagnarti di parole con tutto il corpo. Prenderle, lisciarle, gustarle, cambiarle…
Non si tratta tanto di capire qualcosa, ma di vivere qualcosa. Di assecondare una esigenza misteriosa che è profondamente radicata, diciamo pure una chiamata, e mettendo da parte ogni pretesa egoica di verifica e controllo, dire io ci sono, ed entrare nel sentiero di queste parole, di questi versi, non sapendo assolutamente dove potrà condurti.
Ma sapendo solo che il tuo compito è percorrerlo.

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Perché devo scrivere

Non so come mai, ma tendo a girarci intorno. A procrastinare, a evitare l’argomento, anche con me stesso. A trovare mille altre cose che devono essere fatte, comunque fatte, prima di mettersi a scrivere.
A cose che sono più importanti, più urgenti. Più.
Poi magari chi ti pubblica? Il mercato è una cosa complicata, una giungla…
Eppure ormai lo so. Scrivere non è una cosa che si fa per avere un prodotto. O meglio, si fa anche per questo. Ma non è questo, in fondo. Chi sente questo bisogno lo sa.
Questo bisogno che è una elezione ed insieme una specie di condanna, in un certo senso.
Eh sì, perché non sei mai completo, non sei mai a posto, se non scrivi. Se il tuo strato più interno non è rassicurato sapendo che tu stai scrivendo.
Non puoi barare molto, verso lo strato più interno. Verso i ragazzi giù nel basamento, come direbbe Stephen King. Loro, loro lo sanno. Lo sanno se stai adducendo scuse, e non ti mollano. Non ti lasciano in pace.
Puoi provare, certo. Distrarli, per un po’. Alcool, sesso, o qualcosa di più pericoloso. Per ingannare i ragazzi giù nel basamento, insomma. Ma dura poco. Quelli ripartono più furibondi di prima, se non li ascolti. Con conseguenze destabilizzanti sulla tua vita psichica, manco a dirlo (più tu non li ascolti più devono battere forte, è il loro compito: il loro compito è che tu segua il tuo compito).
Del resto, lo sai. Fai finta di non saperlo, ma lo sai.
Bene. Allora dillo.

Scrivere è la tua medicina.

Ecco perché sono pensieri insensati, consigli inopinati, quelli secondo i quali tu prova, se poi tra qualche anno non vieni pubblicato, smetti e fai altro.
Peggio, quelli ci sono già troppi che scrivono, nessuno che legge.
Insensati. Folli. E pericolosi, per di più.
Come dire, prendi questa medicina, è necessaria alla tua sopravvivenza. Poi tra due anni, anche se vedi che ti fa bene, ti fa vivere: beh, di colpo smetti.
Quale medico oserebbe dire una cosa del genere?
Eppure si collega ancora troppo lo scrivere alla sua riuscita mondana. Che è importante, è rassicurante, è bellissima. Peccato che non sia la variabile fondamentale. Quello che decide della tua vita.
Van Gogh non vendeva un quadro, per anni ed anni. Niente, non glieli compravano. Eppure dipingeva come un pazzo, insisteva, insisteva. Aveva qualcosa da dare al mondo, qualcosa che comunque non poteva tenere dentro.

Vincent Van Gogh, Paesaggio da Saint-Rémy, 1889
Non hai deciso tu questo impulso di scrivere. Lo sai bene. Se avessi potuto, ne avresti fatto a meno, preso come sei dallo struggimento per una vita “normale”. 
 Eppure. 
 Eppure c’è. Se c’è è per un motivo. 
Se non lo onori, se ti fai vincere da manie di perfezionismo e dal non sono bravo abbastanza avveleni te stesso e l’universo. 
L’universo se ne frega se tu sei bravo abbastanza — non è compito tuo deciderlo. 
L’universo (diciamo) reagisce se ti muovi lungo il tuo campo di forza o no. Se è deciso che tu devi scrivere, che sei qui apposta, ogni tuo commento in proposito, ogni tua esitazione, è frutto di amor proprio. 
Sei qui per una cosa. Falla.

