Blog di Marco Castellani

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Il sogno di scrivere

Una delle belle cose di quest’estate in corso, già la conosco: la lettura del libro di Roberto Cotroneo, Il sogno di scrivere. E’ un viaggio appassionante che, tra mille suggestioni letterarie (e non solo) e tanto sano buon senso, si avvia verso un territorio meraviglioso – secondo me – dove il lettore è portato per mano, senza strattoni, a riprendere confidenza con il fatto che scrivere è perfettamente lecito (lo so che lo è ma sentirlo è un’altra cosa) e sopratutto è cosa assolutamente svincolata dal successo mondano e da cose contingenti come essere pubblicati o accadimenti simili.

SognoScrivere

Intendiamoci. Contingenti non perché non siano importanti, ma perché mettere la propria confidenza su quelle è ultimamente illusorio e rischia di essere molto frustrante. Scrivere è una cosa interna a te, diciamo. E’ tutto nella libera decisione di seguire questo impulso, questo desiderio, questa vocazione. Il resto è puramente accessorio. 

Non è facilissimo. Ci sono un bel po’ di pesi da lasciare per strada. Intanto, l’opinione degli altri:

Gli altri saranno il vostro tormento. E sono tutti uguali. Sono quelli del “bello questo libro”, e sono quelli del “non mi convince”. Sono quelli della frasetta detta a mezza bocca: “lo sai che ha scritto un romanzo?”. E sono quelli che cercheranno di demolire ogni aspirazione. Se per voi scrivere è importante, allora potrete restare indifferenti agli altri, potrete andare avanti per la vostra strada senza timori reverenziali di alcun tipo.

Se volete, un altro modo per dirlo, è quello del poeta e filosofo Marco Guzzi:

Questo è il vero successo: capire cosa ti piace fare, per che cosa sei venuto sulla terra, e farlo, traendone vera soddisfazione, a prescindere dall’approvazione degli altri. 

Tutto questo è reale, molto reale, e chi ha mai provato a scrivere, l’ha sicuramente sentito sulla sua pelle. Ma non dobbiamo incolpare gli altri, per questo. Se l’opinione degli altri ci pesa tanto è perché demandiamo ancora all’esterno una decisione che deve invece essere intima, direi anche più intima di qualsiasi altra cosa possiate pensare (sesso incluso, ovviamente). Come molti sanno – per averlo provato – accogliere questa decisione ribalta la prospettiva del mondo, ci fa sentire decisamente meglio.

Esperimento: permettetevi di essere scrittori, se lo volete. Mollate tutta la cantilena velenosa che vi ripetete sempre non sono capace, non potrò mai… Mollatela, ora. Non è uno di quei mantra che vi conviene, in fondo lo sapete. Dite invece io sono uno scrittore. Si vede tutto in modo diverso. Soprattutto si sta meglio. Non è vero?

Sono grato a Roberto soprattutto per una cosa. Perché pur avendo licenziato un testo avvolto di una magica pacatezza e di una accattivante simpatia, non esita ad essere duro verso certi rappresentanti della casta, verso chi si arroga il diritto di decidere chi deve scrivere e chi no, verso chi dice, per esempio (e l’ho sentito con le mie orecchie, purtroppo) che c’è troppa gente che scrive. Una delle cose che fanno più male, peggio di un’arma impropria. Peggio. Perché  genera gente frustrata, e la gente che ha affogato e represso i propri sogni è facile preda del potere, e della violenza. Ci pensassero meglio, questi esponenti del sistema letterario: il sogno di scrivere è per chiunque lo senta nel cuore.  Questa è la cristallina verità. Ne ha pieno diritto, non deve chiedere permesso a nessuno.

