Subito e sempre, all’opera

Lo scriveva già Luigi Giussani negli anni Ottanta, nel celebre testo Il senso religioso (forse uno dei suoi testi più moderni, ancora leggibilissimo adesso):

L’atteggiamento scientifico – nel senso proprio del termine – già sappiamo che non potrà esaurire l’attenzione all’esperienza. Proprio per “esperienza” viviamo moduli e fenomeni che non si riducono all’ambito fisico-chimico.

C’è infatti un’idea di scienza, quel senso proprio appunto, che ormai avvertiamo subito come parziale. Perché appunto, non esaurisce l’attenzione all’esperienza. Da questa attenzione, credo, bisogna ripartire per recuperare l’umano, che è l’unica cosa che ancora – in questo clima pazzesco di distruzione e devastazione, in questo teatro di guerra planetaria – davvero l’unica cosa che ci può ancora interessare.

Ma attenzione. Qui l’unione di Terra e Cielo deve subito entrare in gioco, per non ricadere in ennesime parzialità. Qui la cosmologia interiore e quella esteriore devono unirsi, anzi si rende necessario intraprendere un percorso, dalla prima alla seconda (e ritorno). Attivare, riattivare, questo salutare ricircolo.

Perché tutta questa crudeltà planetaria che i telegiornali ci portano in casa ogni sera (nociva anche a subirla, tanto che sarebbe meglio spegnere e fare meditazione), si nutre del vecchio modello riduzionistico, e cresce sulla dimenticanza di Sè, della propria regalità.

Dice la pagina del convegno Scienza e Spiritualità – dalla quale già sto attingendo alcuni spunti – che si è appena tenuto a Prato, nella bella cornice del Monastero San Leonardo al Palco

Chiacchere e approfondimenti, nella pausa caffè…

L’essere umano, con i piedi ben piantati a terra, ha sempre alzato gli occhi verso il cielo, sia alla ricerca dei confini fisici dell’universo, sia alla ricerca di dimensioni altre. Ma qual è l’attuale visione scientifica del cosmo, dell’uomo e delle relazioni, anche simboliche, tra questi due universi? E quanto ci stiamo dimenticando di essere ponte tra Terra e Cielo, tra infinitamente piccolo e infinitamente grande?

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Un aperitivo… spaziale!

Per chi si trova in zona di Roma e avesse voglia di passare un mercoledì sera un poco diverso dal solito, vi aspetto presso la merenderia Meré (via Ridolfino Venuti 47) il 19 giugno dalle 19.30, per parlare di telescopi spaziali, puntini blu (indovinate…) ed oggetti lontanissimi (spoiler, le sonde Voyager).

Ma soprattutto, di come avesse ragione Alan Sorrenti il quale – nonostante qualche purista non gli riesca a perdonare di avere abbandonato la sperimentazione di Come un vecchio incensiere all’alba di un villaggio deserto – nella sua svolta easy pop, verso la fine degli anni Settanta enuncia (non ci è dato sapere se in maniera consapevole o meno) clamorose verità astronomiche nel testo del brano Figli delle Stelle.

Quindi sarà possibile ascoltare un astronomo che spiega queste cose (il sottoscritto, come potete immaginare) mentre – valore aggiunto di indubbio interesse – si potrà sorseggiare un aperitivo e mangiare qualcosa di contorno. Per informazioni e prenotazioni, potete contattare gli amici di Meré al numero riportato sul sito, o tramite Facebook ed Instagram.

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Il cosmo e la poesia (III)

Nel numero scorso, abbiamo sospeso la nostra riflessione su cosmo e poesia alludendo a quel mistero, che la poesia custodisce e difende. Credo valga la pena ripartire proprio da qui, perché è uno dei luoghi privilegiati dove poesia e studio del cosmo si possono davvero incontrare.