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Il piacere di scrivere

C’è tutta una letteratura riguardo il modo di farsi pubblicare, le strategie da adottare, quello che bisogna sapere e quello che bisogna fare. Spesso con ottimi prodotti, anche con molti spunti di buon senso, e suggerimenti validi. Ritengo però che vi sia un rischio, in tutto questo, che è quello di sentirsi realizzato solo a valle di una consacrazione da parte di un editore vero e proprio.
Questo, anche se comprensibile, fa a botte con una serie di ragionevoli evidenze. Che ripercorro qui, intanto per mio uso personale.
Innanzitutto. Gli editori sono imprese fatte per trarre profitto, non sono enti benefici che si occupano di mettere in luce chi lo meriterebbe ma per qualche crudele caso del destino, ancora è in ombra. Se non mi pubblicano non vuol dire (necessariamente) che io non sono bravo, vuol dire che loro non pensano di poter trarre abbastanza soldi dal mio lavoro creativo.
Il che ci sta. E’ loro diritto. Io, scrittore, non ho il diritto di lamentarmi. Di gridare al genio incompreso, o peggio, di ammantarmi di questa aurea, indubbiamente romantica, ma anche un po’ patetica.
Perché cela una sottile pretesa, tutto questo. Che gli altri si “debbano” occupare di me. L’unico che si deve veramente occupare di me sono io stesso.
Sì. Devo avere cura della mia vita, delle mie relazioni con gli altri e con me stesso, del senso che sto dando alla mia esistenza, o che gli voglio dare. E’ chiaro. Gli altri non mi devono niente: hanno la loro vita di cui occuparsi, di cui rispondere. Se poi si intreccia con la mia, con mutuo vantaggio: ben venga. Ma è utile dissipare le sottili pretese che a volte si possono insinuare nel rapporto con gli altri, e quindi anche con gli editori.
Dunque nessuno “mi deve” qualcosa, per il semplice fatto che ho scritto.
Per dirla chiaramente: se adesso non mi pubblicano, non vuol dire necessariamente che il mio lavoro non è valido. E ancora. Se anche scrittori ora famosissimi, hanno passato anni ed anni collezionando rifiuti, come posso pretendere io a priori qualcosa di diverso?
Devo dirlo. E’ stato una recente chiacchierata con mia moglie che mi ha aperto gli occhi (le mogli servono anche a questo, ad aprirti gli occhi). Sì, mi stavo lamentando del fatto che un mio progettato volume di racconti, che sembrava — in un primo contatto— potesse essere apprezzato da un buon editore, non aveva avuto ancora riscontri concreti. E sì, avevo già innestato la litanìa dello scrittore incompreso, lo ammetto.
Piccolo e nero, per giunta.

E’ stata lei che con femminile felice intuito, mi ha ricondotto al nucleo della faccenda. E mi ha fatto delicatamente vedere che la mia posizione in questo caso era una posizione malata. Certo: dietro una serie di considerazioni apparentemente sensate, stavo semplicemente e sottilmente pretendendo che gli altri si occupassero di me, nel modo e nelle forme che decidevo io. In altre parole, avevo stabilito un trattamento al quale i miei racconti avrebbero avuto diritto, in forza del loro valore (giudicato da me e poche altre persone, anche se qualificate) e dunque mi stavo lamentando perché non ero trattato nel modo che mi era dovuto.
Ma accidenti, a me non è dovuto proprio niente.
Che liberazione riconoscerlo! Che libertà!
Può essere che siano racconti bellissimi e che per una sfortunata combinazione di eventi non saranno mai pubblicati da una vera casa editrice. Può essere invece che domani mattina mi telefoni il primo editore italiano, che non vede l’ora di pubblicarmi, offrendomi subito una cifra a sette zeri (ma con un numero davanti) per accaparrarsi l’esclusiva del primo libro. Nessuno dei due casi può essere escluso con sicurezza matematica (per quanto il secondo mi appaia un pelo più improbabile).
In ogni caso non cambia la faccenda, nel suo nucleo.
E il suo nucleo è: mi sto appena lamentando (indulgendo dunque in uno sport molto molto praticato), o invece sto facendo il possibile per emergere come scrittore? Che faccio, mi fermo davanti ad una (dieci, mille) difficoltà, o ne prendo spunto per radicarmi in me stesso, riprendere fiducia nei miei obiettivi, purificare la mia vocazione (se la ritengo tale) da fattori esterni? A me la scelta, che è una scelta di ogni momento.
Io non posso controllare gli altri. Nè devo.
Posso solo chiedermi: sto facendo veramente tutto il possibile per seguire il mio sogno? Per onorare la mia vocazione?
Non mi deve interessare altro. Punto.

