Blog di Marco Castellani

Categoria: Tecnologia

Mondi in formazione

Colti proprio nel momento giusto, potremmo dire. Il grande disco intorno alla stella PDS 70, sede di formazione di pianeti. Anche, il pianeta gigante già formato, sulla destra della stella. Si chiama PDS 70c e pare simile in grandezza e massa, al nostro Giove. Ma non è tutto qui.

PDS70, pianeti e lune in formazione. Crediti: ALMA (ESO/NAOJ/NRAO); M. Benisty et al.

La cosa veramente strabiliante – che non si era mai vista prima – è quell’alone opaco intorno a PDS 70c. Anche quello si ritiene che sia un disco di gas e polveri, verosimilmente destinato a produrre delle lune intorno al pianeta stesso.

L’immagine ci viene dall’Atacama Large Millimeter Array, una schiera di sessantasei radio telescopi posti in una zona desertica del Cile. Dalle caratteristiche del disco intorno al pianeta, sembra che sia destinato a produrre una spicciolata di satelliti delle dimensioni della nostra Luna. Più o meno come i quattro satelliti medicei di Giove, insomma: Io, Europa, Ganimede e Callisto.

Siamo dentro un Universo che non rinuncia a nascere nuovo, ogni giorno. Dobbiamo essere grati alla tecnica perché, fortunatamente abbandonata l’idea di un cielo “perfetto” ed immutabile, possiamo accorgerci di questi processi di nascita, onnipresenti e quotidiani. Forse anche, perché possiamo far nostra questa esigenza di rinascere, sempre e di nuovo.

Nei momenti difficili, possiamo sempre guardare al cosmo, sintonizzarci a vivere la sua stessa avventura. E ristorarci, in questa sommessa partecipazione all’immenso.

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Tenere il filo

Si chiama DSS-56, ed è una nuova antenna aggiunta dalla NASA a quella rete del Deep Space Network che ci mantiene collegati ai vari esploratori disseminati in giro per il cosmo: dai pianeti vicini allo spazio interstellare (grazie a questo network riusciamo a tenere il filo con sonde come le Voyager che si trovano al di fuori del Sistema Solare, riusciamo a captare ancora i loro esilissimi messaggi e perfino ad inviare comandi).

La nuova antenna DSS-56. Crediti: NASA/JPL-Caltech

La nuova antenna ha delle caratteristiche speciali, rispetto a quelle già esistenti. Difatti, la DSS-56 (il suo disco è largo ben 34 metri) è la prima a lavorare sull’intero spettro di frequenze disponibile sul network, mentre le altre sono limitate nelle bande in cui posso ricevere e trasmettere, e dunque gestiscono solo alcune delle tante sonde che si appoggiano al network, per dialogare con la Terra. Una antenna all-in-one che dunque può essere usata come soluzione di backup in caso un’altra antenna del network avesse problemi.

Tenere il filo con quanto avviene in mondi lontanissimi è un’impresa difficile e appagante, insieme. Quando pensiamo ad una sonda al lavoro su Marte o che si affaccia sul mistero dello spazio interstellare, spesso ci dimentichiamo che il dialogo con questa è tecnicamente assai delicato. Richiede una grande capacità di ascolto, e un adeguarsi alle frequenze dell’altro per poter veramente scambiare informazioni.

Le distanze poi sono anche psicologiche, non soltanto siderali. Se fossi un uomo buono, capirei la distanza tra gli amici cantavano i Pink Floyd nella delicatissima If. Noi non possiamo costruirci nuove antenne, certo. Ma accogliere un lavoro di rifinitura, ripulitura, per uscire un po’ da noi stessi, questo forse possiamo farlo.

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Centodiciotto anni più tardi…

Oggi è così, ma non è sempre stato così. Oggi certo, siamo abituati a catturare immagini facilmente, di qualsiasi cosa. Abbiamo sempre con noi uno smartphone che dispone ormai di un apparato fotografico di soddisfacente qualità, in modo che non ci stupisce più il fatto di andare in giro catturando immagini di mondo, di quel mondo che i nostri nonni si accontentavano – quasi sempre – di vedere con gli occhi, e basta.

Tra l’altro, è ben noto che i telefoni cellulari – e le moderne macchine fotografiche – siano equipaggiate con quelle CCD (nome che sta per Charge Coupled Device, ovvero Dispositivo ad accoppiamento di carica) che sono state ideate e sviluppate proprio in ambito astronomico.