La parte di non essere è usualmente più libera, meno ingombrata, meno carica di pregiudizi e posizioni prese. Il vuoto del resto – la fisica moderna ce lo insegna – è tutt’altro che una zona morta, ma a guardarci bene è un pullulare di vita incredibile, un continuo zampillare di particelle che poi si annichilano rapidamente solo per riformarne altre, continuamente diverse, con mirabile abbondanza e ricchezza d’invenzione. Insomma, il vuoto quantistico è tutt’altro che vuoto, anzi è proprio il modo di intendere il vuoto una delle cose che più distingue la fisica moderna da quella classica. Da come guardi una mancanza, si capisce come guardi tutto, potremmo dire.

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Liberazione

Mai come in questi giorni è una parola importante. Ma se ci giro intorno riesco difficilmente a capire, ad entrarci dentro. A vederla in un modo definito, univoco. Mi rimanda molti significati, piuttosto.

Liberazione dall’invasore, come si celebra giustamente oggi. Ma chi è l’invasore? Soltanto un invasore esterno? Solo di lui mi devo preoccupare? Certo non è poco e non c’è da minimizzare, in alcun modo. Un’invasione che avviene nella storia è portatrice sempre di brutalità indicibili. Domandare pace sembra utopico a molti, eppure è l’unica strada. Papa Francesco lo dice, praticamente inascoltato dai media:

Per favore, per favore: non abituiamoci alla guerra, impegniamoci tutti a chiedere a gran voce la pace, dai balconi e per le strade! Pace!

Ed è giusto celebrare oggi la liberazione dal nazifascismo, avvenuta nel 1945. Ciò detto, voglio andare oltre. Ci sono altre invasioni di cui mi dovrei preoccupare? Questo porta alla domanda più sottile, cosa è una invasione? Mi invade chi entra nel mio spazio – fisico o di attenzione – senza il mio permesso, senza il mio consenso. Entra per fare come a casa sua, decidere di me, del mio corpo, della mia mente, secondo i suoi interessi. Non è una relazione con me, non c’è dialogo paritario, non c’è scambio sottile di esperienza. C’è prevaricazione, offesa, sfregio. Chi mi invade non vuole conoscermi, percepirmi come individuo, diverso da tutti gli altri. No, lui vuole sopraffarmi.

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Di tutte le impressioni…

Parto da questo flashback. Sole, molto molto sole. Caldo. Estate piena. Sono al mare. A conti fatti, credo sia il 1982. Campeggio sulla Feniglia. Sto ciabattando intorno all’ingresso (forse vengo dalla spiaggia, o ci sto andando), sabbia, macchine parcheggiate, afa. Da qualche altoparlante esce la musica di Franco Battiato. Chi è costui? Fino a qualche mese fa nessuno ne sapeva niente, nessuno lo conosceva. E quest’estate ecco, è esploso. Non si ascolta altro.

Ricordo bene questa impressione. Dappertutto passano quasi solo le canzoni di questo album. La voce del padrone. Io ragazzo quasi ventenne, ripenso ai dischi con il cagnolino seduto davanti al grammofono. Papà o mamma mi avevano spiegato l’arcano, la riproduzione del disco è così fedele che il cane riconosce appunto, la voce del padrone. Avevamo anche dei 78 giri, a casa. Oggi farebbe sorridere il pensiero che il cane possa cogliere alcuna differenza tra lavoce reale e quella riprodotta: non ci riusciamo più nemmeno noi.

Il famoso cagnolino della casa discografica La voce del padrone

Torno a quell’anno, a quel disco. Il titolo mi piace, lo trovo intrigante. Le canzoni sono carine, orecchiabili ma non stucchevoli. Si sopporta facilmente il fatto che, in vacanza, vengano sparate ovunque, ad una frequenza quasi improponibile. Qualsiasi altra musica, ripetuta a questo livello, avrebbe portato al collasso. Sfibrata dal ripetuto ascolto, avrebbe presto mostrato il suo limite. Questa, resiste.