Anzi no; punto e virgola.

Perché c’è un’altra cosa, un’altra tentazione sotto. Che io aspetti un riconoscimento ufficiale, come un permesso per seguire il mio sogno. Come dire “ecco, vedi, mi pubblicano, quindi finalmente posso scrivere davvero”.

Come se temporeggiassi, ultimamente, nell’attesa di ricevere un permesso da qualcuno.

Eh no. Qui l’unico che mi deve dare il permesso, ancora una volta, sono io stesso.

Scrivere, in sintesi, non è farsi pubblicare (non lo è mai stato, e soprattutto ora, nell’epoca del web che sta cambiando un po’ anche il concetto di editoria tradizionale). Scrivere è una scelta — per chi si sente chiamato — è una decisione personale non legata a nessuna contingenza esterna, è abbracciare un nuovo modo di vedere il mondo e sé stessi, è un intimo assenso ad una istanza irreprimibile radicata nella profondità di sé stessi, è un dire sì alla vita, è cedere.

Ma questo, chiaramente, è un altro discorso.

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Il libro che non c’è (ancora)

Devo dire che è davvero una bella opportunità, un magnifico regalo, quello di essere stato selezionato per il laboratorio di scrittura creativa Rai ERI Il libro che non c’è. La materna dedizione e l’intelligente passione di Paola Gaglianone (editor di professione) e l’ironia frizzane e l’attenzione amichevole di Alessandro Salas (giovane autore), si intrecciano insieme in un connubio felice e sovente “virtuoso”, per contemplare alla fine quello che comunque rimane un mistero, ovvero l’arte di scrivere.

Perché scrivere certo rimane un mistero. Esiste cioè un quid che non si presta ad essere investigato in modo analitico, che sfugge e chiama sempre ad un di più rispetto ad una qualsiasi possibile piana delucidazione. Che sfugge ad ogni compiuto srotolamento in parole. Dunque in un certo senso, qualcosa che non è accessibile a nessun corso, a nessun laboratorio.
E tuttavia – come mi sto sempre più rendendo conto, l’utilità di un laboratorio di questo tipo è fuori discussione. Ragionare insomma sul libro che non c’è, affondare le mani nell’oceano delle possibilità, pensare a ciò che ancora deve prendere forma, a come deve farlo, al modo più efficace per farlo sviluppare. Tutto questo è utilissimo. Paradossalmente, tanto più utile quanto ancora  e sempre, il nucleo pulsante rimane protetto nel suo guscio di mistero. 

Sì, perché se è vero che al fondo dell’arte di scrivere bene, come ogni arte, c’è un mistero che non accetta volentieri di essere guardato, indagato a parole, intorno a questo nucleo pulsante c’è pure un esteso territorio in cui si può e si deve ragionare. Che può essere lavorato. Per rispetto di chi scrive, e di chi legge, parimenti.

Assai significativamente, stiamo scoprendo, nel laboratorio (ormai arrivato alla quarta lezione, in un ciclo già ricco che ha incluso anche un interessante incontro con Dacia Maraini), come il gesto dello scrivere sia un gesto di ricerca di senso e dunque un gesto completamente e propriamente umano. Solo da questo è possibile poi lanciarsi nell’analisi più tecnica delle modalità del narrare, dello scegliere il punto di vista, della prima o terza persona, e così via, secondo tutte le declinazioni del caso.