Ovvio, nessuno può pretendere a priori attenzione, pubblicazioni, contratti. Ma se pretende, in fondo, non ha ancora capito. Non ha capito che tutto questo – anche non avvenisse mai – è veramente niente, è appena la spuma del mare. Dove il mare, profondo, stabile, possente, è la vita cambiata dalla decisione di seguire il proprio cuore. Lo dico ancora, la propria vocazione. Come tale è prima di tutto una cosa tra me e il cuore, tra me e l’Eterno, cioè Colui che mi ha messo nel cuore questo desiderio. Gli editori, capite, stanno ad un livello un po’ inferiore…

Non sto eludendo il problema: la riuscita interessa a tutti. A me interessa tantissimo, anche troppo. Ma ora che sto per licenziare il nuovo libro di poesie, In pieno volo, che mi sto autopubblicando (una dignitosa possibilità ampiamente trattata nel testo di Roberto, molto attento alla rivoluzione nella scrittura portata dal web), capisco che la mia vittoria più grande – esito di un combattimento che è durato molti mesi, nel quale ho rischiato seriamente di perdere – è stata la decisione di continuare. Di fidarmi del mio cuore.

Dovesse essere una recensione vera, dovrei parlare di tante altre cose, su Il sogno di scrivere. Del fatto piacevole che rifugga dalla tentazioni tecnicistiche di molti manuali, rivendicando in ultima analisi l’irriducibilità del fatto creativo a tecniche più o meno furbette per vendere un prodotto. Del fatto che lo scrivente si lasci guardare a fondo, rivelando – quando funzionale all’esposizione – particolari della sua vita privata (i problemi matrimoniali, le sedute dall’analista) – così che capisci che ti puoi fidare, che la prima mossa l’ha fatta lui, ha permesso di farsi guardare dentro. Perché la scrittura è appunto intima, e se ne vuoi parlare davvero ti devi anche far leggere nel cuore. 

Dovendo essere una recensione, appunto. Ma non lo è. Piuttosto è una forma mia per dire grazie. Scrivendo, appunto.

Concludo con le parole di Roberto.

E’ arrivato il momento di mettervi a scrivere, se lo desiderate. Non è mai abbastanza tardi, non è mai troppo difficile. Dipende solo da voi. 

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In pieno volo

Le ho tenute lì per parecchio. Erano cresciute naturalmente, dopo aver chiuso l’altro libretto, “Per prima è l’attesa”, che per averlo messo insieme un po’ in fretta, si è rivelato capace di darmi soddisfazioni che non avrei osato mai sperare. La gioia più grande – una delle più grandi e più dolci in assoluto, per me – è stata quella di imbattermi in persone  (in rete, ma soprattutto in carne ed ossa) che venivano da me per dirmi quanto avevano apprezzato le mie poesie. Non è una questione di orgoglio o di sentirsi chissà che: non sono certo come Ungaretti, che aveva una chiara coscienza del suo valore e se a suo tempo si proclamava il più grande poeta italiano, per quanto potesse apparire autocelebrativo ed anche un pelo irritante, era probabilmente vicino al vero. 

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A che quota volare per superare le nuvole…? 

Ad un certo punto c’è stata anche una fase intermedia che è risultata la più critica. La più insidiosa. Impantanato nelle sabbie mobili del dubbio, rileggevo le poesie ogni tanto e non ero più sicuro, non ero più certo che volessero dire qualcosa, che riuscissero a dire qualcosa, a farsi quel ponte tra le persone che giustifica il fatto che vengano pensate, vengano scritte, che trovino spazio sulla carta o in una memoria di computer.

Insomma, non volavano più, in un certo senso. E io stesso non volavo, o volavo a quota molto bassa. Sul volare a quota molto bassa si è certamente detto e scritto molto, e non vale la pena affrontare qui una esposizione completa ed esaustiva del fenomeno. Per la qual cosa, mi limito a registrare qualche semplice evidenza rimandando, come si dice in questi casi, il lettore a più esaustive trattazioni.

Allora. Una prima cosa, è che a volare basso (dicono) si scappa ai radar. Questa informazione in un buon filmone sulla seconda guerra mondiale, compare sempre. Dunque deve essere vero.  Cioè non ti vede nessuno, non ti identifica nessuno. A prima impressione potrebbe essere una cosa buona. Forse lo è, se sei in missione in un paese nemico con intenti non propriamente amichevoli. Però a ben pensarci, può non esserlo se stai tentando di esprimere la tua voce, la tua personalissima voce, trovarle un posto nel mondo. Devi rischiare di farti trovare, di farti leggere. Di farti anche criticare, persino deridere, in caso. Comunque devi esporti, smettere di nasconderti.

