Blog di Marco Castellani

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Sì (un mondo in due lettere)

Sì. E’ appena una parola. E’ appena una sillaba. Appena questo. Ogni tanto mi viene da pensarci. Alla forza totalizzante di questa sillaba. Non è un forse, un può darsi, un magari potrei. Niente di questo. Un sì è un sì.
Vengono subito bruciati via tutti i territori intermedi. Solitamente, luogo di inquinanti.
C’è Chi avvertì autorevolmente, già da tempo, sulla pericolosità dei territori in mezzo, avvisando il vostro parlare sia sì sì no no.


Energeticamente, in termini fisici, un Sì è una cannonata. E’ un accordo di frequenze, un rinforzo di energia. Dico Sì, sono con te, vibro alla tua frequenza, assecondo un tuo progetto, una tua idea. Per un vero  la tua idea, il tuo progetto, ora sono anche i miei. La funziona d’onda si allarga, ora ci comprende entrambi. Non si sa più nemmeno da chi sia partita, non è più essenziale. Quello che è essenziale è vibrare insieme nel sì. Nel Sì siamo più uniti, siamo meno distanti, crediamo meno all’illusione di essere distanti.
Per un Sì diventiamo una cosa sola. A volte, un solo corpo.
C’è un Sì che fa piazza pulita dell’esitazione sterile, di voler essere qui ma anche lì, del sentire attrattiva ma anche paura. Un Sì che oltrepassa l’ostacolo della nostra stessa debolezza, un Sì che è più forte della persona che lo dice, che sorpassa, svapora i suoi stessi errori. Un Sì che non è cancellato da ogni errore, da ogni variazione, del momento dopo.
C’è un Sì che immette nel fluire del cosmo, che travalica l’esistenza fisica. La trasfigura, la travalica. La inonda di senso.

Perciò ricordati quello che è stato detto prima: il «sì» a questo punto rallegra la vita. Il «sì» a Gesù ha rallegrato Simone. (Luigi Giussani)

Ci sono immensità di diversi Sì possibili. Costellazioni di universi. Te ne accorgi, lo vedi, lo sai: ogni Sì genera una panoplia di stelle, nel tuo cielo. Non che il Sì sia la tua unica opzione. Anzi. Vive proprio della libertà di fare diversamente, vive del fatto elettrizzante di essere libero. Tu sei libero. Dici Sì ed è meraviglioso perché potrebbe essere diversamente, potresti dire, chessò, potresti aver detto il contrario, dirmi il contrario, dirmi diversamente. Dire no.
Pensare al Sì muove continuamente su diversi stati, su diversi strati, su cose apparentemente lontane, in realtà vicinissime. Un Sì unisce sempre. Un Sì è musicale, intimamente inestricabilmente musicale. La musica è un Sì, l’arte è un Sì. Il più bel nome che è stato scelto per un gruppo musicale, il più bel nome più bello di tutti quelli che ci sono e ci saranno, è esattamente Sì. Se vogliamo, Yes.
Sì è ogni progetto, ogni sogno, ogni seme, non preventivamente smorzato, abbassato a terra, abortito, fermato, interrotto. E’ la dimensione artistica dell’esistenza, il Sì. E’ la parola alla quale approda, dopo un lungo tormentato viaggio, l’Ulisse moderno, l’Ulisse di James Joyce. Il romanzo culmine, riassunto, superamento di tutti i romanzi. In un finale di una bellezza strepitosa, ardimentosa, felicemente impressionante, totalmente commovente, prepotentemente intimamente femminile.

… poi gli chiesi con gli occhi di chiedere ancora / sì allora mi chiese se io volevo / sì dire di sì / mio fior di montagna / e per prima cosa gli misi le braccia intorno / sì e me lo tirai addosso / in modo che mi potesse sentire il petto tutto profumato / sì e il suo cuore batteva come impazzito / e sì dissi / sì voglio / sì.

Il Sì a sé stessi, come si è, esattamente come si è, è il perno focale di ogni cammino spirituale, di ogni vero percorso: quel difficilissimo Sì e sempre più essenziale, sempre più necessario. Un Sì a cui dobbiamo essere educati, sempre di più.
Il Sì non si ferma ad un discorso, non si circoscrive, non si descrive. Sempre rimarrà fuori qualcosa, sì.
Anche da qui. Sì, anche da qui.