Solo dopo, dunque. Niente tentazioni sterilmente strutturalistiche, in questo laboratorio (grazie ai cielo). Impariamo invece, contro ogni freddo riduzionismo, come alla fonte dell’impulso creativo vi sia sempre e comunque la ricerca di senso, che è poi il mestiere fondamentale dell’uomo. Ciò per cui è nato. Ed ogni declinazione tecnica può e deve essere compiutamente sviscerata, perché anche scrivere ha le sue regole, le sue tecniche (da conoscere e da superare, se è il caso).

Ma il senso viene prima, come atto visceralmente umano. L’unico interessante, l’unico probabilmente che valga la pena raccontare: in un libro che ancora non c’è. Ma che potrà esserci.

Mi viene da dire, imparare questo, ancora e di nuovo, non ha prezzo.
Grazie Paola, Alessandro. Grazie di questa opportunità.

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Fede

La fede cristiana ci riporta cioè ad una esperienza del tutto ordinaria, quella in base alla quale noi nasciamo e cresciamo attraverso la parola umana, e specialmente quella parola benevola e amorevole che dice Bambino mio, quanto ti voglio bene e se non ce lo dice con pieno affetto noi soffriamo da morire: Questo è il rapporto di Dio con l’uomo: DIo parla con l’uomo bene-dicendolo, e parlando con lui con amore incondizionato gli forma una identità spirituale libera, lo risana da tutte le male-dizioni familiari e storico-culturali che lo hanno ferito… 

(Marco Guzzi)

Così la fede calma e soddisfa il bisogno di amore e protezione che ti porti dentro, viene a levigare quella ferita che segna i rapporti con le persone, con le cose. Quella ferita originata tanto tempo fa, che ti porti ancora appresso, che segna i rapporti con il mondo e con le cose. Non è niente di automatico: è’ una sfida, per cui ogni volta bisogna ripartire. Ogni volta e sempre si può ripartire. Ogni mattina si può dire di no (anche se magari gestiamo diecimila attività parrocchiali o di gruppi cattolici, movimenti) oppure dire di sì. In fondo, mi dico, quello che conta – quello che ora serve – non è tanto l’enunciazione teoretica di alcune verità, ma il lavoro che facciamo su queste.

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Per guardare il mondo con amore, serve questo, appena questo, sentirsi amati…

Così vedo le cose, e  possiamo ben dire che non è la prima volta che su questo blog si ragione intorno a questi argomenti. Eppure ogni volta che ci ritorno, mi sembra di illuminare la cosa da un angolo leggermente diverso (come il satellite GAIA, che vedrà una stessa stella anche settanta volte, ogni volta portando nuovi dati, così possiamo fare qui, per quello che ci preme di più… )

Queste cose le scrivo qui per me, in fondo, e fanno parte di qualcosa non sistematizzato, ma in perenne ebollizione interiore. Le scrivo per me per coltivare e far crescere un luogo dove io possa riflettere su me stesso e sentirmi a mio agio. Un luogo che penso in questo modo, morbido e conciliante. Un luogo dove le parole non servono a ferire, a distinguere, a separare: ma servano innanzitutto per guarire. Sempre da Marco Guzzi, prendo in prestito un’altra frase: 

.. La scrittura, infatti, possiede di per sé un’incredibile potenza di autoconoscimento e di guarigione.

Ci vedo dei colori pastello, leggeri. Ci vedo l’idea di un tranquillo pomeriggio di sole, vissuto al riparo di un fresco pergolato, magari. Una casa riparata e tranquilla, ma non isolata. Qualcosa costruito con le parole, parole di guarigione…

Fateci caso. Le parole che guariscono sono sempre quelle che intendono correttamente le cose. Tante cose sono state dette sulla fede, tanto alto è il rischio di fraintendere, di restare imprigionati in definizioni sbagliate, limitanti, castranti. Quella di Marco Guzzi che ho messo in apertura, fa risuonare qualcosa di bello in me, tiene vivo e zampillante un desiderio buono di pace e di assestamento psicologico costruttivo, di superamento di tutto ciò (laico o clericale che sia stato) che mi ha fatto male, mi ha ferito… un desiderio dolce di guarigione, appunto. 

