Blog di Marco Castellani

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Vivere, amare (ovvero, cattedrali in crollo)

A volte è difficile rimanere su Facebook, girare per Internet, senza avvertire quasi un senso di nausea. In queste occasioni, soprattutto. Perché un fatto doloroso, penoso come l’incendio di Notre Dame viene interpretato e tirato in mille direzioni diverse, in diecimila percorsi, più o meno opinabili. 
Che uno avrebbe giusto voglia di dire basta! Stiamo ai fatti, per carità.

E’ difficile stare alla realtà: appunto, stare ai fatti. Ma è un esercizio necessario. Io credo che i semplici fatti sono questi, che niente su questa terra è eterno. Noi lo sappiamo, certamente lo sappiamo a livello teorico. Ma a volte, nella vita pratica, facciamo finta che non sia vero. 
Così si mostrava, quando la guardavo a dicembre dell’anno scorso
Siamo cioè noi stessi che ci muoviamo come fossimo eterni, che avessimo sempre molto, molto tempo da spendere. Da investire in cose inessenziali, cose transitorie, cose di passaggio. Tempo quasi infinito, per intrattenerci in cose che noi stessi, noi per primi, non reputiamo fondanti, non reputiamo essenziali per la nostra vita. Distrazioni, appunto.
Io avverto invece questo sentimento, quando accadono queste cose. E’ come se suonasse una sveglia, si alzasse un richiamo. Un richiamo potente a tornare all’unica cosa degna, a vivere la tua vita. Non si parla di essere (più o meno) buoni, di essere (più o meno) cattivi. Non è questo, non è il vero punto. Il richiamo è a vivere la tua vita fino in fondo, a viverla cercando il significato. Di questo, si tratta, non di meno.
La cattedrale è un simbolo religioso, certamente. Per questo vorrei ricordare la frase di Luigi Giussani, per me una delle più belle in assoluto:

L’unica condizione per essere sempre e veramente religiosi è vivere sempre intensamente il reale.

Se proprio vogliamo leggerci un messaggio, il messaggio secondo me è questo, il tuo tempo non è eterno. Tutto si muove, vedi, tutto si modifica. In questo tempo non eterno, stai facendo quello per cui sei nato? Stai provando a cercare e realizzare la tua vocazione? 
Che contiene quest’altra domanda, quest’altra fondamentale domanda: ci credi che sei qui per un compito, un compito che nella sua precisa e compiuta definizione, puoi svolgere esattamente te, soltanto te? 
Questo è vivere intensamente, appena questo. Rispondere a questa domanda, dentro di sé, in un senso o nell’altro, attiva delle forze misteriose nell’universo, allinea o disallinea con i campi di forza di quasar lontanissimi. E’ qualcosa che ha a che fare con l’armonia dell’universo, il suo significato operativo, il suo tesoro di bellezza pratica ed esistenziale. 
Bellezza di cui ogni bellezza, inclusa la cattedrale di Notre Dame, è grato riverbero.
Il resto sono piccoli passatempi, cose inessenziali. Cose buone per chi, semmai, potrebbe pensare di vivere un tempo indefinito. 
Se proprio vogliamo vedere un segno, in questo incendio, in questo crollo, allora vediamolo come una spinta a vivere la nostra vita, a diventare noi stessi. A rischiarci in quell’opera unica che è la nostra vita. 
Che è un altro modo di dire, imparare ad amare. Noi stessi, e quindi gli altri. 
Il resto, sono chiacchiere che alla fine stancano.
E di discorsi, ne abbiamo abbastanza, come ci dice un anticlericale come Peguy,

Ce ne han dette tante, o Regina degli apostoli, 
Abbiamo perso il gusto per i discorsi 
Non abbiamo più altari se non i vostri
Non sappiamo nient’altro che una preghiera semplice.

Preghiamo dunque che ci venga donato, ogni giorno, il coraggio di vivere, di amare.

Di vivere davvero. 
Di amare, davvero.

Di cosa altro dovremmo mai occuparci?

