Blog di Marco Castellani

Categoria: vocazione

Parole in fila (con un’isola)

Così, riconoscersi. Rassicurarsi appena nel mettere due o tre parole in fila. A seguire. Ci sono cose che non puoi smettere di fare, tutti i dubbi non ti fermano. Ti possono rallentare, ma non ti fermano. E’ che semplicemente rifiutando, scappando, non eludi il problema. Ti si ripresenta davanti ogni giorno. Vuoi prendere sul serio questa cosa, oggi? Certo, puoi prenderti in giro, rallentare, andare piano quanto vuoi (l’ho fatto tante volte). Puoi mettere da parte, ma non ti senti veramente a posto. Più passa il tempo e non ti senti a posto. Qualcosa non ti lascia a posto – semplicemente ciò che rimane intorno, tolto quello, non ti appaga più. Non ti riempie.

La paura, la resistenza, non è da sottovalutare. Può essere paura forte, decisiva. Dici, non mi butto perché chissà, sarà per me? Sarò bravo abbastanza? Chi lo dice? Eppure la puoi sorprendere, scoprire. Passare attraverso le paure, può essere la cosa più diverente che c’è. E’ ancora tutta da scoprire, probabilmente. 
Writing nowadays
Writing nowadays, immagine di Starlightworld su Flickr
E’ noto: la cosa più difficile è l’inizio. All’inizio metti due o tre parole in fila, scrivi qualche paragrafo. L’hai fatto perché non potevi evitarlo. Le hai provate tutte per non scrivere, ma alla fine hai dovuto. Ecco. Quando rileggi arriva il colpo decisivo. No, non va bene. E’ zoppicamente, suona male. Pieno di ripetizioni. Non decolla. Certo, c’è questa frase che forse va bene. Forse sì, questa va bene. Però no, complessivamente non va: è evidente.
E quello che è peggio, la cosa che fa più scandalo, non è nemmeno questa. E’ l’idea. Siamo onesti, cosa volevi dire? Qual è il nucleo centrale, quel nucleo pulsante che volevi ricoprire di parole? Volevi esporre al mondo? Ai familiari, agli amici, ai contatti facebook, a tutti? E’ questo il nucleo dell’idea? Sarebbe questo? 
La vocina si fa più insidiosa, fino a darti la mazzata più forte. “Ma se è questo che riesci a scrivere, se l’idea che esprimi è tanto ingenua, non è meglio che lasci perdere?” 
Questo mi ha spesso fermato. Leggevo quello che avevo scritto, e subito dopo aver letto, l’impulso era sempre lo stesso. Volevo scappare. O magar far finta di niente, far finta che non ero io. Che io ero molto meglio, se solo avessi voluto. Il solo fatto che io sapessi di riuscire a scrivere soltanto in “questo modo” era già destabilizzante. Lo scarto tra l’idea indistinta e luminosa nella mente e il risultato sulla carta è stridente. Ma allora, io scrivo così?
Meglio cullarsi nell’idea rassicurante che sarei molto bravo, se solo volessi. Sembra rassicurante, all’inizio. Poi capisci che è la strada verso il disagio. Perché quando scappi il disagio, comunque, arriva.
Il punto è  magari che bisogna fare palestra, ogni passione va coltivata. Più profondamente: nessuna auto(s)valutazione può avere la consistenza adeguata per mettere in dubbio la propria vocazione. E’ semplicemente su un altro piano, è solo un ennesimo tentativo di resistere. Il messaggio positivo è esattamente in senso opposto alla paura,  non devo smettere, devo lavorarci di più. Non bisogna scandalizzarsi della propria imperfezione, dobbiamo appunto lavorarci su, nella pace.
D’altra parte gli ostacoli, le paure vengono per questo. Per verificare se una cosa la vuoi abbastanza, la vuoi davvero. Se la vuoi davvero, probabilmente la cosa la devi fare. Probabilmente è la missione che ti è stata affidata fin dall’eternità dei tempi. 
Certo fa tremare i polsi pensare di avere una missione. Mettersi di fronte alla propria unicità può spaventare. Anzi a volte terrorizza proprio. Non siamo più abituati a pensare che ognuno di noi è unico, straordinario ed irripetibile, in tutta la storia del cosmo. Per troppo tempo hanno provato a convincerci del contrario, e forse abbiamo prestato troppa fede a gente ancor più spaventata di noi. 
Chi ci ha già rinunciato / e ti ride alle spalle / forse è ancora più pazzo di te. 
(Edoardo Bennato, L’isola che non c’è)
Ci vuole un lavoro anche per cedere, per arrendersi. 
Ma se questo deve essere, se questa è la verità, allora sia. 
Che poi uno si accorge che se prende sul serio la propria vocazione, l’universo si adatta, si modifica per aiutarlo… ma questa è un’altra storia. 
O meglio: un’altra parte della stessa, unica, grande storia. La scoperta che ognuno deve fare, che realizzare sè stessi non è affannarsi dietro qualche propria idea di compimento, ma è sostanzialmente una passività. 
E’ cedere al progetto che un Altro ha su di te. 