Perché il punto è questo. Mi accorgo che la fede viene vista da molti come qualcosa… che non è. Come se un cristiano (o un buddista, un induista, se volete) dovesse avere un ricettario, una lista di cose che non può fare, di curiose limitazioni – come se fosse uno che vuole complicarsi la vita. Invece vuole semplificarla, vuota gustarsela. Senza starsi a tormentare troppo per il fatto che siamo limitati, che possiamo sbagliare. Peccato, davvero peccato,che ti fanno credere che per gustarla devi starci lontano, dalla fede… 

Insomma, cosa è per me, la fede? La fede è – anche – la possibilità di scorgere un significato in ogni cosa e in ogni circostanza. E’ non giudicarsi (io non giudico nessuno, neanche me stesso, diceva Don Giussani), è essere lieti di essere amati, come si è (anche se io sono un mucchi di letame, Cristo è più grande del mio mucchio dl letame, sempre Giussani).

Su tutto, sapere… sentire… che io sono amato, adesso.

Sapere che mi posso rilassare, perché sono molto, molto amato. 

Ecco il punto. Ecco il punto vertiginoso fondamentale dell’universo. Essere amati.

E’ tornare a giocare col mondo, come si faceva da bambini. Perché si giocava fino a che si pensava, si intuiva, che tutto avesse un significato. Che ci fosse una presenza buona a proteggerci, a tirarci fuori dai guai, qualsiasi cosa avessimo combinato. Quando abbiamo bevuto il veleno che – a volte con le migliori intenzioni – ci hanno somministrato (niente ha valore, tutto è opinione, niente esiste in fondo, tutto è appena una accorta flessione del discorso), ecco che abbiamo anche immediatamente smesso di giocare. Magari abbiamo detto sì sì, così stanno le cose, siamo adulti, siamo cresciuti e – fateci caso – abbiamo smesso subito di giocare, di divertirci.

Senza la fede la vita ti diventa una cosa dannatamente seria. 

Ora a me pare una cosa, cioè che a volte siamo così impastati di questo veleno, credenti e non credenti, che si dura una fatica da matti. Ogni giorno dire e ripartire, rifiutando il nichilismo e la sottile (più o meno quieta) disperazione. Ogni giorno scegliere di appartenere…

Al fai ciò che vuoi perché niente ha valore in sé preferisco il Ama e fai ciò che vuoi di Agostino.

C’è un abisso, in mezzo. Grande come la possibilità di avere un cuore – di nuovo – lieto.

Poi non facciamo noi le cose, anzi se ci mettiamo di mezzo noi, di solito facciamo guai. Perché abbiamo questa tentazione di decidere noi, di voler sistemare noi, di non lasciarci andare, di non affidarci. Di pensare che ci sia sempre un’alternativa più furba. Penso che sia una tentazione nota ai praticanti di ogni religione, di qualsiasi forma di spiritualità. 

Tanto che sempre Giussani, individua proprio qui la drammaticità della vita: “La drammaticità della vita consiste nella lotta tra la pretesa affermazione di sé come criterio della dinamica del vivere e il riconoscimento di questa Presenza misteriosa e penetrante” (citato in Vita di Don Giussani di Alberto Savorana, al Capitolo XVI).

Questa drammaticità, d’altra parte, fa sì che venga perennemente chiamata in causa la nostra libertà. E che nessuna adesione sia mai un atto meccanico ed automatico, come una sorta di tessera acquisita una volta per tutte – ma qualcosa che va scavato ed indagato sempre. 

La cui convenienza, appunto, è da ricercare ogni giorno. Così che uno si butta, idealmente, nella vita e fa la verifica. La verifica della convenienza della fede. 