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Vi sono parole intorno alle quali si possono dire cose sempre diverse, atteggiamenti e attitudini fondamentali, opzioni essenziali dello spettro delle possibilità umane. Parole cardine, intorno alle quali si possono far risplendere colori in maniera continuamente cangiante. Le parole sono importanti, ci avvertiva un saggio Nanni Moretti già diversi anni fa. Ne scelgo una, apparentemente lontana dal tema che ho scelto, che invece si dimostrerà — spero — essere la via più diretta per entrare davvero in argomento.

Prendiamo la parola umiltà. La si può approcciare in innumerevoli modi. Uno di questi, la cui evidenza mi colpisce continuamente, è che oggi, lo studio dell’uomo e insieme del cosmo, suggerisce proprio un atteggiamento di umiltà, derivante essenzialmente dal riconoscimento — forse mai stato così chiaro — di quante cose non sappiamo.

 

Quanta parte ignota nella conoscenza del cosmo!

Mai il socratico so di non sapere, a pensarci bene, è stato così manifesto, solo che lo si voglia guardare. Bisogna però, appunto, saperlo guardare. Vedere il quadro generale. Ad esempio, davanti al mare di notizie astronomiche che ci arrivano continuamente dai vari media (cosa certamente ottima), di fronte a scoperte così eclatanti come quella recentissima del sistema Trappist-1 con sette pianeti forse abitabili, chi pensa mai al fatto che in realtà più del 95% di tutto l’Universo è composto — secondo le teorie più accreditate — da qualcosa di cui non conosciamo la natura?

 

Energia oscura e materia oscura insieme, nel quadro teorico attuale, rendono conto di quasi tutto l’Universo. Tutto, praticamente tutto. Tranne un misero 4,9%. Che poi è quello che compone la materia che conosciamo, ed è praticamente tutto ciò che sappiamo (in realtà ne sappiamo ancora meno, perché anche di quel 4.9% le cose ancora da capire non sono affatto poche…).

 

Comprendete cosa stiamo scoprendo? Consideriamo che quel piccolissimo 4,9% “visibile” è ciò che costituisce la Terra, il Sole, le stelle, i pianeti vicini e lontani, il nostro corpo, l’acqua che beviamo, il cibo che mangiamo… Quel che, nella vita ordinaria, ci sembra tutto, ed è appena, invece una piccola piccola parte, di un qualcosa di immensamente più esteso, ed invisibile agli occhi. La scienza ci viene a dire che la gran parte di quello che esiste, è qualcosa della quale non possiamo avere esperienza diretta: è in un certo senso fuori dal nostro mondo.

Credo allora che il primo messaggio da trattenere sia questo: quasi tutto quello che esiste, non si vede.

L’armonia nascosta è più potente dell’armonia manifesta, diceva Eraclito, già 2500 anni fa. E sembra proprio che i dati della ricerca cosmologica più recente, non facciano altro che confermare, anche dal punto di vista strettamente scientifico, l’asserzione del noto filosofo.

Tutto ciò che vediamo, ammiriamo… sembra appena una piccolissima parte di ciò che esiste.

Cosa possiamo dire oggi, dal punto di vista astronomico, di questo quasi tutto che è comunque inaccessibile ai nostri sensi? Cosa sappiamo davvero, di energia oscura e materia oscura?

Ebbene, l’energia oscura è un’ipotetica forma di energia non direttamente rilevabile, diffusa omogeneamente nello spazio. Si stima appunto che rappresenti circa il 68% della massa energia dell’universo (parliamo di “massa energia” perché sappiamo che massa ed energia sono in fondo completamente equivalenti, come ci ha insegnato Einstein). L’energia oscura è anche il modo più diffuso fra i cosmologi per spiegare l’espansione accelerata dell’universo, ovvero il fatto che i corpi celesti si allontanano l’uno dall’altro con velocità crescente (grossa sorpresa anche questa, scoperta solo in tempi recenti). Essa costituisce pertanto un’importante componente del cosiddetto “modello standard” della cosmologia basato sul Big Bang. A sua volta il Big Bang è la “storia” scientificamente più accreditata di formazione dell’universo di cui al momento disponiamo. Quella accettata dalla quasi totalità dei ricercatori, come ipotesi più realistica di formazione dell’universo, e quella che spiega meglio di ogni altra, i dati di cui disponiamo. Il nostro universo, secondo questo quadro, è nato circa 13,7 miliardi di anni fa, da un “grande scoppio”, e da allora è in continua fase di espansione.

Questo per quanto riguarda appunto l’energia oscura, così intimamente connessa alle dinamiche di inesausta espansione del nostro universo.

Con materia oscura si definisce invece un’ipotetica componente di materia che non è direttamente osservabile, in quanto, diversamente dalla materia conosciuta, non emette luce e si manifesta unicamente attraverso i suoi effetti gravitazionali. In base a diverse indagini sperimentali e ad una serie di evidenze indirette, si ritiene che la materia oscura costituisca una grande parte, quasi il 27%, della massa energia presente in totale nell’universo.