Personalmente, mi trovo nella piena fase cantautorale. Branduardi, De Gregori, Venditti, Guccini, Bennato. Un po’ di Cocciante (poco, quelli troppo romantici li guardo ancora con la puzza sotto il naso). Niente Battisti (la cosa è francamente incredibile, e me ne scuso: ma avrei recuperato dopo). Questo Battiato non lo pratico molto. Ma non lo praticava molto quasi nessuno. Fino a quel momento, almeno.

Dice Wikipedia che è il suo undicesimo disco da studio. Beh io me li ero persi quasi tutti, senza fatica. Come tanti, del resto. Ma ora non si può più, non si può più far finta che non ci sia. Entrato di prepotenza nelle nostre orecchie, nel nostro cervello. Un pop facile ed ispirato insieme, testi sufficientemente misteriosi che non umiliano la tua facoltà di comprendere, ti lasciano addosso quel tanto di mistero che poi ti ricircola piacevolmente in testa. La sensazione che c’è sempre altro da capire, non è un palloncino che appena comprato si sgonfia. Addirittura, puoi non capire niente e te la godi lo stesso. Basta lasciarsi andare alle suggestioni che i testi evocano.

Gesuiti euclidei vestiti come dei bonzi per entrare a corte degli imperatori, della dinastia dei Ming.

Non male per noi abituati – al tempo – a ritornelli profondi ed evocativi come quelli (esempio) dei Ricchi e Poveri, in circolo in quello stesso periodo

Che confusione sarà perché ti amo, è un’emozione che cresce piano piano; stringimi forte e stammi più vicino, se ci sto bene sarà perché ti amo.

Davanti a tutto questo, Battiato esplode come una cosa nuova, coraggiosa, impertinente. Coscientemente commerciale e insieme sperimentale. La quadratura del cerchio, in musica.

Ricordo quell’estate, e poi confusamente, alcuni dischi nel periodo universitario. L’era del Cinghiale Bianco, per esempio. Indimenticabile quell’ironia dissacrante nell’incipit di Magic Shop,

C’è chi parte con un raga della sera / E finisce per cantare “la Paloma” / E giorni di digiuno e di silenzio / Per fare i cori nelle messe tipo Amanda Lear

Con Battiato c’è questo, c’è il gusto del non capito che comunque restituisce una profondità marina all’intera questione (e per questo sulla Feniglia suonava benissimo), hai questa sensazione di stare sulla soglia di qualcosa di profondo, che già ti basta. Ti appaga, in qualche modo misterioso, arcano. Io non capivo nemmeno il titolo dell’album. Certo, Stereoplay nella sua recensione diceva qualcosa sul fatto che il cinghiale bianco fosse il simbolo della rinascita spirituale. Mi accontentavo di questo, anche se sulla rinascita spirituale non avevo esattamente idee chiarissime.

Mi misi a cercare altri dischi ed incappai presto nel suo periodo sperimentale. Del resto questi sui primi dischi erano entrati nelle collane economiche, potevo permettermelo, anche se non sapevo assolutamente cosa mi stavo portando a casa. Ma la curiosità musicale che nutrivo mi spingeva ad osare, a prendere dei rischi. In questo ero molto aiutato, capisco oggi, dall’accesso ad un repertorio abbastanza ristretto, ovvero quello che potevo permettermi di acquisire tra misurati acquisti e condivisioni di dischi di amici. Non c’era Spotify (per dirla tutta non c’era nemmeno Internet, e quindi l’assenza di Spotify era in qualche modo giustificata) e questo, in un certo modo, faceva gioco. Sì, perché eri spinto a non darti per vinto, sopratutto se avevi investito qualche soldo nella faccenda. Eri spinto ad andare a fondo della musica che avevi comprato con i tuoi sudati risparmi, invece di passare subito alla successiva, cambiare playlist con un click, o roba del genere. Non avere accesso a milioni di dischi ti spingeva a estrarre il massimo succo da quei pochi che avevi a disposizione.