E’ questo il cammino, mi pare di poter dire. E’ questo che può rendere la strada, una strada  bella.

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Un giorno molto verde

A volte sono le cose più minute che ti fermano. Anche un titolo. Sopratutto un titolo. Di solito dall’impasse non si esce pensando. Non si sbuca fuori a botte di riflessioni.

Come in tutto, del resto.

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Più uno pensa ad un dato problema più ci si incarta dentro, usualmente: vi si incellofana ben bene. Le situazioni si stratificano, si crostificano, si congelano. Più uno pensa più perpetua la condizione presente, impedendo ad altre forze di entrare in campo. Forze che possono agire più efficacemente profittando del nostro abbandono. Abbandono: non certo nel nostro affannoso disaminare tutti i lati di una situazione, i pro e contro di una decisione.

Lasciare andare, lasciare scorrere. Permettere che qualcos’altro entri in campo. Togliersi dal posto di guida, mettersi a guardare la propria vita dal lato passeggero. Smettere di cercare di guidare, per un po’. Non ti impicciare più della tua vita che non sono affari tuoi  cantava De Gregori molti anni fa, con felice intuizione

Sento che questo è vero anche ed in particolare per loro, per le cose dell’anima.

Tutte le volte che facciamo progetti per allontanarci dai disagi, puntualmente li rinforziamo. Pensare a una vita futura migliore di quella che stiamo vivendo, ci rende più incerti, fragili, impotenti. Si possono passare anni a compiangersi, a dirsi che il benessere verrà solo quando le cose cambieranno, quando le persone intorno a noi ci tratteranno meglio. Niente di più falso! Non è l’esterno a farci star male, ma il fatto che non ci affidiamo al nostro interno, che sa benissimo cosa fare per noi stessi e dove condurci.– Raffaele Morelli 

Così le cose si sistemano e si allineano quando uno finalmente, stremato, lascia.  Quando molla. Quando fa un passo indietro, e lascia agire, non pensa più di fare, stabilire, sistemare. Allora, solo allora l’imprevisto può entrare in campo.

E la vita ne sa più di noi, questo ce lo dimentichiamo sempre. La sorpresa viene oltre noi, in qualcosa che non abbiamo pensato. Nella forma che non abbiamo pensato.

Anche nelle piccole cose, lo vedo.Piccole: come in un titolo. Come nel titolo della raccolta di poesie e racconti che inizio ora a pubblicare su Wattpad. Stavolta voglio fare così: prima di tutto pubblicare piano piano le storie e le poesie online (alternate in capitoli pari e dispari),  poi eventualmente ragionare sulla pubblicazione in volume.  

Questo perché Wattpad mi intriga sufficientemente da suggerirmi questo approccio. E perché mi piace sperimentare, lo ammetto.

Ma il titolo. Appunto. Qualcosa a a che vedere con un parco, che è il vero centro gravitazionale di queste storie, e di queste poesie. Ma non mi soddisfaceva niente, niente di quello che pensavo. Forse appunto perché pensavo. Perché razionalizzavo. Perché – ultimamente – mi sforzavo. 

Fino a che, l’altro giorno, accade. Sono nel letto. Mi giro, guardo il comodino. Vi sono appoggiati molti libri, che usualmente sopravvivono in uno splendido spreco di entropia: in breve, si va da Jung a Leopardi passando per le lezioni di fisica di Feymann. Lo stato dei libri varia a seconda dei carotaggi effettuati dagli umani (principalmente, da me). Come in un magna, vengono a volte in superficie strati rimasti per diverse ere geologiche  a grandi profondità, e parimenti affondano elementi abituati da tempo alla superficie.

Ecco, poche ore prima c’era stato un tentativo (intrinsecamente semi-disperato, vista l’entità dello sforzo richiesto) di rimettere un po’ di ordine, che aveva provocavo qualche assestamento. Appunto.