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Sogno (dunque son desto)

Ecco una parola decisamente interessante. Sogno è quello che si fa quando si dorme, e in questo senso ha il particolare sapore di una cosa quanto mai fatua, brillante forse ma inconsistente, senza vera sostanza. Oh, ma era soltanto un sogno, viene da dire. Poi si sa bene, nei sogni accadono le cose piu strane possibili, non si può mica pretendere abbiano il minimo aggancio con la realtà.
E questa è una cosa. Poi c’è altro. C’è la cosa davvero interessante. Il sogno come espressione di una chiamata, di una vocazione. Siamo fatti tutti in modo diverso, quello che va bene ad uno non va bene all’altro. Non posso decidere cosa fare della mia vita sulla base di quello che fanno i miei amici, mia moglie. Devo decidere cosa fare sulla base dell’ascolto della mia vocazione. Lo ripeto, perché a me ha preso molto tempo e anche sofferenza il capirlo: io – come essere umano – non ho mai veramente il problema di decidere cosa devo fare nella vita. Io ho soltanto il problema di assentire, lasciarmi andare, a quello che è stato deciso per me (che devo leggere anche attraverso le circostanze), oppure resistere. Non fare resistenza vuol dire inserirsi in maniera gentile nel flusso delle cose, e implica necessariamente ascoltare con attenzione i propri sogni, le proprie aspirazioni. Un bel libro al proposito è I sogni dell’anima, di Valerio Albisetti, ma mi ha molto colpito anche il libro (in inglese) Ten Billions of Dreams, di Ralph Marston.

Oil on canvas "Dream Girl."
Ascoltare i propri sogni è un lavoro per la vita…

Torno un momento al punto. Questa è una cosa interessante, per me. Ci sono arrivato relativamente da poco. Prima ritenevo che fossimo come contenitori riempibili da qualsiasi cosa, più o meno. Sulla base di un imprecisato ragionamento, una analisi di costi/benefici, diciamo, uno avrebbe potuto tranquillamente scegliere di cosa occuparsi. Ora molti fatti esterni e interni, diverse letture, mi hanno fatto capire quanto sbagliavo. Grazie al cielo, perché siamo unici e ognuno ha dei sogni da realizzare. La prima cosa allora è crederci. Questo è tutt’altro che immediato perché venire a contatto con la propria unicità universale può far paura. Seguire un sogno è uscire dalla propria zona di conforto, dove ci adagiamo e dalla quale spesso ci lamentiamo di questa e quella situazione, senza agire. Eppure siamo importanti, decisivi nell’intero universo. Siamo il punto focale in cui, in un certo senso, la creazione viene a conoscere se stessa, acquisisce consapevolezza. Attraverso di noi passano le cose che “devono” essere fatte. I romanzi da scrivere, le canzoni da creare, tutto, fino ad ogni lavoro fatto con passione. Chi ci ha creati ha dato un compito ad ognuno di noi, e la cosa importante allora è appena fare spazio. 
Fermarsi ed ascoltare i propri sogni. Intraprendere passi verso la loro realizzazione, senza spaventarsi per quanto tempo ci possa volere, se ci sentiamo inadeguati, se non ci sembra di essere in grado… E’ una rivoluzione possibile e rinnovabile ogni momento. Possono passare anni e anni prima di rientrare in contatto con i propri sogni, ma questi, se sono veri, ti tornano sempre a trovare. Ogni volta che ho chiuso la porta ai miei sogni si è aperta una voragine piena di disagio. Si sono accese tutte le spie lampeggianti rosse, come se dal profondo si diramasse un messaggio di massima allerta, su verso la superficie. Qualcosa in me usava tutti i mezzi a disposizione per scuotermi, farmi tornare in me. Come dire, se non  posso scuoterti con niente ricorro al disagio, sempre meglio questo che tu smarrisca la tua strada.

Riflessioni personali e diverse letture mi danno motivo di ritenere che buona parte del disagio sociale e dello scontento è dovuto al fatto che le persone hanno chiuso la porta ai propri sogni. Magari per tante (apparentemente) “buone” ragioni. Come ho fatto io tante volte. E l’ho pagata, ve lo assicuro. E se serve a farmi tenere la porta aperta alle mie profonde aspirazioni, sono anche assai contento di averla pagata.