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L’avventura della poesia

E’ come avventurarsi in un territorio nuovo. Sempre nuovo, ma segretamente amico. Come scoprire percorsi sottilmente fraterni. Percorrerli è avvertire delle misteriose corrispondenze, attivare delle risonanze che altrimenti resterebbero inespresse.
Tale è l’avventura poetica, nella sua essenza. Credo che la poesia rivesta un ruolo di perpetuo mistero, di splendida ostinata irriducibilità al senso del comune vivere. Chissà. Forse perché viene proprio per illuminare, per rischiarare il comune vivere, e dunque vuole, vuole farlo, deve farlo — necessariamente deve — da una prospettiva diversa.
Riguardo proprio adesso le mie povere poesie, quelle che piano piano sono venute, stanno venendo alla luce dopo la raccolta In pieno volo. E mi accorgo che è in opera lo stesso meccanismo, la stessa officina è attiva, è (ri)aperta. Soprattutto, capisco da dentro che la poesia si nutre di un enorme rispetto verso il potere della parola, vorrei dire, di ogni singola parola.
Lo capisco proprio dalla strategia compositiva. Che non la decido io, non la pianifico io, ma mi viene dettata da qualcosa, dall’esterno. Io di mio ci metto poco o niente. O meglio, ci metto tutto nella decisione di cedere a questo invito, a starci a questa avventura creativa, o a bloccare, a scappare, a defilarsi, a cercare di definirsi altrove, altrimenti.
Ma il guaio è questo, che ogni altra strategia di definizione è appena una pretesa e non è più una resa, è una pretesa celebralistica di costruzione di un diverso piano di riflessione di sé. Come tale, è uno sforzo, non è un riposo. Il riposo è solo nell’adesione ad un compito, nell’acconsentire a sviluppare il seme secondo le sue direttive (che non decidi tu, non decido io), a lasciar esprimere, a farsi da parte.
Scrivere, quando c’è la spinta per scrivere, non è indulgere nel proprio ego. E’ tutto il contrario, semmai: è accettare di farsi piccolo, di farsi attraversare, di farsi strumento. È mettersi a servizio. Bloccare questo, bloccare tutto questo, voler intervenire ad interrompere questo mirabile, misterioso, cosmico dipanarsi, è la pretesa egoica, è lo sforzo volontaristico, l’ideale parossistico di definirsi da sé.
Non c’è bisogno di essere Ungaretti, per scrivere poesie. Non c’è bisogno di essere pubblicati da un grande editore, né da uno meno grande. E’ tutta una cosa interna, una cosa molto più interna. Riguarda la connessione che hai con tutto il resto, riguarda anche un po’ (assai più di un po’) il senso del (tuo) vivere, il senso di essere su questa terra, adesso. Se ti accorgi che non puoi farne a meno, se le provi tutte ma l’impulso di scrivere non ti molla, comunque non ti molla (piuttosto, lui aspetta che tu la smetta di cercare i modi per defilarti, poi ti torna a chiamare)… Ancora, se nello scrivere capisci meglio il mondo, o entri in un mondo che capisci meglio, dove ti trovi meglio, forse è proprio il segno che tu devi scrivere.
E allora il problema non è più quanto sei bravo o sei efficace, il problema non è più quanto riesci a “sfondare” con le tue poesie. Se te le pubblica Mondadori o se girano solo a fascicoli tra i tuoi parenti ed amici. No, queste sono ennesime proiezioni esterne, non riguardano il centro, il tuo centro. Qui sei ancora tu che sei insicuro e vuoi comandare il gioco, vuoi vedere tutto il pacchetto senza iniziare veramente a viverlo, vuoi ragionare e controllare. Non è questo, non è questo il centro.
Il tuo centro è essere onesto riguardo una certa chiamata. I cui esiti mondani non sono assolutamente cosa di cui tu ti debba occupare, anche se innegabilmente le gratificazioni possono aiutare, e anche tanto (nessuno può negarlo).
Le gratificazioni servono, anche perché rassicurano di un cammino preso. Ma non sono prevedibili, calcolabili, programmabili. Io, per dire, l’ultima cosa che pensavo, mentre andavo sistemando le poesie di In pieno volo, chiedendomi se mostrarle ad altri o tenerle per me, è che una professoressa di scuola media se ne sarebbe innamorata tanto da farle leggere in classe, e proporle addirittura nel programma di esame dei suoi ragazzi. Eppure, è successo. Non sono state pubblicate da un grande editore, ma intanto questo è successo. Ed è una bella gratificazione. Dunque anche le gratificazioni non le puoi mettere in conto prima, in alcun modo. E questo è un bene, perché ti svincola da ogni gretto calcolo “costi/benefici” e da ogni ragionamento piccolo borghese tra tempo impiegato e “riuscita” dell’opera.
Ma io oserei dire che la gratificazione più grande la ricavi proprio ed intimamente ed esclusivamente nell’assecondare il flusso, nel lasciar esprimere il senso dell’universo che fluisce nelle cose, nelle persone, in te che scrivi. Finalmente, scrivi.
Scrivere poesie è inerentemente un cammino iniziatico, è qualcosa che non puoi esaminare compiutamente da fuori senza sporcarti le mani, sporcarti le mani con le parole.
E’ qualcosa che non puoi comprendere senza entrarvi dentro, entrarvi dentro con la mente e con il cuore e con il corpo, senza bagnarti di parole con tutto il corpo. Prenderle, lisciarle, gustarle, cambiarle…
Non si tratta tanto di capire qualcosa, ma di vivere qualcosa. Di assecondare una esigenza misteriosa che è profondamente radicata, diciamo pure una chiamata, e mettendo da parte ogni pretesa egoica di verifica e controllo, dire io ci sono, ed entrare nel sentiero di queste parole, di questi versi, non sapendo assolutamente dove potrà condurti.
Ma sapendo solo che il tuo compito è percorrerlo.