Una seconda cosa è che a volare basso prima o poi si sbatte da qualche parte. Non so, una parete, un’ostacolo qualsiasi. Un gatto addormentato, se voli proprio basso basso (non so perché mi è venuta proprio questa immagine, ma penso che renda l’idea). Insomma non sei libero di muoverti nell’immensità dello spazio, sei guardingo e temi diecimila imprevisti, ogni piccola asperità del terreno è un problema. Non sei sereno, non sei rilassato.

Essermi deciso a far leggere il manoscritto, permettere che vedesse la luce (sia pure per pochissimi occhi, ai quali sono grato) mi ha permesso di uscire dalla situazione di stallo, e riprendere quota. Ho ricominciato a lavorare con più convinzione a queste poesie, e come accade spesso in questi casi, dalla nuova convinzione sono scaturite anche nuove idee, nuovi tentativi, nuovi modi di miscelare queste parole, di renderle più adatte al volo.

Sembrerà curioso, ma l’ultimo ostacolo era il titolo. Quello provvisorio non mi soddisfaceva più (non lo svelo così me lo posso sempre rigiocare un’altra volta…), non era propulsivo quanto basta, non spingeva al salto, al salto da fare nel permettere che queste poesie potessero essere finalmente lette. Soprattutto, non parlava di me come sono adesso, dei miei desideri, dei miei bisogni. Del mio cuore.

PienoVolo

Bruno Liljefors (Swedish, 1860-1939), “Trutar”.

Fino a che mi è arrivato in mente il verso di una canzone. Eccolo, eccolo il titolo della raccolta che arriverà, che sta per arrivare: In pieno volo (con il corrispondente hashtag #pienovolo).

E’ lui. E’ quello che cercavo. E’ lui.

Sono appena tre parole, estrapolate da una canzone di Victor Heredia, Ojos de cielo. Oltre ad essere una canzone bellissima, mi è cara per come è stata lanciata alla mia attenzione durante il mio personale volo nella ricerca di ciò che è essenziale. E se è entrata nella mia vita in un momento in cui il senso, il significato di tutto, subisce delle oscillazioni, in cui si avverto un doloroso sfocamento, in cui ricerco con più desiderio la mia personalissima ed unica ragione per vivere, forse non è per caso.

Ojos de cielo, ojos de cielo ,

no me abandones en pleno vuelo

Il fatto che non è più tempo di indugiare o di fantasticare il futuro. A quest’età uno si sente necessariamente in pieno volo. E dunque quando si sente incerto, insicuro, dubbioso, nasce l’esigenza essenziale di trovare qualcosa, qualcuno, degli occhi che lo sostengano proprio ora, proprio adesso: proprio nel pieno del volo.

E il volo è anche quello di abbandonare ogni esitazione e scrivere, con fiducia.

Finalmente.

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Fare più arte

C’e proprio poco da fare, nei diagrammi a blocchi. Sei abbastanza vincolato, una volta che imbocchi una strada devi percorrerla valutando logicamente le varie domande, regolandoti di conseguenza. Lo vedi bene se sei un po’ in mezzo alla faccenda dei linguaggi di programmazione, ad esempio. Lì spesso la prima cosa da fare, prima di scrivere anche solo una riga di codice (insegnano) è quella di stendere un diagrammi a blocchi.

E questo aiuta. Eh sì, perché la mente tende ad utilizzare un approggio fin troppo analogico, vagando da una all’altra possibilità, inventandosi stadi intermedi, possibilità di decisioni ibride, di non decisioni. La mente è specializzata nel ragionamento dove si spalmano insieme tutte le varie ipotesi; spazia in uno stadio di soluzioni intermedie dove a volte la catena virtuosa che dall’evidenza di uno stato di fatto porta ad una azione, viene drammaticamente depotenziata.

Così anche nell’ambito dell’arte, questo non è certamente meno vero. C’è il rischio di rimanere impastati a dar credito a quella insidiosa vocina che ti dice ma lascia perdere, ma cosa vuoi scrivere tu, proprio tu… (chi conosce la trasmissione radiofonica 610 con Lillo e Greg, potrà ricordare il riuscitissimo schetch del demotivatore, al proposito).