Ovvero, tirando le somme in maniera un po’ spiccia, ma sostanzialmente corretta: tra energia oscura e materia oscura, se il modello di universo tiene (e molti indizi ci dicono che tiene…), vuol dire una cosa molto importante: vuol dire che è quasi tutto invisibile, per noi.

Qui uno potrebbe pensare, va bene, lo studio del cosmo è peculiare e complicato. D’accordo. Ma che dire dell’uomo? Dell’uomo ormai sappiamo tutto.

E invece non è affatto così.

E la cosa curiosa è che anche qui andiamo a sbattere in percentuali molto simili, anche se meno rigorosamente definite. Leggo infatti dai trattati di psicologia come circa il 95% della nostra mente sia costituita dall’inconscio. Ovvero quel luogo dove avvengono processi psichici inaccessibili al cosiddetto pensiero cosciente, che esorbitano, in altre parole, dal pensiero razionale.

Dunque anche qui la nostra razionalità si deve fermare, si deve arrendere, davanti ad una sostanziale ignoranza. Possiamo certo scandagliare l’inconscio, possiamo speculare sui suoi effetti, ma è un po’ come lanciare una sonda nello spazio: portiamo a casa dei dati preziosi, ma intorno rimane comunque il mistero più profondo. Siamo davanti all’evidenza di una zona non investigabile direttamente, ma che ha effetti decisivi sulla parte conosciuta. E vale, come vedete, tanto per lo “spazio al di fuori” (l’universo) quanto per lo “spazio al di dentro” (la psiche).

Questa straordinaria concordanza si è maturata solo in epoca recentissima, ed è certo significativa dei “tempi estremi” che stiamo vivendo.

Non so voi, ma personalmente questo alone così esteso di ‘non conosciuto’ non mi inquieta per niente, anzi lo trovo quasi rassicurante. Prendere atto di questo stato di cose, lungi dall’essere scoraggiante, implica invece che io non possa mai dire, né come uomo né come ricercatore, la terribile frase è tutto qui? Implica, dunque, la consapevolezza di avere davanti un cammino, un cammino che ci potrà riservare ancora molte sorprese. Un cammino che, io credo, potrà davvero svolgersi soltanto rinnovando la nostra mente, per adeguarci a comprendere ciò che ancora ci è oscuro.

Ed è qui che vorrei innestare una personale considerazione, che riguarda specificamente il modo di guardare a questo nostro limite, a questo nostro gigantesco non sapere. A mio avviso infatti un universo così ampiamente misterioso è intrinsecamente un universo poetico. E’ cioè un universo al quale possiamo approcciarci in maniera soddisfacente, a livello umano, solo se non ci limitiamo ai parametri conoscitivi della scienza, ma ci apriamo ad un ambito più vasto. La scienza, lo abbiamo visto, ci circoscrive a quel piccolo 4.9%. Ed è una informazione straordinaria, precisa, limpida come non mai. D’accordo. Ma come riempire il resto? Di cosa riempirlo?

Non riempirlo, non è una scelta. Non è una opzione. Perché comunque la natura aborre il vuoto, e dunque verrebbe in ogni caso riempito. Da chiacchiere, pensieri, preoccupazioni, se non altro (come spesso avviene). Il nostro cielo è sempre composto, completo. Allora è necessario forse un atto di volontà, di focalizzazione. Decidiamo noi come riempire il cielo, creiamo il cielo da riempire. La scienza si fa da parte, ci lascia campo. Ed è un universo da riempire innanzitutto di senso, e dunque di poesia. La poesia è infatti, potremmo dire, il lavoro di dare un senso ultimo e corroborante all’insieme delle cose, di ricercarlo in modalità intuitiva, non razionalistica. E questo universo chiama ad un atto poetico, perché vuole farsi conoscere più intimamente che soltanto con l’indagine razionale.

E nello stesso tempo, la poesia stessa chiama l’universo, lo vuole a sé. Si stanno cercando, vedete. E’ un rapporto di desiderio, di mutuo desiderio.