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Perché devo scrivere

Non so come mai, ma tendo a girarci intorno. A procrastinare, a evitare l’argomento, anche con me stesso. A trovare mille altre cose che devono essere fatte, comunque fatte, prima di mettersi a scrivere.
A cose che sono più importanti, più urgenti. Più.
Poi magari chi ti pubblica? Il mercato è una cosa complicata, una giungla…
Eppure ormai lo so. Scrivere non è una cosa che si fa per avere un prodotto. O meglio, si fa anche per questo. Ma non è questo, in fondo. Chi sente questo bisogno lo sa.
Questo bisogno che è una elezione ed insieme una specie di condanna, in un certo senso.
Eh sì, perché non sei mai completo, non sei mai a posto, se non scrivi. Se il tuo strato più interno non è rassicurato sapendo che tu stai scrivendo.
Non puoi barare molto, verso lo strato più interno. Verso i ragazzi giù nel basamento, come direbbe Stephen King. Loro, loro lo sanno. Lo sanno se stai adducendo scuse, e non ti mollano. Non ti lasciano in pace.
Puoi provare, certo. Distrarli, per un po’. Alcool, sesso, o qualcosa di più pericoloso. Per ingannare i ragazzi giù nel basamento, insomma. Ma dura poco. Quelli ripartono più furibondi di prima, se non li ascolti. Con conseguenze destabilizzanti sulla tua vita psichica, manco a dirlo (più tu non li ascolti più devono battere forte, è il loro compito: il loro compito è che tu segua il tuo compito).
Del resto, lo sai. Fai finta di non saperlo, ma lo sai.
Bene. Allora dillo.

Scrivere è la tua medicina.

Ecco perché sono pensieri insensati, consigli inopinati, quelli secondo i quali tu prova, se poi tra qualche anno non vieni pubblicato, smetti e fai altro.
Peggio, quelli ci sono già troppi che scrivono, nessuno che legge.
Insensati. Folli. E pericolosi, per di più.
Come dire, prendi questa medicina, è necessaria alla tua sopravvivenza. Poi tra due anni, anche se vedi che ti fa bene, ti fa vivere: beh, di colpo smetti.
Quale medico oserebbe dire una cosa del genere?
Eppure si collega ancora troppo lo scrivere alla sua riuscita mondana. Che è importante, è rassicurante, è bellissima. Peccato che non sia la variabile fondamentale. Quello che decide della tua vita.
Van Gogh non vendeva un quadro, per anni ed anni. Niente, non glieli compravano. Eppure dipingeva come un pazzo, insisteva, insisteva. Aveva qualcosa da dare al mondo, qualcosa che comunque non poteva tenere dentro.

Vincent Van Gogh, Paesaggio da Saint-Rémy, 1889
Non hai deciso tu questo impulso di scrivere. Lo sai bene. Se avessi potuto, ne avresti fatto a meno, preso come sei dallo struggimento per una vita “normale”. 
 Eppure. 
 Eppure c’è. Se c’è è per un motivo. 
Se non lo onori, se ti fai vincere da manie di perfezionismo e dal non sono bravo abbastanza avveleni te stesso e l’universo. 
L’universo se ne frega se tu sei bravo abbastanza — non è compito tuo deciderlo. 
L’universo (diciamo) reagisce se ti muovi lungo il tuo campo di forza o no. Se è deciso che tu devi scrivere, che sei qui apposta, ogni tuo commento in proposito, ogni tua esitazione, è frutto di amor proprio. 
Sei qui per una cosa. Falla.