Tutto questo per dire che quando ho visto il diagramma pubblicato da Jeff Goins, nella sua splendida semplicità, mi sono sentito immediatamente colpito. Ho sentito che smascherava tante (mie) strategie procrastinatorie, tanti collaudati apparati generativi di scuse e pretesti.

Non c’è ragione per non fare più arte, ecco il messaggio rivoluzionario (perché non bisogna essere così originali per riconoscere che l’arte è comunque rivoluzionaria, combatte una efficacissima battaglia contro le consuetudini e la vita di superficie, così cara ad ogni potere, di ogni tipo e natura).

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Sei un artista se produci arte, a prescindere dalla valutazione che ne puoi dare. Chi è uno scrittore? Uno che vende libri? Che guadagna dalla scrittura? No, è uno che scrive. Semplice. Ma essenziale.

E se non trovo alcun errore logico, devo convenire che la risposta è solo una: fai più arte.

Sii più rivoluzionario. Sii un artista. 

Troppo bello per essere vero? No, affatto. Piuttosto, tanto bello che non può che essere vero.

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Condividere un dono

Scrivere è un’attività solitaria, siamo d’accordo. Esige un certo grado di concentrazione, esige soprattutto la volontà di osare, di metterle giù quelle parole, una dopo l’altra. Esige la fiducia pazza e irragionevole che il mondo complesso e screziato che  hai nella testa possa ammettere una (parziale ed imperfetta) traduzione in frasi, possa incarnarsi in qualche modo in una linea di inchiostro, in una sequenza di caratteri. La fiducia che il tuo universo interno così luccicante, incostante, liquido, possa essere comunicato al di fuori di te. Possa essere, in qualche misura, condiviso con altri.

Posso forse immaginarne il motivo. Se scrivere è un dono, un talento che (in misura che ora qui non discutiamo) ci è stato regalato, io penso pure che ci sia stato regalato con un motivo. Cioè che vi sia un solo modo corretto di accogliere questo dono. E il mondo è quello di condividerlo. Condividere, intendo, il frutto che direttamente da questo dono sgorga, o vorrebbe sgorgare: le parole scritte. 

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Apri le mani, lascia pure che siano gli altri a vedere se c’è qualcosa di dolce… 

Photo Credit: włodi via Compfight cc

Intendiamoci: scrivere per se stessi, in un certo grado, va bene. Va benissimo. Ad esempio tenere un diario personale. Perfetto.Totalmente OK. Io lo tengo (su DayOne), anche se la frequenza di aggiornamento è squisitamente irregolare, dipendendo spiccatamente dal periodo e dal mio umore medio. Perché non è egoistico? Perché scrivere per se stessi è sempre e comunque una palestra, un modo per raffinare le proprie capacità. Perché non è infrequente che le cose che si scrivono per se stessi, in un secondo momento, possano rientrare in larga parte in cose che si scrivono (anche) per gli altri. A me è capitato di riprendere ampi brani del mio diario e – tolte (ehm…) le cose più imbarazzanti – proporle nel blog o altrove. Potremmo anche ricordare che scrivere per se stessi permette di sperimentare senza troppa paura, permette altresì di stendere una linea di parole sugli avvenimenti personali più intricati, perciò stesso – per il potere della scrittura – orientandoli verso la possibilità che vengano compresi, dipanati.

Dunque scrivere è un dono che va condiviso (affrontando – o meglio accettando – tutta la paura e i dubbi che questo inevitabilmente comporta). Per inciso, è questo anche il motivo per cui – a mio avviso – scegliere di non scrivere non è mai una buona idea. (Invia su Twitter) Eh no, mio caro, non te la cavi così (dico a me, prima di tutto). Se hai questo impulso, questo desiderio di scrivere, se niente può farti sentire così a posto come quando scrivi, a posto nel senso proprio che ‘stai facendo il tuo dovere’… non te la cavi mica a buon mercato rifiutando la lotta, evitando di scrivere. No no, caro mio: ti stai facendo del male, stai comprimendo dentro di te un dono, un qualcosa che ti è dato per essere elargito, elargito a piene mani. Ecco, invece lascia fluire questo dono: offrilo agli altri. Lasciati andare, lascia che il tuo nero inchiostro fecondi la pagina bianca, facendo germogliare senso e significato.