Se non ci credete, ascoltate cosa dice Ungaretti, in una della sue “Poesie Sparse”

I Giorni e le Notti suonano / in questi miei nervi d’arpa // Vivo / di questa gioia malata / d’universo / e soffro / per non saperla accendere / nelle mie parole

La gioia del poeta è malata di universo perché vuole la totalità, non si accontenta di niente di meno del tutto. L’universo. Viene a riempire il vuoto che lascia la scienza, e non certo usurpando o calpestando il suo lavoro. Piuttosto, viene a saldarsi alla costruzione scientifica per restituire un sapere più globale all’uomo. Non si tratta infatti di andare contro la scienza, si tratta di ritornare ad un’idea di uomo più completa, che integri il sapere scientifico all’interno della più vasta conoscenza umana.

Ecco allora cos’è l’universo poetico: è lo spazio di conoscenza, in prospettiva, di un uomo che torna completo. Che integra dentro di sé i diversi saperi, ben sapendo che in ultima analisi non sono diversi affatto.

Cosciente della infinita sproporzione tra me ed Ungaretti (poeta che ammiro visceralmente) così provo anche io a dire nella poesia “Multiversi”, della raccolta “In pieno volo”:

Guardo intanto / la poesia più nostra // La modulazione flebile / di onde elastiche tese / rese trasparenti dal sole / e l’ombra. // Che si succedono intime / negli immensi spazi interni. // Dove aspetti me / è dove io ti aspetto / a balbettare l’idea pazza di compimento / di là di ogni ombra, ogni male. // Così le campane suonano — adesso — che impudica inarchi / la pazienza non detta / portata a pelle come diadema. / L’unico ornamento del resto // più bello ed essenziale / di te, nuda. // L’unico profumo più soave / del tuo stesso odore. // Ed ogni tuo piegarsi / è mostrare, invitare: / creare tempo e spazio. // Perciò lo vedo / Tra chi non si mischia di poesia e chi si imbratta invece / — camminando a filo tra ridicolo e sublime — / piovono grappoli di orizzonti, miriadi di universi. // Come tra un “no” e un “così sia” / tale è distanza / che l’infinito stesso è poca cosa.

Perché so che sono appena all’inizio del viaggio di scoperta (del cosmo e di me stesso), ogni atteggiamento più o meno arrogante sarebbe decisamente fuori luogo. Come sarebbe fuori luogo ogni tentazione di razionalismo che limitasse il reale al razionalmente conoscibile (“Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie — oracolo del Signore”, Is. 55,8). Molto meglio sarebbe arrendersi, ammettere che vi sono realtà che superano infinitamente la mia comprensione.

E la attitudine più giusta tornerebbe dunque ad essere l’umiltà, la coscienza tenera e liberante delle proprie capacità e dei propri limiti.

(Testo del mio intervento su invito presso l’associazione Frascati Poesia, svolto in data 6 marzo 2017, ripubblicato dal blog AltraScienza.it)

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A colazione da Alessandra

E’ questione di cortesia elementare, potremmo dire. Un invito a colazione non si rifiuta senza valide ragione. Per di più se chi ti invita è una persona che ti piace frequentare, con cui ti trovi a tuo agio, con la quale puoi finalmente parlare di cose significative, abbandonando  – una volta tanto – i discorsi di superficie, quelli tristemente riempitivi, fatti appena per scongiurare il silenzio, per evitare (chissà poi perché) di cascarci dentro…

Per quanto ci siamo visti ancora (troppo!) poco, Alessandra Angelucci è una persona che sento amica e vicina nella mia ricerca “di senso”. E’ dunque con grande piacere che ho accolto l’invito alla sua colazione radiofonica, che si terrà questa settimana, giovedì 17 dicembre alle 10 prossimamente sulle frequente di Radio Giulianova, e poi anche in streaming.

Appena due parole su Alessandra. Giornalista, è critico d’arte per il quotidiano di Teramo «La Città», e per le riviste «Exibart» e «Contemporart». In passato ha diretto il mensile d’informazione «Lo Strillone» ed è stata conduttrice per l’emittente TV6. Nel 2012 ha pubblicato la raccolta di poesie Mi avevi chiesto di fermarmi qui (Duende Edizioni, Premio Roccamorice). Oltre a numerosi cataloghi, ha curato il volume di Fathi Hassan Un africano caduto dal cielo, apparso nella collana Fili d’erba che dirige per la casa editrice Di Felice. Ha curato mostre sia in Italia che all’estero. Collabora con la Fondazione Malvina Menegaz per le Arti e le Culture di Castelbasso. Per l’emittente radiofonica Radio G di Giulianova cura la rubrica d’arte Colazione da Alessandra. E’ la curatrice della mostra “CORDIS, del cuore” di Alice (Palazzo Pardi di Colonnella, provincia di Teramo, fino al 6 gennaio 2016). Collabora inoltre con il sottoscritto alla pagina Facebook di arte e letteratura Il ritorno.