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Il piacere di scrivere

C’è tutta una letteratura riguardo il modo di farsi pubblicare, le strategie da adottare, quello che bisogna sapere e quello che bisogna fare. Spesso con ottimi prodotti, anche con molti spunti di buon senso, e suggerimenti validi. Ritengo però che vi sia un rischio, in tutto questo, che è quello di sentirsi realizzato solo a valle di una consacrazione da parte di un editore vero e proprio.
Questo, anche se comprensibile, fa a botte con una serie di ragionevoli evidenze. Che ripercorro qui, intanto per mio uso personale.
Innanzitutto. Gli editori sono imprese fatte per trarre profitto, non sono enti benefici che si occupano di mettere in luce chi lo meriterebbe ma per qualche crudele caso del destino, ancora è in ombra. Se non mi pubblicano non vuol dire (necessariamente) che io non sono bravo, vuol dire che loro non pensano di poter trarre abbastanza soldi dal mio lavoro creativo.
Il che ci sta. E’ loro diritto. Io, scrittore, non ho il diritto di lamentarmi. Di gridare al genio incompreso, o peggio, di ammantarmi di questa aurea, indubbiamente romantica, ma anche un po’ patetica.
Perché cela una sottile pretesa, tutto questo. Che gli altri si “debbano” occupare di me. L’unico che si deve veramente occupare di me sono io stesso.
Sì. Devo avere cura della mia vita, delle mie relazioni con gli altri e con me stesso, del senso che sto dando alla mia esistenza, o che gli voglio dare. E’ chiaro. Gli altri non mi devono niente: hanno la loro vita di cui occuparsi, di cui rispondere. Se poi si intreccia con la mia, con mutuo vantaggio: ben venga. Ma è utile dissipare le sottili pretese che a volte si possono insinuare nel rapporto con gli altri, e quindi anche con gli editori.
Dunque nessuno “mi deve” qualcosa, per il semplice fatto che ho scritto.
Per dirla chiaramente: se adesso non mi pubblicano, non vuol dire necessariamente che il mio lavoro non è valido. E ancora. Se anche scrittori ora famosissimi, hanno passato anni ed anni collezionando rifiuti, come posso pretendere io a priori qualcosa di diverso?
Devo dirlo. E’ stato una recente chiacchierata con mia moglie che mi ha aperto gli occhi (le mogli servono anche a questo, ad aprirti gli occhi). Sì, mi stavo lamentando del fatto che un mio progettato volume di racconti, che sembrava — in un primo contatto— potesse essere apprezzato da un buon editore, non aveva avuto ancora riscontri concreti. E sì, avevo già innestato la litanìa dello scrittore incompreso, lo ammetto.
Piccolo e nero, per giunta.

E’ stata lei che con femminile felice intuito, mi ha ricondotto al nucleo della faccenda. E mi ha fatto delicatamente vedere che la mia posizione in questo caso era una posizione malata. Certo: dietro una serie di considerazioni apparentemente sensate, stavo semplicemente e sottilmente pretendendo che gli altri si occupassero di me, nel modo e nelle forme che decidevo io. In altre parole, avevo stabilito un trattamento al quale i miei racconti avrebbero avuto diritto, in forza del loro valore (giudicato da me e poche altre persone, anche se qualificate) e dunque mi stavo lamentando perché non ero trattato nel modo che mi era dovuto.
Ma accidenti, a me non è dovuto proprio niente.
Che liberazione riconoscerlo! Che libertà!
Può essere che siano racconti bellissimi e che per una sfortunata combinazione di eventi non saranno mai pubblicati da una vera casa editrice. Può essere invece che domani mattina mi telefoni il primo editore italiano, che non vede l’ora di pubblicarmi, offrendomi subito una cifra a sette zeri (ma con un numero davanti) per accaparrarsi l’esclusiva del primo libro. Nessuno dei due casi può essere escluso con sicurezza matematica (per quanto il secondo mi appaia un pelo più improbabile).
In ogni caso non cambia la faccenda, nel suo nucleo.
E il suo nucleo è: mi sto appena lamentando (indulgendo dunque in uno sport molto molto praticato), o invece sto facendo il possibile per emergere come scrittore? Che faccio, mi fermo davanti ad una (dieci, mille) difficoltà, o ne prendo spunto per radicarmi in me stesso, riprendere fiducia nei miei obiettivi, purificare la mia vocazione (se la ritengo tale) da fattori esterni? A me la scelta, che è una scelta di ogni momento.
Io non posso controllare gli altri. Nè devo.
Posso solo chiedermi: sto facendo veramente tutto il possibile per seguire il mio sogno? Per onorare la mia vocazione?
Non mi deve interessare altro. Punto.

Anzi no; punto e virgola.

Perché c’è un’altra cosa, un’altra tentazione sotto. Che io aspetti un riconoscimento ufficiale, come un permesso per seguire il mio sogno. Come dire “ecco, vedi, mi pubblicano, quindi finalmente posso scrivere davvero”.

Come se temporeggiassi, ultimamente, nell’attesa di ricevere un permesso da qualcuno.

Eh no. Qui l’unico che mi deve dare il permesso, ancora una volta, sono io stesso.