Quindi, il disco che (ad un certo punto) avevo acquistato da Ricordi a prezzo popolare, era Juke Box. Devo dire, ci volle tutta la mia ostinazione musicale per non lasciar perdere, già a metà della prima facciata. Ma poi, cominciai ad entrare un poco nelle dinamiche di quel lavoro. Non ero certo di capirlo bene, anzi non ne sono certo nemmeno adesso. Ma qualcosa mi intrigava. La provocazione minimalista dei ben nove minuti di Martyre Celeste, per esempio. Illuminante o irritante, a seconda dei punti di vista (forse tutte e due le cose). O ancora di più, Hiver, per soprano e pianoforte. All’inizio fai fatica ma dopo un po’ ci entri dentro e quello si piazza dentro di te e ci rimane. Negli anni, rimane. Hai presente quando il soprano riprende con Quelquefois dans le crepuscule… e il pianoforte (galeotto) inizia a srotolare quel tappetino di note fintamente inoffensivo, che accompagnano lievemente, come in una promenade? Mi torna in mente anche ora, a distanza di anni che non lo ascolto.

Inciso polemico: quanta musica contemporanea (alta o bassa, d’élite o popolare) invece scivola via in un avvitamento intellettuale senza carne, senza sangue, senza umanità? Del resto, era sempre Franco che avvertiva, da Patriots, la musica contemporanea, mi butta giù. Chiudo l’inciso.

Potrei continuare ad agganciare rapsodici ricordi, ma poi mi chiedo chi leggerebbe fino in fondo (e se siete arrivati fin qui, vi prego lasciate un commento in modo che io vi possa quanto meno ammirare). Potrei, ma alla fine non servirebbe. Battiato è stato tutto questo anzi, è tutto questo, perché le opere di un artista non sono soggette alla corrosione del tempo, si muovono in un ordine diverso. Battiato è Hiver e Bandiera Bianca insieme. Qualcuno che comunque sia – adotti scaltramente il linguaggio del pop o si diletti nello sperimentalismo – ha un approccio geniale alla musica, non si fa incasellare in un genere. Soprattutto, non tira fuori sempre lo stesso prodotto.

Battiato è uno che ci ha insegnato – non con le parole ma con la pratica artistica – che i confini tra i generi musicali non esistono, sono invenzioni di comodo, riparo del pensiero pigro. Che il genio sorpassa ogni steccato. E che quando decide che si è stancato di giocare all’intellettuale e vuole parlare alle masse (per così dire) lo fa in modo semplice e non banale. Con una voce autorevole, la voce del padrone appunto. Padrone della musica e delle parole, che domina con irresistibile fantasia.

Un tipo che dedica metà di un disco fantastico, Come un cammello in una grondaia, a lieder di autori classici. E le canzoni della prima parte, così belle che oggettivamente non capisci più, non distingui, saltano gli schemi.

Uno che in un disco di cover di canzoni famose, Fleurs 2, ti inserisce a sorpresa un pezzo originale (non riesco proprio a chiamarla canzone) come L’addio, delicatissimo e struggente. Arte, senza ulteriori qualifiche.

E vorrei raccontarvi ancora di tanti tanti altri dischi, che ho amato e amo visceralmente. Ma inutile rincorrere il miraggio di essere esaustivi. L’arte del resto, non la possiedi, non la catturi, nemmeno con le parole. Al massimo, ti lasci catturare. In qualcosa che non ha una conclusione, non ha una fine. In un oceano di silenzio, potremmo anche dire. La vera musica è molto più amica del silenzio di quanto lo è la musica piccola, povera, sintetica. La vera musica gioca col silenzio, lo esalta, lo edifica all’interno del tuo animo affannato. Che così respira, di nuovo.