Propongo pertanto assai volentieri il testo che Alessandra stessa ha diffuso via Facebook, per annunciare la nostra “colazione”. Colazione che, oltretutto, ho l’onore di condividere con un artista quale Gian Ruggero Manzoni (in maniera alquanto immodesta, devo dire che sono assai onorato per l’accostamento), e con la giornalista Azzura Marcozzi.

Vi lascio dunque alle parole di Alessandra, aspettando di poter… aggiungere le mie. A colazione, s’intende!

Cari amici di “Colazione da Alessandra” sono felice di annunciarvi i nomi dei prossimi protagonisti della rubrica d’arte che ho il piacere di curare su Radio G Giulianova: GIAN RUGGERO MANZONI, pittore e teorico d’arte, drammaturgo e performer; MARCO CASTELLANI, ricercatore astronomo presso l’Osservatorio Astronomico di Roma dell’INAF, autore, fra i tanti libri, della silloge poetica “In pieno volo” e del romanzo “Il Ritorno”, di recente pubblicazione. Con me in studio la giornalista Azzurra Marcozzi. 
Appuntamento giovedì 17 dicembre, da definirsi per l’inizio del prossimo anno (vi farò sapere), ore 10, Radio G. Replica ore 15.30: frequenze 90.70 oppure 100.20; anche su streaming www.radiogiulianova.net.
GIAN RUGGERO MANZONI è nato nel 1957 a San Lorenzo di Lugo (RA), dove tuttora risiede. È poeta, narratore, pittore, teorico d’arte, drammaturgo, performer. Ha pubblicato, fra le tante case editrici, con Feltrinelli, Il Saggiatore, Scheiwiller, Sansoni, Skirà-Rizzoli. La sua formazione di pittore è avvenuta in Italia a fianco degli esponenti della Transavanguardia; in Germania, a Monaco di Baviera e a Berlino, negli ambienti del neoespressionismo e della neofigurazione tedeschi, in Inghilterra vicino ai graffitisti e fumettisti della Generazione X. Insegna Storia dell’Arte presso l’Accademia di Belle Arti di Urbino dal 1990 al 1995. Partecipa ai lavori della Biennale di Venezia negli anni 1984 e 1986, edizioni dirette da Maurizio Calvesi. Ha al suo attivo oltre 50 pubblicazioni e 70 mostre pittoriche. Ama abitare in provincia e, come di solito dice, “dell’uomo di provincia possiede tutti i difetti, ma anche tutti i pregi”.
MARCO CASTELLANI è un ricercatore astronomo e lavora presso l’Osservatorio Astronomico di Roma dell’INAF (Istituto Nazionale di Astrofisica). Si occupa di evoluzione stellare e fa parte del team scientifico del satellite GAIA dell’ESA, nel quale svolge l’attività di ricerca di algoritmi per ricostruire i profili stellari restituiti dal satellite con la massima accuratezza possibile. Ha al suo attivo più di 60 pubblicazioni scientifiche, di cui circa la metà su riviste con referee internazionale. Ha aperto diversi anni fa il blog di divulgazione scientifica GruppoLocale.it (listato nella pagina istituzionale Media INAF) e il blog SegnaleRumore.it per esplorare come la tecnica si rapporta al nucleo più autenticamente umano palpitante in ognuno di noi. E’ stato scelto questa estate per tenere un corso di astrofisica a un gruppo di selezionati studenti universitari a bordo di “Mediterranea”. Marco ama molto scrivere, sia racconti e poesie, sia considerazioni “di cammino” che pubblica sul suo blog personale (cioè questo, ndr). Tra le sue pubblicazioni recenti ricordiamo il romanzo “Il ritorno, le raccolte di poesia “In pieno volo” e “Per prima è l’attesa”. Attualmente sta lavorando su libri a carattere scientifico divulgativo, di prossima uscita, e sta preparando un libro di racconti per ragazzi a sfondo scientifico, di cui alcuni sono stati anticipati con ottimi risultati ai ragazzi di una scuole nazionale. E’ sposato dal 1991, ha quattro figli.

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Ripartire dalle emozioni

Sogno un mondo dove
arte e scienza
non sono nemiche o
indifferenti
un mondo dove la poesia
è compagna della fisica
e dell’astronomia
e la biologia e l’arte
vanno a braccetto
e ogni cultura ogni
curiosità e voglia
di sapere 
e di sapersi
è di nuovo unica
di nuovo unita
e pacificata
e l’uomo
è al centro –
le sue emozioni
sono al centro
sono il fulcro
il punto focale
la base e sempre
il ritorno.
Sogno di dedicare
la vita a questo
di vivere
da ora in poi
di vivere
per questo.