E’ curioso, ma qualcosa in me agisce e le cerca tutte per non farmi allontanare dai miei sogni (uno dei quali certamente è scrivere, come sto facendo adesso). Anche a costo di scatenare i peggiori disagi. Devo dare ascolto ai miei sogni, o prima o poi finirò a vivere imbottito di psicofarmaci. E non si bara. Posso scrivere anche cinque parole nei momenti in cui sono più occupato, ma l’anima se ne accorge, se baro o se sto camminando nel mio sogno. In una cosa che non ho deciso io, ma alla quale evidentemente sono stato chiamato.

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Come fare il brodo…

Come ti senti? E’ una domanda che mi hanno fatto su Facebook, pochi giorni fa. Il riferimento è al romanzo appena (auto)pubblicato, Il ritorno. Come ti senti, dopo averlo terminato? Cosa fare dopo? E potrei accostare un’altra domanda, rivoltami oggi di persona. E ora che hai finito il libro? Così il saluto di Teresa, qualche giorno fa, in occasione di un battesimo. Mi raccomando non smettere di scrivere.

Forse è questo. Forse è questa la risposta e il tratto di unione con le altre domande. Mi raccomando non smettere di scrivere. Se ci penso, c’è dentro tutto. Tutto quello che mi serve. E non c’è quello che porta fuori strada. Non dice mi raccomando cerca di farti pubblicare da un grande editore, mi raccomando cerca di sfondare. Non dice questo, no. Dice solo di non smettere. 

Don’t give up.
Questo mi fa pensare ad una frase del bel libro di James Scott Bell Writing Fiction for all you’re worth. E’ sempre troppo presto per smettere.
Così uno potrebbe dirsi, ok, ci siamo tolti questa soddisfazione, ora pensiamo ad altro. No, sarebbe sempre troppo presto. D’altra parte, c’è il fatto che le parole comunque arrivano, in testa. Tendono a strabordare, se contenute. Bisogna arrendersi. Mi devo arrendere al flusso, lasciar fluire.

Sono loro che fanno tutto, le parole.

Devo soltanto accettare di colorarle lasciandole passare attraverso me stesso, lasciandole impregnare di me, dei miei umori. In fondo fare lo scrittore è come fare il brodo. Bisogna lasciar impregnare della propria carne, della propria vita le parole. Che all’inizio sono neutre, come l’acqua. E’ una cosa sulla quale lavorare, così come devo, voglio, lavorare su me stesso (tentativamente) ogni giorno della vita. Lavorare sulle parole e lavorare su di sè. Non sono cose molto distanti, a pensarci bene. E’ più un lavoro che ingloba, comprende, entrambe le cose.

Veggie Brodo in the Afternoon
Fare il brodo è come scrivere (dettagli nel testo)!

Così penso che se uno ha la passione – diciamo – per l’uncinetto, il lavoro su di sè deve comprendere, trattare, affrontare, trasportare, anche questa passione. Siamo mica neutri e uguali, come contenitori che possiamo riempire con qualsiasi cosa si voglia. No, abbiamo una conformazione interna, come una forma nascosta, siamo fatti per seguire certe strade, accogliere certe cose. Ci vuole attenzione e rispetto di sè, per individuare la vocazione e per decidere di seguirla.

Certo che si può essere disattenti a sè e non seguire. Ma non è mai una buona idea. Se non seguo, mi  metto in rotta di collisione con tutto quanto, tutto quanto mi diventa pesante. Mentre accettare di seguire, nonostante tutti i dubbi e le perplessità,  mi libera immediatamente e mi rende intimamente contento e più robusto. Quante volte me lo devo dire. Quante volte me lo devo scrivere…

Perché è semplice, in fondo. Bastano tre parole. Ha ragione Teresa.