Tutto questo, lo sappiamo, è storia di oggi. Ed appunto, non è sempre stato così. E non parlo della preistoria tecnologica, tutt’altro. Quando il sottoscritto iniziava a muovere i primi suo passi nel mondo dell’astronomia, per dire, le immagini dal cielo venivano ordinariamente registrate su lastre fotografiche. Con tutti i problemi di linearità, saturazione, rumore, che ogni buon astrofilo potrebbe spiegarvi (e spiegarci, anzi).

E’ utile allora tornare un attimo indietro, fare storia, capire la strada fatta, ed anche le meraviglie che già si potevano realizzare tanti anni fa, attrezzati di entusiasmo e dedizione.

Eccone certamente una, di autentica meraviglia.

Crediti: George Ritchey, Yerkes Observatory – Digitization Project: W. Cerny, 
R. Kron, Y. Liang, J. Lin, M. Martinez, E. Medina, B. Moss, B. Ogonor, M. Ransom, J. Sanchez (Univ. of Chicago)

E’ una fotografia della Nebulosa di Orione, realizzata appunto sopra una lastra fotografica. Eravamo all’alba del secolo che si è concluso, nel 1901. Sono passati ben centodiciotto anni, due guerre mondiali e tante altre cose (anche meno drammatiche, grazie al cielo), ma l’immagine conserva tutta la sua carica di meraviglia. Per la cronaca, l’autore fu un certo George Ritchey, astronomo e costruttore di telescopi.

Il bello, è che abbiamo ancora tantissimo materiale in lastre fotografiche (spesso a largo campo) che risultano molto utili per le ricerche attuali: esse naturalmente vengono digitalizzate con grande cura per poi poter esplorarne il contenuto informativo – a volte preziosissimo.

Perché in fondo, ogni vero futuro inizia così: con i piedi ben piantanti nel passato.

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Il primo degli esploratori, una storia (quasi) italiana

Sono passati appena sessant’anni: correva infatti il 31 gennaio dell’anno 1958, quando The First Explorer veniva lanciato nel cosmo, tramite un razzo Jupiter-C. Si inaugurava proprio in quel momento, per gli Stati Uniti, l’era senza fine delle esplorazioni spaziali: il momento in cui si iniziava ad andare nello spazio per raccogliere dati, per “vedere” l’universo sul posto, per iniziare ad estenderci oltre la superficie del nostro pur bellissimo pianeta.

Il momento del lancio. Crediti: NASA

E questo primo importante salto nel cielo non è stato senza conseguenze: l’universo, potremmo dire, ha iniziato subito quel dialogo con noi dal quale stiamo – ancor oggi – imparando innumerevoli cose.  Nello specifico, il satellite aveva a bordo alcuni strumenti per misurare la temperatura, e gli impatti da micrometeorite. Insieme con un  certo esperimento ideato da James van Allen allo scopo di misurare la densità di elettroni e di ioni nello spazio.

E’ noto che proprio questo esperimento portò a risultati all’epoca piuttosto clamorosi, ovvero alla scoperta di due enormi fasce di particelle cariche che avvolgono tutta la Terra, le cosiddette fasce di Van Allen  essenzialmente composti da elettroni e ioni “intrappolati” nella magnetosfera terrestre.

La cosa per noi veramente interessante è che queste fasce in realtà erano state già previste teoricamente, da un fisico, politico ed accademico italiano: si tratta di Enrico Medi, un nome che ai più oggi non dice molto, probabilmente. Eppure, persona decisamente peculiare, autore di molte opere sia scientifiche che spirituali (e per il quale è in corso una causa di beatificazione).

Così la tecnologia d’oltreoceano si sposava, già allora, con il genio italiano, in un connubio virtuoso che avrebbe avuto molti altre occasioni di fioritura.

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Vivere, per raccontarli

Il bello di avere un archivio abbastanza esteso (siamo online da quindici anni, giorno più giorno meno…) è che a volte, navigando nei vecchi post, trovi delle correlazioni interessanti, spunti che rendono anche più significativa l’analisi del momento presente. Come dire, danno uno spessore nuovo anche al dato di attualità più stringente.