Scrivere, in sintesi, non è farsi pubblicare (non lo è mai stato, e soprattutto ora, nell’epoca del web che sta cambiando un po’ anche il concetto di editoria tradizionale). Scrivere è una scelta — per chi si sente chiamato — è una decisione personale non legata a nessuna contingenza esterna, è abbracciare un nuovo modo di vedere il mondo e sé stessi, è un intimo assenso ad una istanza irreprimibile radicata nella profondità di sé stessi, è un dire sì alla vita, è cedere.

Ma questo, chiaramente, è un altro discorso.

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Ci leggi qualcosa?

E’ la sera di martedì 26, sono al Meeting. Dopo l’incontro tanto atteso – Davide Rondoni che legge le poesie di Mario Luzi – ancora piacevolmente contaminato dalla bellezza intravista, ascoltata, respirata, raggiungo gli amici al ristorante. Si sono fermati lì a parlare, c’è anche una coppia di tedeschi. Il marito molto gentile si alza per pagarmi da bere, quando arrivo. Qualcuno lo dice, Ma lo sai che Marco scrive poesie? E poi la domanda si gira direttamente a me, la domanda prevedibile, ragionevole, conseguente, Ci fai leggere qualcosa? 

Al di là del momento di imbarazzo (accipicchia: ho appena regalato l’ultima copia che mi ero portato dietro del mio libretto In pieno volo) questo mi fa pensare. Avere qualcosa di proprio, da mostrare, se serve. Avere qualcosa di proprio – soprattutto – da portare con sé. Se uno scrive le poesie è per questo, perché si installino come un ammortizzatore, tra te e il reale. Per levigare gli spigoli, per digerire le circostanze. Dopotutto non è troppo male portarsele appresso, queste poesie.

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Ti leggo qualcosa di mio… 

Photo Credit: pedrosimoes7 via Compfight cc

Ma nemmeno sul telefonino? Insiste l’amico, giustamente. No, veramente… e intanto penso che qualche modo tortuoso pur ci sarebbe: dopotutto le cose stanno su Dropbox, ma dovrei arrivare alla cartella giusta, vedere se riesco ad aprire il file pdf o World dall’iPhone, cercare poi una certa poesia dentro il documento… non certo una cosa immediata. 

Corro il rischio che quando sono finalmente pronto se ne sono già andati tutti (e io perdo anche il passaggio in macchina verso l’albergo, cosa assolutamente disdicevole).

Vabbé: albergo a parte.

C’è qualcosa di più.

Perché in fondo scrivere, cos’è?  E’ cercare di generare quelle parole (e sequenze di parole)  che cerchi, e che non trovi altrove – o non trovi esattamente come cerchi. E quindi averne compagnia, con tutta le imperfezioni possibili, non è troppo sbagliato.

Le poesie soprattutto: quelle ti fanno davvero compagnia, ti lasciano sempre addosso – a rileggerle – un po’ di quel tentativo di dolce interpretazione del reale, che hai messo in atto quando le hai scritte. Così ne puoi spremere sempre un po’ di succo. E ti riscaldi nei passaggi che trovi riusciti, e non puoi evitare una punta di dolore per le parti che a tuo avviso sono ancora, in qualche modo, incompiute. Ma sempre ti coinvolgono.

Oppure può capitare, appunto, di avere una richiesta da soddisfare. E anche questo è onestà: rispondere di come si è. Sei scrittore se scrivi. E se sei scrittore è normale che ti chiedano. Rispondere alla vocazione, accoglierla: in fondo non ci è chiesto che questo. E non serve alcuna coerenza, alcuno sforzo sovrumano.

Serve solo questo, di volersi bene. Almeno un po’.

Perciò ho iniziato a riversare sul mio account Wattpad le mie poesie pubblicate: parto dal libretto “Anni diVersi”, perché è stato pubblicato ormai alcuni anni fa, e mi fa piacere ripercorrere ora quelle poesie, riguardarle e comprendere cosa è cambiato, cosa invece è rimasto come struttura costante immodificabile,  come architettura portante della mia espressività.

Vabbé ma Wattpad cosa c’entra?

Senza andare sul tecnico (che c’è l’altro blog per questo) direi che questo Wattpad – che io ho scoperto da pochissimo, ma lui esiste da tempo – ha qualcosa, ha una fisionomia che mi piace abbastanza. Si può usare facilmente sia dal computer che da un tablet o perfino da un telefonino; c’è l’applicazione gratuita e funziona piuttosto bene, in verità. Riversando i testi su quella piattaforma, potrò disporne ovunque abbia la connessione.