Riflettevo su questo, giorni fa. L’uscita di Franco dal mondo dello sperimentalismo è una sconfitta e una vittoria, insieme. Una sconfitta, perché è la presa d’atto dell’impossibilità di raggiungere un vasto pubblico, dentro i confini (diciamolo, spesso autoreferenziali) della cosiddetta “musica colta”. Una vittoria, perché di fatto è una iniezione di una massiccia dose di coraggio e di creatività nel mondo della musica di consumo. E’ vero, come dice lui stesso, che sul ponte sventola bandiera bianca. Ma è una resa di altissimo livello. Magari di grande furbizia, ma anche di notevole creatività. E appunto, di fantasia.

Lui ne aveva di fantasia, eccome. Come tutti i veri artisti, il suo transito terrestre (per citarlo ancora), il suo appassionato registro di tutte le impressioni che abbiamo in questa vita lascia un Universo più ricco, complesso, strutturato, di quanto era prima del suo arrivo.

E questo certamente basta, per la nostra gratitudine.

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Sanremo 2021 (la musica muore)

Come molti, anche io mi sono messo ad ascoltare i brani di Sanremo. Ma non quello di adesso, no. Quello del 1999 (la versione breve del post, qui).

Ho provato sì, a sentire qualcosa di quello dell’anno in corso (tanto per restare sull’attualità), ma non mi ha preso niente, non ho avuto un solo sussulto. Sai quei sussulti che ti accadono davanti ad una sorpresa bella? Quelli, insomma. Niente. Se escludiamo momenti fuori gara, come Samuele Bersani che interpreta con (tal) Willy Peyote un capolavoro come Giudizi Universali. Che atroce distanza tra questo e le sciape canzoncine semiparlate che hanno inondato le nostre case! Dov’è il sapore? Dov’è fuggito? Dov’è il profumo? E la parola chiave, è rosmarino, avverte Lucio Battisti in un brano favoloso (questo sì) come Però il rinoceronte. Rinunciare al rosmarino non mai è senza conseguenze. Mai.

Il vero punto alla fine è questo, il rosmarino…

Non è che io sia contento di questo, anzi penso che sto invecchiando, che sono preda della sindrome dei bei tempi andati o cose del genere. Oppure che segretamente mi ritengo superiore e custode di chissà quale suprema verità musicale (pensiero francamente difficile da gestire).

Sono andato su Wikipedia per capire se fossi stato assalito da un sussulto di elitarismo, per cui le canzoni di Sanremo non sono vera musica, e tutte queste cose qui. E ho scoperto l’acqua calda, ovvero che in Sanremo sono passate anche canzoni molto belle, e a volte hanno perfino guadagnato i primi posti. Mi sono fermato sul festival del 1999 perché è uno di quelli in cui mi sento più a casa. Dove la mia sensazione di cose belle si incontra con una classifica oggettiva, matematica.

Cioè, niente da dire sui Maneskin (mai sentiti prima di adesso, comunque), non c’è molto da dire in effetti. Del resto, questa finta trasgressione molto patinata e commerciale, si commenta un po’ da sola. Ragazzi miei, la vera trasgressione è artistica, da quello poi segue tutto. Qui, dove la trovo? Se ti attesti sulla forma canzone più standard e non la forzi nemmeno un attimo, non so, un colpetto di batteria fuori da quando l’aspetto, un silenzio appena più lungo, una ripresa lievemente diversa dopo il ritornello, insomma qualcosa almeno piccolo, che metta anche minimamente in discussione l’assetto. Nulla di questo. Nada. Se stai così, non serve dimenarti tanto, impiegare qualche parolaccia (che non scandalizza più neanche il mio cane), sei comunque pienamente nel sistema. Si evade prima di tutto con l’arte, che ti mette in contatto con i tuoi sogni e ti dice che possono essere reali, che esiste ciò di cui è fatto il tuo cuore e questa è la cosa che fa più paura ad ogni potere, perché rischia di svegliarti dall’anestesia mediatica in cui sei immerso.