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Fare più arte

C’e proprio poco da fare, nei diagrammi a blocchi. Sei abbastanza vincolato, una volta che imbocchi una strada devi percorrerla valutando logicamente le varie domande, regolandoti di conseguenza. Lo vedi bene se sei un po’ in mezzo alla faccenda dei linguaggi di programmazione, ad esempio. Lì spesso la prima cosa da fare, prima di scrivere anche solo una riga di codice (insegnano) è quella di stendere un diagrammi a blocchi.

E questo aiuta. Eh sì, perché la mente tende ad utilizzare un approggio fin troppo analogico, vagando da una all’altra possibilità, inventandosi stadi intermedi, possibilità di decisioni ibride, di non decisioni. La mente è specializzata nel ragionamento dove si spalmano insieme tutte le varie ipotesi; spazia in uno stadio di soluzioni intermedie dove a volte la catena virtuosa che dall’evidenza di uno stato di fatto porta ad una azione, viene drammaticamente depotenziata.

Così anche nell’ambito dell’arte, questo non è certamente meno vero. C’è il rischio di rimanere impastati a dar credito a quella insidiosa vocina che ti dice ma lascia perdere, ma cosa vuoi scrivere tu, proprio tu… (chi conosce la trasmissione radiofonica 610 con Lillo e Greg, potrà ricordare il riuscitissimo schetch del demotivatore, al proposito).

Tutto questo per dire che quando ho visto il diagramma pubblicato da Jeff Goins, nella sua splendida semplicità, mi sono sentito immediatamente colpito. Ho sentito che smascherava tante (mie) strategie procrastinatorie, tanti collaudati apparati generativi di scuse e pretesti.

Non c’è ragione per non fare più arte, ecco il messaggio rivoluzionario (perché non bisogna essere così originali per riconoscere che l’arte è comunque rivoluzionaria, combatte una efficacissima battaglia contro le consuetudini e la vita di superficie, così cara ad ogni potere, di ogni tipo e natura).

MakeMoreArt

Sei un artista se produci arte, a prescindere dalla valutazione che ne puoi dare. Chi è uno scrittore? Uno che vende libri? Che guadagna dalla scrittura? No, è uno che scrive. Semplice. Ma essenziale.

E se non trovo alcun errore logico, devo convenire che la risposta è solo una: fai più arte.

Sii più rivoluzionario. Sii un artista. 

Troppo bello per essere vero? No, affatto. Piuttosto, tanto bello che non può che essere vero.

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Scienza ed arte sono due formidabili strumenti conoscitivi, con i quali l’uomo esplora l’universo ed esplora anche le profondità di se stesso. Non è una novità ma è bene ogni tanto riflettere su quanto questi differenti metodi di indagine si muovano (in qualche modo) lungo una di medesima linea guida temporale Palesando, a volte, sorprendenti analogie tra i due ambiti, a prima impressione così diversi.

Un momento. Abbiamo esagerato, forse? Cosa ha a che vedere l’osservazione del mondo, che pensiamo governata da rigorose regole oggettive, con l’estro e la creatività dell’artista, che in forza della sua genialità, del suo talento, si erge libero da condizionamenti esterni e pronto per sondare gli ineffabili abissi del proprio personale sentire?

A prima vista sembrerebbe lecito poter dire che scienza ed arte procedano su due binari diversi. Certo, ci possono essere delle suggestioni e degli incroci. Nessuno lo nega. Ma in fin dei conti la realtà è questa, ed è che queste discipline viaggiano separate, ognuna nel suo mondo.

Si potrebbe dire così. Quanti di noi si sentirebbero di condividere questa idea? Credo molti.

Eppure. Eppure c’è qualcosa di più, probabilmente. Vi sono delle configurazioni, dei pattern, delle strutture di base, che curiosamente si ripresentano quasi immutate, nel tempo, attraversando le rispettive discipline. Azzardo… Dei modi di vedere il reale che abbiamo maturato, come uomini e donne, e possiamo dunque finalmente rilevare noi stessi all’esterno (e all’interno di noi). Un po’ come se avessimo messo a punto un dato strumento e finalmente possiamo raccogliere i dati che questo ci consente di osservare: quei dati che prima rimanevano a noi celati.

Certe strutture, architetture di pensiero si ritrovano come evidenze trasversali e quando si trovano uno – non può che rimanerne colpito. Considerate questa figura (un “furto” dal lavoro della collega ed amica Giorgia Busso)

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Ora consideratela di nuovo, messa accanto ad un’altra, ben più conosciuta…

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Non trovate una serie di sorprendenti rassomiglianze? Cioè, in altre parole, non trovate che sono come la declinazione di una medesima idea, l’estrinsecazione di una medesima maturità percettiva?