Mi piace anche che ogni composizione si possa votare e commentare. Un pizzico di interattività non fa male. Mi piace che uno possa “seguire” il mio profilo ed essere avvisato ogni volta che aggiungo del materiale (sì, può accadere che uno sia così disturbato da voler fare ciò). Ho riversato su Wattpad anche le mie piccole storie su Giada, che a dire la verità sono ferme da un po’. Non mi dispiacerebbe proprio avere dei suggerimenti, delle indicazioni sui temi attorno a cui sviluppare le prossime puntate. Perché Wattpad, tra l’altro, si presta benissimo ad una pubblicazione periodica di una serie di episodi.

Beh, una cosa per volta. Anche diventare popolare su Wattpad (sì, sì, mi piacerebbe, non posso negarlo) non è cosa di un minuto. Per intanto, sto mettendo riparo al Ci fai leggere qualcosa… Siccome non giro mai senza qualcosa di elettronico appresso (lo so è quasi una patologia, ma ognuno ha le sue, del resto) siete avvisati che – da ora – se chiedete di sentire qualcosa di mio, potrete ascoltarlo davvero… 

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500 parole al giorno

Questo mi piace. Se ne sentono tantissimi di propositi, di esortazioni e proponimenti per il nuovo anno. Tanto che uno non ci fa più attenzione, di solito. Oppure lo fa per un  momento appena è poi se ne dimentica. Presto. Presto lascia stare tutti i vari propositi di cambiamento e riprende la vita solita.

Ecco, la vita solita.

Che poi, intendiamoci, niente vieta che la vita solita sia gratificante, appagante, variegata, variopinta. Però c’è il caso che se tu rimani esclusivamente agganciato a cose pratiche e necessarie, trascurando i tuoi sogni, c’è appunto il caso che qualcosa non vada proprio nel verso giusto.

Temevo come la peste l’arrivo di giorni in cui si sarebbe dovuto andare avanti solo per le bambine e per i conti da pagare e magari per mantenere un modo di vita e un insieme di rapporti e cose pratiche che non sapevo nemmeno più come cavolo fossero iniziati. O meglio, sapevo bene che erano iniziati come una fluttuazioni minimale e periferiche di un entusiasmo comunque sovrastante e sovrabbondante, una positività che ci assicurava in ogni caso un riparo e un rifugio dall’aridità in agguato nelle cose stesse. (Da Il ritorno)

Un cassetto può rimanere chiuso a lungo, a meno che non contenga dei sogni. Allora sei fregato. Allora ad un certo punto ti tocca aprirlo, il cassetto. Altrimenti i sogni vanno a male e i sogni non realizzati, non perseguiti, sono davvero un peso duro da portare.

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Photo Credit: lecates via Compfight cc

Faccio una piccola digressione. Ieri sera ho visto un film insieme a mia moglie, Appuntamento da sogno!, un film leggero ma non stupido. Un film romantico – e ogni tanto (mi) ci vuole. Ad un certo punto ho ascoltato una frase che mi ha così colpito che ho dovuto acchiappare di corsa l’iPad per appuntarmela subito, tanta era la paura di perderla.

Se desideri tanto qualcosa, e non fai tutto quello che è in tuo potere per ottenerlo, in pratica stai prendendo a schiaffi la vita.

Così quando l’altro giorno ho aperto il mail con la newsletter di Jeff Goins pensavo vagamente a qualcosa di quelle che si dicono sempre, per il cambio di anni. Magari detta bene, detta in modo inusuale, convincente: Jeff è bravo in questo. Pensavo di essere in qualche modo preparato, anche (purtroppo) a leggere eventuali esortazioni con sguardo cinico e disincantato. E invece mi ha fregato – sono rimasto davvero spiazzato.

This is the year you become a writer.

Ecco otto parole di fila che mi hanno colpito come poche altre. Hanno svelato cosa volevo, cosa vorrei, cosa cova sotto la cenere, cosa mi fa respirare se non la soffoco, non la comprimo. Hanno indicato cosa volevo dal nuovo anno, e avevo perfino paura di articolare tale domanda, delineare tale desiderio. Questo è l’anno in cui tu diventi uno scrittore. 

E questo avviene in maniera semplice, a piccoli passi, con applicazione costante. Così accetto assai volentieri la sfida che Jeff lancia dalla sue pagine: 500 parole al giorno per tutto il mese di gennaio. Io ci sto. Perché ha ragione lui, ancora una volta:

…what do writers do? They write, of course.

Perché essere uno scrittore non dipende dal fatto che si è pubblicati qui o là, non è una decisione esterna. Non dipende dalle circostanze. Dipende in primo luogo da se stessi, da una azione che non coinvolge che se stessi e solo dopo -semmai – si allarga al mondo: dipende dal fatto semplicissimo di scrivere. Sviluppare l’abitudine di scrivere e mantenerla nei giorni, con tranquillità.