Ribadisco. Qui non è affatto questione di quanto si è bravi. La questione è molto più profonda e meno egoistica: si tratta in realtà di onorare il dono ricevuto. E’ la direzione dentro la quale, poi, la vita scivola meglio, va più fluida: non ci possiamo fare niente, l’universo è fatto così. Non è saggio mettersi di traverso alle linee di forza, per così dire. Meglio riconoscere la struttura del reale e accoglierla, adeguarsi, allinearsi. Se tu sei un punto dell’universo per il quale esso si ricomprende nella scrittura (o in qualsiasi altra arte), se sei qui per questo, se questo è stato deciso per te, non è saggio opporsi. Molto meglio mettere da parte l’orgoglio (proprio quello che ti fa dire ma non sono bravo abbastanza, quello che non ti fa impegnare se non sei certo di produrre il capolavoro) e dire di sì. Sospetto una cosa: che aumentino decisamente le probabilità – in questo modo – di essere autenticamente felici. 

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500 parole al giorno

Questo mi piace. Se ne sentono tantissimi di propositi, di esortazioni e proponimenti per il nuovo anno. Tanto che uno non ci fa più attenzione, di solito. Oppure lo fa per un  momento appena è poi se ne dimentica. Presto. Presto lascia stare tutti i vari propositi di cambiamento e riprende la vita solita.

Ecco, la vita solita.

Che poi, intendiamoci, niente vieta che la vita solita sia gratificante, appagante, variegata, variopinta. Però c’è il caso che se tu rimani esclusivamente agganciato a cose pratiche e necessarie, trascurando i tuoi sogni, c’è appunto il caso che qualcosa non vada proprio nel verso giusto.

Temevo come la peste l’arrivo di giorni in cui si sarebbe dovuto andare avanti solo per le bambine e per i conti da pagare e magari per mantenere un modo di vita e un insieme di rapporti e cose pratiche che non sapevo nemmeno più come cavolo fossero iniziati. O meglio, sapevo bene che erano iniziati come una fluttuazioni minimale e periferiche di un entusiasmo comunque sovrastante e sovrabbondante, una positività che ci assicurava in ogni caso un riparo e un rifugio dall’aridità in agguato nelle cose stesse. (Da Il ritorno)

Un cassetto può rimanere chiuso a lungo, a meno che non contenga dei sogni. Allora sei fregato. Allora ad un certo punto ti tocca aprirlo, il cassetto. Altrimenti i sogni vanno a male e i sogni non realizzati, non perseguiti, sono davvero un peso duro da portare.

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Photo Credit: lecates via Compfight cc

Faccio una piccola digressione. Ieri sera ho visto un film insieme a mia moglie, Appuntamento da sogno!, un film leggero ma non stupido. Un film romantico – e ogni tanto (mi) ci vuole. Ad un certo punto ho ascoltato una frase che mi ha così colpito che ho dovuto acchiappare di corsa l’iPad per appuntarmela subito, tanta era la paura di perderla.

Se desideri tanto qualcosa, e non fai tutto quello che è in tuo potere per ottenerlo, in pratica stai prendendo a schiaffi la vita.

Così quando l’altro giorno ho aperto il mail con la newsletter di Jeff Goins pensavo vagamente a qualcosa di quelle che si dicono sempre, per il cambio di anni. Magari detta bene, detta in modo inusuale, convincente: Jeff è bravo in questo. Pensavo di essere in qualche modo preparato, anche (purtroppo) a leggere eventuali esortazioni con sguardo cinico e disincantato. E invece mi ha fregato – sono rimasto davvero spiazzato.

This is the year you become a writer.

Ecco otto parole di fila che mi hanno colpito come poche altre. Hanno svelato cosa volevo, cosa vorrei, cosa cova sotto la cenere, cosa mi fa respirare se non la soffoco, non la comprimo. Hanno indicato cosa volevo dal nuovo anno, e avevo perfino paura di articolare tale domanda, delineare tale desiderio. Questo è l’anno in cui tu diventi uno scrittore. 

E questo avviene in maniera semplice, a piccoli passi, con applicazione costante. Così accetto assai volentieri la sfida che Jeff lancia dalla sue pagine: 500 parole al giorno per tutto il mese di gennaio. Io ci sto. Perché ha ragione lui, ancora una volta:

…what do writers do? They write, of course.