Ebbene, la prima è un diagramma di lavoro (in verità, nasce addirittura da uno errore in un codice) ottenuto nel corso di una indagine scientifica, la seconda è il ben più famoso dipinto di Paul Klee chiamato Polifonia (1932).

Non ci sono altre parole. Io rimango incantato ad osservare le similitudini di due immagini ottenute in modi e contesti apparentemente così differenti. Che ne pensate? Solo suggestione occasionale, o c’è davvero qualcosa sotto, c’è qualcosa che lega di profondo che lega queste due immagini?

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L’arte moderna di Hubble

In qualche modo la scienza e l’arte seguono percorsi simili, vanno a svelare scenari corrispondenti, procedono paralleli ma con frequenti incroci. Potremmo dire che vanno a svelare regioni via via più complesse, a mano a mano che la nostra capacità di digerire fatti più fini e articolati si fa  più raffinata.

C’è poi il fatto, universalmente noto, per cui la scienza procede per errori. Sia dal punto di vista teorico (tante teorie vengono avanzate e poi si devono abbandonare, perché non “resistono” al confronto puntuale con i fatti empirici) sia specificamente osservativo (errori negli strumenti e nelle tecniche di misura sono all’ordine del giorno, per chi fa questo mestiere).

Ebbene, a volte ho l’impressione che scienza ed arte procedano a braccetto sempre e comunque, anche quando… inciampano.

ArteModerHubble

Crediti: ESA/NASA Ringraziamenti: A. Sarajedini (University of Florida) and Judy Schmidt.

Questo che vediamo, e che potrebbe figurare dignitosamente in una qualsiasi galleria di arte moderna, è in realtà un prodotto di Hubble ottenuto “per sbaglio”. E’ interessante andare a capire meglio cos’è perché ci apre anche una finestra su come lavora il telescopio spaziale più famoso al mondo (sbagliando si impara, possiamo ben dire).

La stabilità di una piattaforma spaziale è determinante,  lo sappiamo bene. Soprattutto se deve misurare stelle e galassie con la massima accuratezza possibile.  Hubble utilizza un sistema di guida tutto particolare per assicurare la stabilità delle osservazioni: si chiama Fine Guidance System (FGS in breve). Senza scendere troppo nel dettaglio, ci basti sapere che coinvolge un set di giroscopi dedicato, che misura continuamente l’assetto del telescopio, a sua volta corretto in tempo reale da una serie di attuatori. Come orientazione di riferimento, necessaria per alcuni problemi a cui sono soggetti i giroscopi, Hubble sceglie di guardare ad un punto fisso dello spazio, che è definito da una stella di riferimento (guide star).

In questo caso, è probabile che Hubble abbia agganciato…  la stella di riferimento sbagliata, magari una stella doppia o una binaria (pessima scelta, per un riferimento preciso in posizione). Ciò ha comportato un errore insanabile nel sistema di tracciamento, che di converso ha comportato la creazione di questa deliziosa immagine di luci stellari colorate. Ecco svelato l’arcano: sono stelle, o meglio scie stellari, create da un “inseguimento” errato (per cui la stella non occupa più lo stesso punto nel rilevatore, ma forma appunto una scia).  A quanto risulta, le tracce rosse provengono da stelle dell’ ammasso globulare NGC 288.

Onore al merito ad Hubble. Anche quando sbaglia, ci regala sempre immagini interessanti…!

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Posso grattarvi la schiena?