Esempio. Mi sono imbattuto proprio ieri in un articolo sull’account Twitter della missione Cassini (ormai ai suoi epigoni, come sappiamo): l’articolo risale al 17 luglio del 2008 (poco meno di nove anni fa) e narra dell’attivazione di CassiniSaturn su Twitter. Quello che mi ha colpito – e credo può essere interessante notare – è che all’epoca di scrittura dell’articolo, l’account di Cassini aveva “ben” (sic!) 1163 iscritti.

Anzi, se posso permettermi una autocitazione, per quanto non sia elegante…

…il suo account CassiniSaturn al momento registra appena 15 aggiornamenti, ma già la bellezza di 1163 iscritti (tra cui lo scrivente). Cifre che fanno riflettere sia sulla diffusione del web2.0 e dei suoi servizi, sia più significativamente sul desiderio di conoscenza che la gente ordinaria mantiene sulle più importanti missioni spaziali.

Quello che colpisce, effettivamente, è come cambiano i paradigmi informatici. Intendo, come cambiano velocemente. Ora una cifra di questo genere per un account ufficiale di una missione spaziale, è veramente irrisorio. Certo, è vero che era stato creato da poco – giugno 2008 – ma fosse successo adesso, avrebbe raccolto followers assai più rapidamente.

Ma siamo nove anni più avanti. E anche Twitter lo è.

Il team che lavora alla missione Cassini, in una foto recente. Quanta spettacolare umanità si porta addosso un “pezzo di metallo”! Crediti: NASA

Sono andato a vedere come se la cava adesso l’account CassiniSaturn, e con mia sorpresa in questo momento può vantare 1,35 milioni di followers. E non c’è da dubitare che man mano che ci avviciniamo al Gran Finale, la cifra lieviterà sempre di più.

A tutto vantaggio, come si può capire, della comunicazione diretta e veloce della scienza, una cosa che fino a pochi anni fa era totalmente inimmaginabile. E che ora è davvero una bella realtà, di cui possiamo approfittare tutti. Insomma, il cielo è esplorabile – lo è sempre stato – ma da tempo lo si può fare anche dal computer. E spesso, con risultati spettacolari.

In fondo, anche noi siamo qui per questo. Per raccontarveli.

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Tra le due e le tre di questa notte, è arrivato dalla sonda New Horizons il tanto atteso segnale. La sonda ha confermato il suo buono stato di funzionamento, e si aspetta dunque con trepidazione l’invio dei dati riguardanti la sua “gita a Plutone”.

Dati che che, come abbiamo ricordato, rivestono una importanza epocale, perché per un bel po’ di tempo – fino a chissà quale prossima missione – saranno i soli dati di Plutone di cui potremo disporre.

L'entusiasmo al centro di controllo della missione dopo il passaggio ravvicinato a Plutone (Crediti: NASA/Bill Ingalls)

L’entusiasmo al centro di controllo della missione dopo il passaggio ravvicinato a Plutone (Crediti: NASA/Bill Ingalls)

Il web ha reagito con entusiasmo a questa impresa, come sappiamo. Forse un po’ meno i più tradizionali canali informativi, come possiamo evincere (anche) da questo post di Corrado Lamberti apparso poco fa su Facebook,

TG1 RAI.Il TG1 della RAI ieri sera ha dato la notizia del Flyby della New Horizons come quarto titolo, quasi si trattasse di cronaca curiosa, aprendo invece con l’accordo sul nucleare con l’Iran, definito “storico”. Fra mille anni, secondo voi, sugli e-book dei nostri pronipotini, il 14 luglio 2015 per cosa sarà ricordato? Per l’Iran? Mi sembra di sentirli: “Scusi sig.ra maestra, cos’è l’Iran?”

Posted by Corrado Lamberti on Mercoledì 15 luglio 2015

Con tutto il dovuto rispetto per l’accordo sul nucleare (la cui importanza penso sia fuori questione, per tutti), ritengo che notizie della portata di questo flyby a Plutone, dopo ben nove anni di viaggio, dovrebbero essere date con molto maggior risalto. “Dovrebbero” mi viene da dire, per un senso di utilità comune, non per un qualche obbligo o subalternità nei confronti della scienza, sia chiaro.

Utilità comune, sì. Mai come adesso abbiamo il bisogno di sentirci partecipi di una avventura comune, di gioire insieme per un risultato che premia non certo soltanto gli scienziati e i tecnici che hanno lavorato al progetto, la loro costanza e la loro pazienza. No, premia tutti gli uomini di buona volontà che giorno per giorno lavorano per rendere il mondo un ambiente pacifico, producendo per così dire terreno fertile perché questi piani ambiziosi e un po’ folli possano vedere la loro concreta realizzazione.