Questo mi piace. Questo mi serve.

A questo, io voglio esserci.

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Lampedusa 3.10.2013

Cosa possiamo fare adesso? Ognuno ha il suo lavoro, ognuno se guarda dentro di sé lo sa bene quello che deve fare.
Quello che ha sempre rimandato, posticipato. 
Quello a cui viene chiamato dal suo cuore. La vita è preziosa, la vita non è casuale.
Non si vive tanto per vivere. La vita ci è data per un compito. Per una vocazione. 

Fosse anche spostarsi dal letto al bagno, poi di nuovo al letto – per una persona malata. Fosse anche “solo” questo. O scrivere il romanzo del millennio, determinare una nuova teoria degli astri. O accogliere la propria depressione, la propria ansia, fare pace con se stessi. Per una volta, amarsi. Smettere di voler essere diversi. Secondo me è uguale, uguale. Accettarlo è tutto, accettarlo è rendere più luminoso l’universo. Il resto sono chiacchiere.

Smettiamo di perdere tempo. Accettiamo noi stessi, assecondiamo la nostra chiamata.
Il lavoro per me è questo. E’ il lavoro di sempre, ma con una urgenza nuova. Lo devo a me stesso, lo devo a tutta quella povera gente che solo pensare siano ora abbracciati dalla Bontà infinita, da Qualcuno che vuole loro bene alla follia e li stringe e li bacia e li accudisce può salvare la mia mente dallo sperdermi nell’angoscia della totale mancanza di senso.
Accettare me stesso, così come sono. Ascoltare il cuore e seguirlo.
Quello che invece non accetto – non vorrei più accettare – è il nichilismo elegante, quello che oggi proprio non sopporto è il nonsenso divertito di tante conversazioni, di tanti giorni. Questa cosa terribile di cui io stesso sono impregnato. No. Davanti a questo devo urlare la vita ha senso, la vita è buona. Proprio perché non capisco. Devo urlare, con la mia povera, povera voce, devo implorare il respiro della vita.

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Niente più concreto, di un mondo segreto