Oggi è stata la volta di And I’ll Scratch Yours. Che sarebbe, insomma, Vi gratterò la schiena. Ultimo disco di Peter Gabriel, appena uscito.
Cioè.
Come mi faceva notare mio figlio, non è proprio un disco di Peter Gabriel. Il fatto è questo: lui se ne esce con una serie di canzoni nelle quali… non avrebbe proprio fatto nulla! Niente altro che raccogliere e selezionare delle cover per i suoi brani più famosi. Non è da tutti uscire con un album… senza dover avere la preoccupazioni di scrivere una nota.
“Inquietante” fin dalla copertina… 😉
Così anche sul web leggo commenti di gente (giustamente?) un po’ indignata, del resto come accadeva con la prima parte del progetto, quell’iniziale Scratch my Back, quella sbarazzina proposta Grattami la Schiena in cui Peter si esercitava in cover di altri artisti. Gente che diceva e dice (giustamente?) ma quand’è che ti metti a fare nuove canzoni, Peter?
Diciamolo subito. Per me Peter Gabriel è uno che la musica la sa scrivere. E la sa scrivere molto bene. E soprattutto, scrive quella musica che io voglio ascoltare (il resto della musica non mi interessa). E’ uno che mi riesce ad inviare dei segnali davanti ai quali posso andare oltre la semplice percezione estetica di un bello: sono segnali che il mio cuore riconosce e interpreta come particolarmente appropriati e favorevoli a quella comprensione (direi) metafisica del cosmo così sfuggente a parole, così esulante da ogni articolazione verbale, e tuttavia così necessaria. Insomma, il potere dell’arte, possiamo dire. Quelle cose per cui uno – non si sa come – si sente più amico del mondo e di se stesso.
Con tutto ciò ero perplesso anch’io. Ennesima operazione commerciale? Furba trovata di un artista che vive della sua pur meritata fama senza però proporre qualcosa di suo?
L’ascolto dei preview in iTunes mi ha comunque convinto ad acquistarlo. C’era qualcosa… Stamattina l’ho portato alla prova del fuoco, l’ho fatto fluire negli auricolari dell’iPhone mentre correvo al parco. E mi sono deciso. Io amo questo disco. 
Intanto vi sono artisti del calibro di David Birne, Brian Eno, Lou Red, Paul Simon. Ma fosse solo questo, non sarebbe ancora abbastanza. 

La prima impressione è di sorpresa. Le canzoni sono molto diverse dall’originale, sono tutte molto ripensate. Eppure si sente una sorta di rispetto, non sono stravolte. Solo, assumono come un altro colore, risuonano secondo altri rapporti, altre suggestioni. Così pensavo, Peter è come i Beatles (affermazione importante, della quale mi assumo la responsabilità). In qualsiasi salsa lo presenti, è sempre bello. Ne evinco una cosa: il nucleo pulsante, il centro di interesse, è nascosto nella parte più intima della musica, non nell’arrangiamento. Come tale, viene preservato dalle nuove interpretazioni. Brilla, e continua a brillare.
Anzi queste nuove interpretazioni mi destano nuovo interesse. Come se lo stesso nucleo pulsante, illuminato da una luce nuova, potesse finalmente mostrare aspetti diversi, esporre zone finora rimaste in ombra. Facendomi capire che c’è di più, c’è più sugo da estrarre di quanto si poteva pensare nell’ascolto dell’originale.
Come sempre, è correndo che riesco ad ascoltare la musica con maggiore attenzione. Sospetto che sia per quello, che mettendo l’ego da parte – distraendolo con la fatica – io sia libero di attingere con più apertura ad ogni proposta artistica.
C’è come una dominante, nel disco. Mi sembra straordinariamente unitario, come clima musicale, considerato il fatto che è stato realizzato da artisti diversi. I suoni degli strumenti mi arrivano spesso come sgraziati, impastati nei rumori – eppure parlano, parlano di più che se fossero lisci e smussati. Mi fa pensare a com’è la pasta casareccia. E’ ruvida e imperfetta al tatto, ma raccoglie più sugo.
Poi c’è questo. Che dobbiamo entrare nel merito. Lo sappiamo: le canzoni di Peter parlano spesso di una disarmonia, di una distanza, di una estraneità. Come se molte volte dica, beh ragazzi qui c’è qualcosa che non va (perdonate la drastica semplificazione). E il suono di queste canzoni aderisce a questo, fino dalla scelta timbrica. Così ogni aspetto è in relazione all’altro.
Però è quel tipo di attitudine che invece di gravarmi addosso, mi libera. Come uno che abbia l’onestà di dire il suo imbarazzo nella percezione del mondo e dell’uomo così come ce la restituisce l’evo attuale – e fa quello che un artista deve fare: lo esprime.
Ed è per me più liberante più di un disco perfettamente impacchettato e superficialmente sereno (proiezione perfetta dei discorsi da nichilismo divertito di cui parlavo nel post su Lampedusa). Perché pesca nell’ambito delle cose ultime, le più importanti: musica bruckneriana, direi. Non cerca di di-vertirmi, di farmi evadere da me stesso. 
Così è il mistero dell’arte, la vera arte. Il disagio, l’estraneità, la stessa disperazione, vengono innervate di senso e restituite perché noi le si possa meglio elaborare. Consapevoli che ogni percorso di liberazione personale richiede un lavoro, una discesa verso il basso, una accettazione di ogni parte d’ombra.
E l’arte può essere funzionale a questo lavoro. Anzi, la vera arte, lo è sempre stata.

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