Perché essere uno scrittore non dipende dal fatto che si è pubblicati qui o là, non è una decisione esterna. Non dipende dalle circostanze. Dipende in primo luogo da se stessi, da una azione che non coinvolge che se stessi e solo dopo -semmai – si allarga al mondo: dipende dal fatto semplicissimo di scrivere. Sviluppare l’abitudine di scrivere e mantenerla nei giorni, con tranquillità.

Questo mi piace. Questo mi serve.

A questo, io voglio esserci.

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Fabio sognava (scrivere è attraversare la paura)

“Fabio sognava di correre insieme con Liliana. Erano in un campo vastissimo, pieno di sole e di fiori gialli gialli. Lui correva e cercava di acchiapparla, lei correva più veloce di lui, gli sfuggiva sempre per un pelo. Poi alla fine lui riusciva a prenderla, ma con la sensazione che lei si fosse lasciata prendere per essere baciata. Come quando erano fidanzati, lui la stringeva a se e lei faceva la faccia con il broncio.”
E’ un po’ che ci gioco, con questo brandello di trama venuta su così, quasi senza volere. Che parte da alcuni luoghi, da una geografia prima che da una vera e propria storia. Orbetello, Montreal, St. Moritz… Luoghi e personaggi. Così accade che mi trovo a rileggere la parte iniziale del romanzo, che vorrei percorrere piano piano, facendolo crescere, lievitare come una torta, con pazienza e applicazione. E mi domando perché sia ancora lì, fermo.

Vediamo, cerchiamo di fare luce.C’è stato l’inizio, con l’entusiasmo tipico di ogni inizio. C’è stata poi la paura. La paura che tutto questo sia una perdita di tempo, che io non sia veramente in grado di scrivere una buona storia. Insomma tutte le paure più classiche che si possono avere: io ovviamente me le sono ritrovate addosso (io le paure le me le attiro addosso abbastanza bene). Così vi sono state sessioni di scrittura faticose – perché non convinte – e soprattutto lunghe fasi di stasi. Che come tutte le fasi stazionarie, non hanno risolto nulla.
Così ora che inizia un nuovo ciclo, un nuovo anno (per me l’inizio di un nuovo ciclo annuale è circa poco dopo ferragosto, è lì che riparte tutto: dopo la pausa estiva), ora che penso a come veleggiare attraverso l’autunno che sta arrivando, e poi l’inverno, ecco che capisco che ci forse ci manca un ingradiente, alla mia analisi.

Beh, avete probabilmente già capito quale.

Il bello è questo. Attraversare questa paura e scrivere. Allargo un attimo il quadro, permettetemi. E’ bello, gustoso, attraversare ogni paura che viene. A volte mi pare di capire che sia ben di più che un atteggiamento terapeutico. Di qualcosa da raccontare all’analista. E’ qualcosa di strettamente legato al mio compito, al motivo per cui sono qui, per cui sto vivendo. Nella disposizione interiore, che si traduce in una modalità di reazioni di fronte alle circostanze, vi è il nocciolo sacro della libertà, è misterioso ed ha connessioni misteriose e profonde con tutto quanto.