Dicevamo. Mi giro, guardo il comodino. Ora c’è il libretto di poesie di una amica, Carla Cenci. Che ha guadagnato la superficie da poco, appunto. E che adesso mi guarda (intendo, il libro). Mi aspetta. Mi vuole dire qualcosa (ma io ancora non lo so). Lo guardo pigramente. Senza volere, mi faccio invadere passivamente dal titolo, Lo scombinio di un giorno molto verde.

… di un giorno molto verde…. 

Ecco. Un giorno molto verde. 

Ma sì. Un giorno molto verde! 

D’improvviso ogni cosa trova posto. E come è già accaduto per In pieno volo, il titolo stesso si sistema sul materiale scritto, lo vivifica, lo rende più appetibile, mi fa venire voglia di tornarci a lavorare. DI sistemarlo davvero.

Tutti segni che è quello giusto.

Carla non se ne avrà a male se le rubo tre quarti del suo titolo. Il fatto è che si adatta perfettamente. Sai quando provi mille vestiti e non te ne va bene uno? Troppo lungo, troppo stretto, basta, sono stufa, andiamo via… Poi qualcuno dice no aspetta prova questo  E tu provi sfiduciata e stanca, proprio per dare fiducia alla tua amica e … BAM! 

E’ perfetto.

Perfetto.

Come cucito intorno a te, su misura, proprio.

Allora il titolo è così, a posto. E’ un giorno, un giorno appena. Infatti. Vissuto attraverso tante storie, tanti scampoli di storie, che avvengono nelle case, negli ambienti che circondano il parco. Che si nutrono del suo verde, che vi si appoggiano. Che – inconsapevolmente – lo respirano.

E’ quel verde, scandito alle varie ore del giorno dai versi, che si introducono tra i vari racconti, quel verde. E’ lui il protagonista. Quel verde che dà un respiro in più, assicura un punto di fuga, una possibilità di respiro più ampio, più fondo. Una ultima cordiale amicizia, tra uomini. Che vivono. Che vivono perché – con tutta la loro sfavillante fragilità – la vivono. 

E’ un progetto antico e nuovo.

Antico nella sua iniziale concezione. Nel tempo, arricchito, maturato. E’ passato un romanzo, delle poesie. Intanto ha respirato:  ha respirato la stessa pazienza del parco, affondato nella terra il suo seme perché crescesse. E l’ora della sua maturazione si avvicinava. Ve lo dico: ogni volta che passavo nel parco – quasi ogni volta- mi tornava alla mente. Quando passavo vicino a quell balcone, che per me è quello di Carla (quadro secondo) sempre mi veniva in mente. Mi veniva in mente del progetto da terminare, da finire.

Ora viene piano piano alla luce, finalmente. E perciò stesso è nuovo.

 Appena questo, la cronaca di un giorno molto verde.

Spero vi possa piacere.

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Ci leggi qualcosa?

E’ la sera di martedì 26, sono al Meeting. Dopo l’incontro tanto atteso – Davide Rondoni che legge le poesie di Mario Luzi – ancora piacevolmente contaminato dalla bellezza intravista, ascoltata, respirata, raggiungo gli amici al ristorante. Si sono fermati lì a parlare, c’è anche una coppia di tedeschi. Il marito molto gentile si alza per pagarmi da bere, quando arrivo. Qualcuno lo dice, Ma lo sai che Marco scrive poesie? E poi la domanda si gira direttamente a me, la domanda prevedibile, ragionevole, conseguente, Ci fai leggere qualcosa? 

Al di là del momento di imbarazzo (accipicchia: ho appena regalato l’ultima copia che mi ero portato dietro del mio libretto In pieno volo) questo mi fa pensare. Avere qualcosa di proprio, da mostrare, se serve. Avere qualcosa di proprio – soprattutto – da portare con sé. Se uno scrive le poesie è per questo, perché si installino come un ammortizzatore, tra te e il reale. Per levigare gli spigoli, per digerire le circostanze. Dopotutto non è troppo male portarsele appresso, queste poesie.