A mio avviso, è molto più rivoluzionario cantare A Beethoven e Sinatra preferisco l’insalata / a Vivaldi l’uva passa che mi dà più calorie come fa il grande Franco Battiato in Bandiera Bianca (di una attualità sconcertante, solo a ripensare questi giorni di Festival) che ripetere Sono fuori di testa, ma diverso da loro / E tu sei fuori di testa, ma diversa da loro.

Show, don’t tell dicono, per essere un bravo scrittore. La diversità va mostrata, non raccontata. Allora trovare l’insalata e l’uva passa in un verso che parla di musica (classica e popolare) ti può colpire, smuovere qualcosa. Aprire una linea di pensiero, di riflessione. Il resto, purtroppo no. Il resto è già assimilato dal sistema, è tranquillo, tanto più tranquillo e inoffensivo quanto si pretende rivoluzionario. Certo, potreste dirmi, ora vuoi vedere la rivoluzione a Sanremo? No, non voglio la rivoluzione. Cerco la bellezza, poi il resto viene. Se c’è quella, tutto il resto viene, a tempo debito. Verrà, di sicuro.

Chissà se vent’anni fa ero più facile alla sorpresa, o c’è qualcosa di condivisibile nel mio tornare all’ultimo festival dell’altro millennio. Comunque, fatemi dire. Podio assolutamente fantastico. Prima, Anna Oxa con Senza Pietà. Bel brano, testo interessante dove il tema della conquista viene fatto continuamente oscillare tra il registro amoroso e quello militare, con sapide analogie, divertenti da scoprire. ‌Le mie mani, le tue mani in questa battaglia / È un agguato a tradimento in questa boscaglia. Poi la voce di Anna su tutto, i suoi mille registri tra l’espressivo più graffiante e il flautato più setoso, veramente pazzesco. Bella la musica, mi colpisce ancora oggi. L’entrata dei cori è sempre una delizia qui.

Seconda Antonella Ruggero, il suo Non ti dimentico (Se non ci fossero le nuvole) è delicato ed espressivo insieme. E che dire, un’altra bellissima voce, dalle capacità assolutamente stratosferiche, come sappiamo: ascoltatela in Elettroshock nei Mattia Bazar, tanto per capire.

Terza Mariella Nava con Così è la vita. Un brano favoloso, fantastico nel testo e nella melodia, un incedere incalzante e densissimo di delicata poesia e di sincerità accorata. Altissima e precisa. Lancinante nella scelta precisa delle parole e nell’apertura armonica così mediterranea e implacabile. Altro che raccontare, altro che finto rap, qui si vola, e si volta alto!

Questi i primi tre insomma. Nel 1999. Tre grandi donne con tre proposte piene, succose, profumate (anche di rosmarino, sì). Qui io mi trovo, qui ci faccio casa, mi sistemo. Ascolto e riascolto. Musica popolare, va bene. Ma la bellezza c’è, la trovo, la tocco (anzi, è lei che mi tocca). Sono lieto, mi muovo tra queste note, queste parole. Davvero, sono a casa. Che bella la musica, e la musica italiana, che bella che è!

Però, se perfino uno come Ernesto Assante, che ho ascoltato in memorabili lezioni sui Beatles e sui Pink Floyd (e lì qualcosa di rivoluzionario c’è, sissignori), scrive che stavolta ha vinto la musica, inizio a sentirmi un poi un extraterrestre, in questo mio problema con il Festival di quest’anno. Io la musica non l’ho sentita tanto tanto, magari riascoltando forse ammorbidisco il giudizio, non so.

Mi ritorna in mente sempre il già citato brano di Battiato, che conclude significativamente così la sua implacabile analisi della società attuale, e sommersi soprattutto, da immondizie musicali. E penso anche all’altro pezzo mirabile, La musica muore, sempre del grande maestro siciliano. Lì in realtà si parla di altro, della fine ingloriosa del tempo in cui si pensava che la musica potesse cambiare il mondo. Ma forse no, non si parla d’altro. Il tema è questo, alla fine.