Venendo poi a scrivere. Scrivere è sempre rischioso (un rischio salutare) e scrivere un romanzo è molto rischioso, è come lasciare il porto e fare rotta verso un punto lontano. Verificare le dotazioni di bordo e andare. Del resto, dice qualcuno, le barche in porto stanno sicure: ma non sono fatte per rimanere in porto, le barche.
Allora il viaggio di quest’autunno, di questa fine anno e inizio del prossimo, potrebbe essere questo. Potrebbe essere far crescere un secondo romanzo, dopo Il ritorno. Scrivere un romanzo è una cosa, ma farne un secondo ha una portata profonda (vorrei dire, a prescindere dall’esito). Vuol dire riconoscere che non si può stare lontani dal raccontare storie. Vuol dire che non era una tantum. Vuol dire che non puoi farne a meno, no. 
Che la vita risulti scolorata e tesa quando uno non scrive, quando tenta di legarsi le mani (senza riuscirci) per risparmiarsi questa complessità e eludere ogni incertezza, è un segnale. Forte, netto, che deve essere assimilato. Non è certo completamente in mio potere decidere di scrivere bene. Ma è in mio potere accogliere questa (pressante) richiesta a scrivere, o rifiutare. Rifiutare però vuol dire comprimersi sulla superficie, mancare in profondità, perché il no avvelena e corrompe. Così devo passare oltre la mia autosvalutazione e dire sì. 
Alla fine è semplice: devo fare questo, devo andare a vedere. Devo vedere cosa succede nella storia di Fabio e di Liliana. Perché si sono allontanati, se si potranno riavvicinare, per che motivo, o per chi. Non devo creare, devo soltanto ascoltare i miei personaggi. Fare pace e silenzio dentro di me, perché loro mi parlino. E tenere traccia umilmente di quanto mi vogliono dire. Del resto, lo stanno già facendo. Mi stanno già parlando e io devo solo abbassare lo strato protettivo di distrazione e affanno per lasciar emergere quanto mi dicono. A piccoli passi, con pazienza. Baby steps, sempre.
E’ il tempo giusto per farlo, probabilmente. 
E’ sempre, questo tempo. Ma è soprattutto adesso, mi sembra.

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Parole in fila (con un’isola)

Così, riconoscersi. Rassicurarsi appena nel mettere due o tre parole in fila. A seguire. Ci sono cose che non puoi smettere di fare, tutti i dubbi non ti fermano. Ti possono rallentare, ma non ti fermano. E’ che semplicemente rifiutando, scappando, non eludi il problema. Ti si ripresenta davanti ogni giorno. Vuoi prendere sul serio questa cosa, oggi? Certo, puoi prenderti in giro, rallentare, andare piano quanto vuoi (l’ho fatto tante volte). Puoi mettere da parte, ma non ti senti veramente a posto. Più passa il tempo e non ti senti a posto. Qualcosa non ti lascia a posto – semplicemente ciò che rimane intorno, tolto quello, non ti appaga più. Non ti riempie.

La paura, la resistenza, non è da sottovalutare. Può essere paura forte, decisiva. Dici, non mi butto perché chissà, sarà per me? Sarò bravo abbastanza? Chi lo dice? Eppure la puoi sorprendere, scoprire. Passare attraverso le paure, può essere la cosa più diverente che c’è. E’ ancora tutta da scoprire, probabilmente. 
Writing nowadays
Writing nowadays, immagine di Starlightworld su Flickr
E’ noto: la cosa più difficile è l’inizio. All’inizio metti due o tre parole in fila, scrivi qualche paragrafo. L’hai fatto perché non potevi evitarlo. Le hai provate tutte per non scrivere, ma alla fine hai dovuto. Ecco. Quando rileggi arriva il colpo decisivo. No, non va bene. E’ zoppicamente, suona male. Pieno di ripetizioni. Non decolla. Certo, c’è questa frase che forse va bene. Forse sì, questa va bene. Però no, complessivamente non va: è evidente.
E quello che è peggio, la cosa che fa più scandalo, non è nemmeno questa. E’ l’idea. Siamo onesti, cosa volevi dire? Qual è il nucleo centrale, quel nucleo pulsante che volevi ricoprire di parole? Volevi esporre al mondo? Ai familiari, agli amici, ai contatti facebook, a tutti? E’ questo il nucleo dell’idea? Sarebbe questo? 
La vocina si fa più insidiosa, fino a darti la mazzata più forte. “Ma se è questo che riesci a scrivere, se l’idea che esprimi è tanto ingenua, non è meglio che lasci perdere?” 
Questo mi ha spesso fermato. Leggevo quello che avevo scritto, e subito dopo aver letto, l’impulso era sempre lo stesso. Volevo scappare. O magar far finta di niente, far finta che non ero io. Che io ero molto meglio, se solo avessi voluto. Il solo fatto che io sapessi di riuscire a scrivere soltanto in “questo modo” era già destabilizzante. Lo scarto tra l’idea indistinta e luminosa nella mente e il risultato sulla carta è stridente. Ma allora, io scrivo così?
Meglio cullarsi nell’idea rassicurante che sarei molto bravo, se solo volessi. Sembra rassicurante, all’inizio. Poi capisci che è la strada verso il disagio. Perché quando scappi il disagio, comunque, arriva.
Il punto è  magari che bisogna fare palestra, ogni passione va coltivata. Più profondamente: nessuna auto(s)valutazione può avere la consistenza adeguata per mettere in dubbio la propria vocazione. E’ semplicemente su un altro piano, è solo un ennesimo tentativo di resistere. Il messaggio positivo è esattamente in senso opposto alla paura,  non devo smettere, devo lavorarci di più. Non bisogna scandalizzarsi della propria imperfezione, dobbiamo appunto lavorarci su, nella pace.
D’altra parte gli ostacoli, le paure vengono per questo. Per verificare se una cosa la vuoi abbastanza, la vuoi davvero. Se la vuoi davvero, probabilmente la cosa la devi fare. Probabilmente è la missione che ti è stata affidata fin dall’eternità dei tempi. 
Certo fa tremare i polsi pensare di avere una missione. Mettersi di fronte alla propria unicità può spaventare. Anzi a volte terrorizza proprio. Non siamo più abituati a pensare che ognuno di noi è unico, straordinario ed irripetibile, in tutta la storia del cosmo. Per troppo tempo hanno provato a convincerci del contrario, e forse abbiamo prestato troppa fede a gente ancor più spaventata di noi. 
Chi ci ha già rinunciato / e ti ride alle spalle / forse è ancora più pazzo di te. 
(Edoardo Bennato, L’isola che non c’è)
Ci vuole un lavoro anche per cedere, per arrendersi. 
Ma se questo deve essere, se questa è la verità, allora sia. 
Che poi uno si accorge che se prende sul serio la propria vocazione, l’universo si adatta, si modifica per aiutarlo… ma questa è un’altra storia. 
O meglio: un’altra parte della stessa, unica, grande storia. La scoperta che ognuno deve fare, che realizzare sè stessi non è affannarsi dietro qualche propria idea di compimento, ma è sostanzialmente una passività. 
E’ cedere al progetto che un Altro ha su di te. 