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Ti leggo qualcosa di mio… 

Photo Credit: pedrosimoes7 via Compfight cc

Ma nemmeno sul telefonino? Insiste l’amico, giustamente. No, veramente… e intanto penso che qualche modo tortuoso pur ci sarebbe: dopotutto le cose stanno su Dropbox, ma dovrei arrivare alla cartella giusta, vedere se riesco ad aprire il file pdf o World dall’iPhone, cercare poi una certa poesia dentro il documento… non certo una cosa immediata. 

Corro il rischio che quando sono finalmente pronto se ne sono già andati tutti (e io perdo anche il passaggio in macchina verso l’albergo, cosa assolutamente disdicevole).

Vabbé: albergo a parte.

C’è qualcosa di più.

Perché in fondo scrivere, cos’è?  E’ cercare di generare quelle parole (e sequenze di parole)  che cerchi, e che non trovi altrove – o non trovi esattamente come cerchi. E quindi averne compagnia, con tutta le imperfezioni possibili, non è troppo sbagliato.

Le poesie soprattutto: quelle ti fanno davvero compagnia, ti lasciano sempre addosso – a rileggerle – un po’ di quel tentativo di dolce interpretazione del reale, che hai messo in atto quando le hai scritte. Così ne puoi spremere sempre un po’ di succo. E ti riscaldi nei passaggi che trovi riusciti, e non puoi evitare una punta di dolore per le parti che a tuo avviso sono ancora, in qualche modo, incompiute. Ma sempre ti coinvolgono.

Oppure può capitare, appunto, di avere una richiesta da soddisfare. E anche questo è onestà: rispondere di come si è. Sei scrittore se scrivi. E se sei scrittore è normale che ti chiedano. Rispondere alla vocazione, accoglierla: in fondo non ci è chiesto che questo. E non serve alcuna coerenza, alcuno sforzo sovrumano.

Serve solo questo, di volersi bene. Almeno un po’.

Perciò ho iniziato a riversare sul mio account Wattpad le mie poesie pubblicate: parto dal libretto “Anni diVersi”, perché è stato pubblicato ormai alcuni anni fa, e mi fa piacere ripercorrere ora quelle poesie, riguardarle e comprendere cosa è cambiato, cosa invece è rimasto come struttura costante immodificabile,  come architettura portante della mia espressività.

Vabbé ma Wattpad cosa c’entra?

Senza andare sul tecnico (che c’è l’altro blog per questo) direi che questo Wattpad – che io ho scoperto da pochissimo, ma lui esiste da tempo – ha qualcosa, ha una fisionomia che mi piace abbastanza. Si può usare facilmente sia dal computer che da un tablet o perfino da un telefonino; c’è l’applicazione gratuita e funziona piuttosto bene, in verità. Riversando i testi su quella piattaforma, potrò disporne ovunque abbia la connessione.

Mi piace anche che ogni composizione si possa votare e commentare. Un pizzico di interattività non fa male. Mi piace che uno possa “seguire” il mio profilo ed essere avvisato ogni volta che aggiungo del materiale (sì, può accadere che uno sia così disturbato da voler fare ciò). Ho riversato su Wattpad anche le mie piccole storie su Giada, che a dire la verità sono ferme da un po’. Non mi dispiacerebbe proprio avere dei suggerimenti, delle indicazioni sui temi attorno a cui sviluppare le prossime puntate. Perché Wattpad, tra l’altro, si presta benissimo ad una pubblicazione periodica di una serie di episodi.

Beh, una cosa per volta. Anche diventare popolare su Wattpad (sì, sì, mi piacerebbe, non posso negarlo) non è cosa di un minuto. Per intanto, sto mettendo riparo al Ci fai leggere qualcosa… Siccome non giro mai senza qualcosa di elettronico appresso (lo so è quasi una patologia, ma ognuno ha le sue, del resto) siete avvisati che – da ora – se chiedete di sentire qualcosa di mio, potrete ascoltarlo davvero… 

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