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La Pasqua dei sogni

Ogni Pasqua è una ripresa. La Resurrezione è un conforto, per quanto uno si senta stretto oppure anche soffocato nelle contingenze della sua vita, c’è un messaggio che arriva attraverso tutti gli strati opachi. Si può ricominciare. Siccome il bene ha vinto, la positività assoluta della vita ha vinto, nonostante tutto, si può ricominciare.
A me capita questo. Di aver voglia di ricominciare, di seguire un ideale, un progetto, una vocazione, quando si ha questa percezione – anche indistinta, un po’ vaga – che la vita non è vana, che è ultimamente positiva, nonostante tutto. Cioè, che tutto il nonostante non è obiezione di niente. Nonostante il male, nonostante le mie cadute, i miei limiti, c’è Chi mi assicura che il male (mio e di altri) non è tutto. Che si può ridere e sorridere e anche fare le capriole, perché le cose finiscono bene. 
Allora sì che ho voglia di ricominciare. Allora sì che nonostante tutte le contraddizione e le incompiutezze che sento dolorosamente addosso, ho voglia di credere nei miei sogni, di investire energia per realizzarli.
Colors are the smiles of nature :) [Explored]
Disegniamo la vita con i nostri colori… è più bello così
Ecco cosa voglio per Pasqua, cosa auguro a tutti voi. Ricominciare a seguire i propri sogni, fare spazio al silenzio dentro di sé, per sentire a cosa Dio ci chiama, e incamminarci. Occhio e croce, questa mi sembra una vera fonte di soddisfazione, l’unica vera fonte di profonda soddisfazione. Questa mi sembra una maniera per combattere quel fastidioso senso di vuoto. Su questa vale la pena di investire. 
Cavoli, la vita è positiva: seguiamo i nostri sogni. Smettiamo di aver paura di noi stessi: mostriamo i nostri veri colori, sono quelli davvero interessanti. Buona Pasqua.

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Un quadro, del settantatré

Domenica pomeriggio, mettiamo su i quadri. Sono appoggiati in camera da letto da una vita, ormai. Su quel carrello ormai vecchio e rovinato, che dobbiamo buttare. Scomoda, come sistemazione. Anche perché c’è il fatto che se ti alzi di notte per andare in bagno ci puoi sbattere contro (succede, succede…).   A dire la verità, niente come l’iPod Touch – o roba simile –  per muoversi a mò di felino a notte alta con un minimo di luce (se poi non ti riviene sonno, puoi leggere qualcosa o controllare la posta… anche se, chi ti scrive a quell’ora di notte?)
Ma sto divagando…Torniamo ai quadri. E’ incredibile come cambia l’aspetto della casa mettendo due o tre quadri appena. Io e Paola li prendiamo uno alla volta, li puliamo, cerchiamo di capire dove stanno meglio. Ne giro uno, fatto da mio nonno materno (dipingeva per hobby, ma dipingeva bene, secondo me). Vedo la firma e la data. Aldo Poli. Settembre 1973. 

Faccio un rapido conto, e mi colpisce una coincidenza. Mio nonno lo dipinse quando io avevo l’età di Agnese, la nostra bimba più piccola. Quante ne ha viste passare quel quadro! E ancora è lì, ancora svolge la sua funzione. E’ ancora bello. Ancora mi trasporta indietro, mi fa pensare all’infanzia, al nonno. E’ un bel quadro. Ma anche se non lo fosse, sarebbe lo stesso importante, per me. Per la mia famiglia.
Dipingere
Il fatto di creare ha qualcosa dentro, un mistero che non puoi esaurire, comprendere. Spesso ragiono – nel giudicare i miei tentativi letterari-  per categorie semplificate; o una cosa è pienamente riuscita, è un’opera d’arte, diciamo, o non lo è. E se non lo è quasi non si capisce perché uno abbia perso tempo, magari molto tempo, per realizzarla. 
Però questo ragionamento semplificato manca diversi punti. Uno è che creare di per sè è un’attività terapeutica d’eccellenza. Seguendo la spinta interiore a creare capisco meglio il mondo e me stesso, mi muovo verso un equilibrio, affermo la positività ultima del reale (anche se scrivo una tragedia… se sto scrivendo di per sè è come se dicessi vale la pena). Reprimere un impulso a creare non fa mai bene alla salute. A prescindere dal “valore” di quello che riesci a creare. Il secondo punto è che – sappiamo bene – tra il capolavoro e il tentativo da buttare esiste uno spettro larghissimo di possibilità; il mondo è sempre più vario e sorprendente di come riusciamo ad immaginarlo. 
Inoltre dimentichiamo spesso che dietro tantissimo capolavori c’è il lavoro paziente e tenace, ci sono tanti tentativi parzialmente riusciti, che dunque acquistano un loro specifico valore, come può essere la strada che conduce (in un tempo e in un modo non deciso da noi) alla realizzazione di sè.
Assecondare la propria vocazione, mi sembra analogo ad accettare di stare su una strada, di rimanere in un cammino, di cui magari vedi appena pochi metri avanti. Ci sono tante curve, non vedi oltre la prima. A volte ci può essere nebbia. O ti trovi a percorrere una selva oscura, magari. Sei inquieto o triste o insoddisfatto, forse non sai nemmeno perché. Non per questo, devi smettere di camminare: “Guarda che dopo splende il sole; sei dentro l’onda, ma poi sbuchi fuori e c’è il sole” (Luigi Giussani). 
Non per le difficoltà, il tuo diventa meno ragionevole. 

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