Sono grato a quei film che mi fanno pensare, magari imperfetti, qui e là, ma che mostrano degli squarci di bellezza. Che mi aiutano nel lavoro quotidiano, del cedere all’evidenza del reale, sopra tutti i pensieri e oltre tutte le congetture. Così la visione di Epic – il mondo segreto mi ha inaspettatamente fornito degli spunti preziosi.
Il film è ben fatto. Su una trama di base abbastanza semplice, costruisce una storia interessante e sufficientemente intessuta di sentimenti umani veri da consentire di essere percorsa senza noia, per grandi e piccoli. Così le battute scoppiettanti possono divertire sul momento senza pregiudicare  l’effetto più permanente, il retrogusto piacevole di una riflessione onesta sul reale, senza sovrastrutture ideologiche.
Il logo del film
Credo che uno dei pregi del film sia proprio la plasticità dello schema narrativo, le cui suggestioni sono abbastanza morbide da poter essere accolte ed esaltate in taluni aspetti particolari, a seconda delle inclinazioni di chi guarda. Proprio come farò io, qui di seguito.
C’è una scena in particolare che mi ha colpito. Il cui significato reale è balzato subito alla mia coscienza. E’ quella in cui Bomba, il padre dell’adolescente Mary Katherine (simpaticissima), decide di lasciar perdere il suo sogno. Bomba è uno scienziato un po’ eccentrico che ha dedicato una vita a cercare le prove di una civiltà di persone minuscole, senza averle mai visto direttamente. Dopo la morte della moglie, la mamma di Mary Katherine, vive da solo in una casa in mezzo alla foresta, tutta piena di monitor ed apparecchiature dedicate alla sua ricerca, finora infruttuosa. 
Allora. C’è questa sequenza – che per me è drammatica sia a livello del significato contingente sia in quello del significato più profondo – in cui Bomba si sente forzato dagli avvenimenti – dalla sua interpretazione degli avvenimenti – a prendere una decisione. E si convince a lasciar perdere la sua ricerca. Troncarla, interromperla, bruscamente. Con rabbia.
Bomba sembra vinto. Accetta di normalizzarsi, di diventare uno come tanti. Spegne i monitor uno ad uno. Spegne i sogni, uno aad uno. Decide di non dar loro più ascolto, di non dar loro spazio. Avevano ragione gli altri, avevano ragione tutti. Il sogno l’ha portato lontano, l’ha portato in uno spazio tutto suo, l’ha portato fuori dal mondo…
Fuori dal mondo. Ecco l’obiezione che ci facciamo spesso. Non seguo i miei sogni, lascio che siano lì che mi chiamano, ma non mi volto. Non mi chiedo neanche più perché siano lì che chiamano, che mi implorano ogni giorno, mi supplicano di dar loro attenzione. Mi dimentico del fatto che i momenti in cui sono stato meglio, più contento, più ottimista, sono stati quelli in cui ho seguito i miei sogni, le mie aspirazioni. Ho dato loro fiducia. Non ci penso. Meglio essere concreti, stare con i piedi per terra. La vita è dura, d’altra parte. Non si può sognare sempre, si dice.
Che tragico errore. Quanto male ha fatto e può fare questo errore. 
Perché la verità è all’opposto. La vita è dura se non si sogna. Se non si segue quello che il cuore ci suggerisce. Allora sì che è dura. Perché è dura una vita da cui sfuggiamo il significato. E stare con i piedi per terra è questo, è guardare in alto. E’ seguire una vocazione.
Il film lo dice senza dover spedire troppe parole. Lo dice molto efficacemente. Anzi meglio: lo mostra, questo errore, lo mostra in atto. Ne mette in luce la portata drammatica. Tutto il rischio terribile di rinunciare ai propri sogni, di normalizzarsi e buttare alle ortiche la propria unicità, il motivo per cui siamo al mondo. I monitor che vengono spenti – proprio mentre vengono spenti – trasmettono le immagini della figlia che dalla foresta, proprio nel momento culminante della battaglia tra il bene e il male,  gli chiede disperatamente aiuto. Ma lui non guarda, ha già deciso di rinunciare al sogno. E (curiosa “coincidenza”) già non guarda, non guarda più il reale. Non vede. E’ il dominio totale della mente, del ragionamento che prevale sulla realtà. Le cose succedono ma tu non le vedi più. Pensi troppo e vedi poco.
Diceva Alexis Carrel (anche lui scienziato) che “poca osservazione e molto ragionamento portano all’errore, molta osservazione e poco ragionamento portano alla verità”
E’ la realtà è dove succedono le cose, non la nostra testa. E’ la realtà che è un campo perpetuo di possibilità, come un campo quantistico dove spuntano continuamente particelle ed antiparticelle.  E’ la realtà che ti può sorprendere sempre, in ogni momento. Ecco perché la vita è bella, perché niente è mai “scritto”, perché la sorpresa è sempre possibile.
La scelta è quella di ogni giorno, di ogni momento. Quella fondamentale. Stare alla realtà come ci arriva, stare alle circostanze con cui la realtà ci tocca, oppure violentarla sovrapponendo ad essa un proprio schema, una propria interpretazione. 
L’errore è mostrato, quasi gridato, nel film. Il professore se ne salva per un pelo. E non solo se ne salva, ma accettando di vivere il proprio sogno – e solo così – diventa parte attiva e fondamentale nella dinamica della storia, e nella lotta del bene contro il male (non dico di più per non rovinare la trama a chi volesse vedere il film). Ma la lezione è chiara. Seguire i propri sogni non è egoismo. Seguire i propri sogni è una delle cose più altruistiche che si possono fare. Perché se segui i tuoi sogni ti rimetti in gioco, sei attento al mondo. Sai che fai quello per cui sei stato messo sulla Terra.
Se segui le tua inclinazioni sei attento, aperto, collaborativo. Se ti opponi, sei in lotta con le cose, con la struttura fine della realtà, con la trama dell’universo. Ecco che arrivano il malessere, il senso di vuoto, il peso: indicazioni preziose per correggere la rotta. In un certo senso non c’è niente di più immediato del cedere. Tuttavia la resistenza è forte, perché si tratta di bucare lo strato protettivo e ossessivo dell’ego, per arrivare al sé. Alla consistenza di sé stessi, alle nostre vere aspirazioni. Ad ascoltare la voce dell’Assoluto, che ci ha fatti unici. E ognuno con un compito. Un compito che nessun altro può svolgere.
Certo, ci sarebbe molto altro da dire. Questa – si sarà capito – non è affatto una recensione del film. E’ soltanto un affondo in verticale, che prende spunto quasi integralmente da una sola sequenza. 
Morale: sono entrato in sala con qualche perplessità, ma ne sono uscito contento. Perché alla fine il film mi ha catturato (soprattutto nel secondo tempo), perché le immagini ed anche la musica sono molto belle. 
E soprattutto per questo, perché ho trovato preziosi semini per continuare a riflettere su ciò che mi è più caro. Davvero, niente di più concreto, di un mondo segreto…

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