Sospendo il giudizio, anche scagliarsi contro il Sanremo dell’anno non è poi uno sport molto appagante. Ma nel segreto, mi riascolto Anna Oxa, Antonella Ruggero e Mariella Nava. E gioisco.

Così è la vita, del resto.

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Senza vergogna (grazie al cielo)

Così scrive don Julian Carron nella bella lettera pubblicata sul Corriere di oggi.

“Dio non ha vergogna di noi, della nostra fragilità, delle nostre ferite, del nostro essere sballottati da tutte le parti”

Un Dio così è veramente interessante, è veramente “amabile”. Vale la pena, mi dico, lavorare per togliere dalla mente le altre immagini di Dio e tutte le paure, lasciando entrare questa, risanante e tranquillizzante.

Lasciando che questa “nasca” in noi, trovi dimora, riparo.

Una immagine di Dio che ci può fare compagnia, che se impariamo a fare nostra, a farla entrare dentro di noi, può aiutarci e sostenerci. Nella vita normale, intendo. Ci vuole qualcosa proprio per la vita normale, la vita che viviamo fuori dalle festività. Ci vuole una ripartenza, una diversa esistenza, proprio per quello. Ci vuole un mondo nuovo, esattamente per il mondo ordinario. Mentre camminiamo, ci fermiamo, mangiamo, leggiamo, mentre siamo in un negozio, in un bar, mentre scorre la vita, ecco, ci vuole l’idea di una prospettiva diversa, fragrante, morbida. Su cui fermarsi a pensare e a volte, anche, fermarsi per gioire.

Gioire da fermi, pensando. Pensare in modo morbido e aperto, se da qualche parte c’è una gioia, diventa in qualche modo possibile, ritorna possibile in diversi modi, per l’alba di diversi mondi. Di pianeti che sono lo stesso nostro pianeta ma diversi, anche, e dove c’è vita ma più vita di qui, anche se siamo qui.

Ci vuole un’altra vita, come cantava Franco Battiato tanti anni fa. E così si dicono Anita e la sua mamma, questi giorni, sotto un cielo di stelle di puntini piccoli piccoli luminosi invadenti impertinenti. Lievemente, giocosi.

Lo sappiamo che ci vuole un’altra vita, lo sentiamo tutti che questa, per molti versi, ci sta stretta. Il fatto è che niente, a volte non lo riteniamo possibile. E questo c’entra con le immagini del divino, secondo me, c’entra parecchio, ci si professi credenti o no. Insomma una immagine così di un Dio amico e vicino e che “non ha vergogna” fa piazza pulita di tante incrostazioni mentali, e ci fa ripartire.

Certo la mente è quello che è e le incrostazioni mentali tornano, amano tornare, a volte si trova una via luminosa e viene voglia di dire ma ecco è così! Ci siamo, ci siamo è così! e la vita ordinaria aspetta e vuole riprenderci nelle sue dinamiche e così i pensieri, nei soliti collaudati e un po’ esauriti pensieri.

Ecco perché penso che queste buone notizie sono, possono essere, l’inizio (o la ripresa) di un lavoro, su di sé, e quindi ipso facto  sul mondo, sul cosmo (fin fino alle lontane stelle,sì). Ci si può applicare, siamo lavorabili dice il poeta e filosofo Marco Guzzi, e il fatto che siamo lavorabili è una gran buona notizia, una notizia che spesso ci dimentichiamo. Il lavoro ha alti e bassi e siamo spesso “sballottati da tutte le parti” (almeno io, lo sono), e il fatto che c’è Chi non ha vergogna di questo, ci aiuta e ci intriga,ci incolla di più in questo lavoro, della vita.

Buon Natale!

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