la modulazione flebile di onde elastiche tese rese trasparenti dal sole e l’ombra.
Che si succedono intime negli immensi spazi interni
Dove aspetti me è dove io ti aspetto a balbettare l’idea pazza di compimento di là di ogni ombra, ogni male.
Così le campane suonano – adesso – che impudica inarchi la pazienza non detta, portata a pelle come diadema. L’unico ornamento del resto
più bello ed essenziale di te nuda.
L’unico profumo più soave del tuo stesso odore.
E ogni tuo piegarsi è mostrare, invitare: creare tempo e spazio.
Perciò lo vedo. Tra chi non si mischia di poesia e chi si imbratta invece – camminando a filo tra ridicolo e sublime – piovono grappoli di orizzonti, miriadi di universi.
Come tra no e così sia, tale è distanza che l’infinito stesso è poca cosa.
Vuoto. Come gigantesca autostrada vuota. Di venti corsie vuote.
O acceleratore d’enorme promètea fattezza che nella ricerca d’elusiva particella – nell’esito incerto dell’esperimento – solo riverberi vuoto più vuoto.
– Anita, guarda! – mamma adesso le stringe la mano più forte.
– Guarda cosa, mamma?
– Guarda in alto!
Un po’ infastidita, Anita alza lo sguardo. E improvvisamente vede. Vede miriadi di puntini luminosi brillanti, quelli che non si scorgono mai, in città. Vede un cielo pieno pieno di stelle, come non se lo ricordava da tanto. Accidenti. È un cielo semplice e bellissimo.