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Creare qualcosa

Ragionavo nel post precedente sul fatto che cercare di comprimere la musica dentro degli steccati, delle articolazioni di genere, ha una rilevanza limitata. D’altra parte, la musica è così. L’arte è così. Si fa una gerarchia di valori, ma è soltanto per comodità. Poi ti imbatti in quel pezzo di quel compositore minore e ti sorprendi di come ti si avvolge addosso, sembra fatto per te. Potresti averlo fatto tu. Anzi, vorresti. 

Ed eccoci arrivati a toccare un tasto importante. Il motivo per cui creare qualcosa, per cui osare creare qualcosa ha molto a che vedere con questo, da come la vedo io. Prendiamo lo scrivere, ad esempio. Scrivi perché vorresti leggere una certa cosa e non la trovi. Certo, ne trovi a milioni, di cose, a miliardi. Ma non esattamente quella: con quel bilancio di colori, sensazioni, con quella esatta visione del mondo, con quell’impasto di attitudini, distanze, relazioni, esitazioni, che ti senti in fondo al cuore. 
Così scrivi e provi a portare a galla il tuo mondo. E la prima impressione può essere devastante. Il tuo mondo vien fuori ma ecco, è molto meno screziato, articolato, complesso, ambivalente, di come   pensi che debba essere, di come sai che deve essere. 

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Writing like the wind, foto di snigl3t

Il punto è questo. Pensavi di essere arrivato ed invece sei appena partito. Sei partito per una meravigliosa e drammatica avventura. Perché devi acquisire gli strumenti tecnici, devi fidarti, devi capire che a scrivere si può imparare. Che quello che hai dentro è un tesoro, ma per esprimerlo devi applicarti, devi lavorare. Il lavoro è quello di continuare a pescare dentro di sè, ascoltarsi, allevare la propria voce. E intanto acquisire gli strumenti per esprimerla. Quindi è un allargamento: verso l’interno (ricettività) e verso l’esterno (la tecnica, il mestiere). 
Mi viene da pensare, come una traiettoria spirituale. Lo spalancarsi di una ricerca, che diventa sempre più vasta e intrigante quando ti accorgi dell’incontro con una corrispondenza.

L’importante non è arrivare subito, ma rimanere in viaggio.

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