A costo di sfiorare la retorica, vorrei dire che il flyby a Plutone è stato possibile per loro: per tutte quelle persone che in questi nove anni hanno pensato che tutto sommato il mondo non è da buttare, che tutto sommato vale la pena. E che per questa attitudine – magari faticosamente ripresa, ogni volta daccapo – hanno ipso facto reso il mondo più pacifico ed ospitale. Più adatto a spiegare le ali della curiosità, della voglia di sapere, di conoscere e di capire.

E’ dunque una vittoria di tutti, e andrebbe adeguatamente celebrata come tale. Perché la curiosità è tanta, l’interesse è veramente grande: basti vedere come lievitano i follower agli account Twitter relativi a queste missioni, in questi momenti “epocali”.

Ecco, io penso che questo interesse è tutt’altro che fatuo. E’, in fondo, il medesimo interesse dei primi uomini, in ammirazione estatica del cielo stellato. E’ l’interessa che insopprimibilmente anche i più cinici tra noi albergano ancora nel cuore, per sapere cosa c’è davvero qui fuori.

Cosa c’è, insomma, oltre noi stessi, oltre le nostre piccole e grandi paure, oltre le nostre tensioni domestiche  e anche oltre i nostri stessi entusiasmi. Di cosa facciamo parte.

Dobbiamo stimolarlo, questo interesse buono.  Abbiamo bisogno, per rendere il mondo più vivibile, di sentirci parte di una grande avventura comune, una avventura pacifica ed intrigante, che ci possa impegnare a fondo. L’esplorazione dello spazio (come la ricerca sui costituenti ultimi della materia, per altri versi) condotta (e divulgata) con passione oltre che con il necessario rigore, è un possibile antidoto al cinismo e una fonte perpetua di possibili meraviglie.

Perché il mondo là fuori, ragazzi, è veramente intrigante e ancora – di molto – sconosciuto. Basti pensare che, secondo i modelli più accreditati, la gran parte dell’Universo è costituita da materia ed energia oscura, tutta ancora da comprendere: vedete che razza di avventura ancora ci attende?

E se questo anelito a conoscere e capire è stato – in un certo senso – l’anelito di sempre, c’è però una cosa nuova. C’è che mai come ora, grazie ai moderni mezzi di comunicazione come Internet, esiste una strada tecnicamente percorribile perché tutte le persone interessate, in ogni parte del pianeta, possano seguire in tempo reale e anche partecipare (spesso anche attivamente) a questa avventura.

Una coincidenza di opportunità, un nuovo orizzonte, che davvero non possiamo perdere. Se vogliamo rendere questa Terra un posto migliore, dobbiamo guardare allo spazio.

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Il tempo della mela

Fin dall’inizio dell’avventura umana, la misura del tempo è stata fondamentale. Il tempo zero, l’istante dell’inizio dell’Universo, è sempre stato un punto privilegiato, luogo di accumulazione dell’interesse di ogni scienza ed ogni cultura, di ogni mito.

Per introdurmi ragionevolmente nell’argomento, faccio come si fa di solito, ovvero consulto wikipedia. La voce “tempo” è molto ricca, e tra l’altro recita:

La percezione del “tempo” è la presa di coscienza che la realtà di cui siamo parte si è materialmente modificata. Se osservo una formica che si muove, la diversità delle posizioni assunte, o se presto attenzione al susseguirsi dei miei pensieri o ai battiti del mio cuore, fatti fisiologici, e in ultima analisi, fisici, ciò certifica che è trascorso un “intervallo di tempo”. Si evidenzia “intervallo” a significare che il tempo è sempre una “durata” (unico sinonimo di tempo), ha un inizio e una fine.

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Capirete che è un tema in cui si può affondare ad libitum, perché è uno di quegli argomenti tanto proprio alla fisica come alla filosofia. In questo, il tempo segnala ciò che è tempo di comprendere, davvero: che non esiste una cultura “umanistica” contrapposta ad una cultura “scientifica”, ma sono semplicemente due approcci complementari, ambedue indispensabili. Anzi, sono uno. Parlare di “presa di coscienza” è legare il tempo alla profondità della cultura e del sentire umano, bel oltre il dato scientifico.

Purtroppo è accaduta una sorta di rottura di simmetria, che il compito della nostra epoca, dell’uomo del millennio appena iniziato, sarà di ricucire. Non con facili sincretismi, ma ideando un nuovo percorso, un cammino ancora inedito. Pazientemente, libera-mente, lavorando su sé stessi per poi intervenire efficace-mente sul contesto.

E’ che affondando nel tentativo di comprensione di cosa è il tempo che ci scontriamo, anche qui, con un sentimento di ultima impotenza (che mi pare un tratto squisitamente moderno), con una necessità di resa:

L’unico modo convincente di rispondere alla domanda “che cos’è il tempo” è forse quello operativo, dal punto di vista strettamente fisico-sperimentale: “il tempo è ciò che si misura con degli strumenti adatti”. Una analisi microscopica del problema tuttavia mostra come la definizione di orologio sia adatta solo a una trattazione macroscopica del problema e quindi non consenta di formulare una definizione corretta per le equazioni del moto di particelle descritte dalla meccanica quantistica.

Ed arriviamo facilmente al fatto che (permettetemi di metterla così)  il tempo esiste perché c’è l’Universo che lo giustifica,

in un certo senso l’intero Universo in evoluzione si può considerare il vero fondamento della definizione di tempo; si noti l’importanza essenziale della specifica “in evoluzione”, ossia in movimento vario, accelerato: senza movimento, senza variazione anche il tempo scompare!

Ma questo è davvero un tema enorme: affrontarlo prenderebbe una enorme quantità di tempo. Allora, per il momento vorrei volare più basso. Torniamo un attimo indietro: cosa si intende per “strumenti adatti” ?

Di orologi di diversa foggia sofisticazione ve ne sono infiniti, lo sappiamo. Vorrei adesso concentrarmi sull’ultimo arrivato: quello che dimostra il modo Apple di intendere il tempo, di misurarlo. L’Apple Watch è la declinazione del modo della mela, di come si può intendere un moderno sistema di misura del tempo. E’ il tempo della mela, dopo quel Tempo delle Mele dello scorso millennio, che fece sognare e commuovere moltissimi, tra noi non più giovanotti.

Che poi, essendo targato Apple (torno a parlare di mela al singolare), fa decinaia di altre cose, oltre che misurare il tempo. Cosa che peraltro dovrebbe fare assai bene, a leggere le specifiche: “mantiene uno scarto non superiore a 50 millesimi di secondo rispetto al tempo universale standard”.

Ma il punto non è la precisione. E nemmeno le diecimila cose che fa: ti controlla mentre fai attività fisica, mentre dormi (con chi dormi, forse…?), ti fa vedere le foto su Instagram, ti notifica email e messaggi Facebook, etc…

Il tempo, insomma, non sappiamo se sia relativo, ma certo – in questo modo – è relativizzato. E il tempo è così legato indissolubilmente al flusso erratico di notifiche e messaggi e allerte, di cui l’orologio (in questa moderna incarnazione) si fa  veicolo. Si può riprendere la frase di prima, traslandolo in versione più tecnologica, asserendo che “senza notifiche, il tempo scompare”.

Non so voi. Io sono attratto e spaventato allo stesso tempo. Attratto da cosa potrei fare con l’Apple Watch (il mio lato geek è letteralmente elettrizzato), spaventato del fatto che mi potrei così abituare ad avvertire le notifiche sulla pelle, tramite la discreta vibrazione dell’orologio, da non poterne più fare a meno. Da sviluppare una dipendenza.

Ma la cosa che mi preoccupa di più è un’altra. La dipendenza che mi terrorizza è quella dalla rete elettrica, non tanto da Internet. Fino a diciotto ore, dice. Anzi, per la precisione, dice fino a diciotto ore di autonomia. 

Sono esitante. Per adesso, l’orologio è l’unica cosa tecnologica che posso dimenticare di attaccare alla spina e ricaricare, ogni santa notte. Per ora.Ma il tempo passa. Gli orologi si aggiornano. E questi fanno appunto duecentomila cose.

Ma si scaricano.

E l’idea di arrivare a casa e attaccare tutto ai vari ricaricatori, non mi esalta.

Se poi vagassi nel deserto, in meno di un giorno si spegnerebbe tutto. Telefono, tablet, e ora perfino l’orologio. Tutto. Meno l’idea che a volte, troppa tecnologia – forse – non aiuta a vivere in maniera più umana. A viversi bene il tempo.

Forse.

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