Blog di Marco Castellani

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Ho incontrato le stelle

Un caro amico mi ha consegnato ieri un lettera bellissima, che riproduco qui con il suo permesso. Sentirle leggere, in occasione di un incontro, mi ha commosso. Tanto che ho chiesto subito di poterne avere una copia.

In casi come questo, non c’è molto da aggiungere. Cerco quindi di tenere le (mie) parole al minimo.

Una cosa sola. Rimango commosso dalla percezione della bellezza anche in certi momenti drammatici. Nella drammaticità di vivere in zona di guerra, incontrare le stelle è incontrare un segno palpitante, fisico, di questa bellezza.

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Messier 101, la bellezza del vero

Enorme e bellissima la galassia a spirale M 101. Uno degli ultimi record nel catalogo di Charles Messier, celebre lista di 110 oggetti celesti, pubblicata nel lontano 1774. Davvero imponente: con la sua larghezza di circa 170.000 anni luce, è grande circa il doppio della nostra Galassia (che pure non scherza). Nota anche come la Galassia Girandola, M 101 si trova ai bordi della costellazione dell’Orsa Maggiore, circa 25 milioni di anni luce da noi.

La meravigliosa galassia Messier 101. Crediti: NASAESACFHTNOAO

M 101 è stata anche oggetto delle osservazioni di Lord Rosse nel secolo diciannovesimo, con il suo celebre Leviatano di Parsonstown, all’epoca il telescopio più grande del mondo. Venendo più vicini ai nostri tempi, l’immagine che adesso ammirate è stata ottenuta componendo ben 51 esposizioni acquisite dal Telescopio Spaziale Hubble a cavallo tra il ventesimo ed il ventunesimo secolo, con l’aggiunta di altri dati provenienti da strumentazione a terra. Copre una ampiezza di circa 40.000 anni luce intorno alla regione centrale della galassia, per un ritratto di galassia tra i più precisi mai ottenuti.

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La complicata bellezza del cielo

L’enigma della bellezza è qualcosa che attraversa i millenni, non è certo una novità. C’è sicuramente una bellezza che riveste i caratteri della complessità, nelle cose e nelle persone. Questa bellezza complessa – non sorprendentemente – la ritroviamo anche nel cielo.

NGC 6891 è una nebulosa planetaria che si trova nella costellazione del Delfino. L’immagine rivela una grande ricchezza di strutture, tra cui un alone sferico che si espande molto velocemente, e due gusci di forma ellissoidale, orientati in modo diverso. Studiando i loro movimenti, gli astronomi ritengono che uno dei gusci abbia 4800 anni mentre l’altro sia più anziano, con un’età stata di 28000 anni. Bellezza che rivela una irriducibile complessità.

La nebulosa planetaria NGC 6891.
Crediti: NASA, ESA, A. Hajian , H. Bond , and B. Balick ; Processing: Gladys Kober

Le nebulose planetarie sono stelle che stanno esaurendo il loro combustibile e si stanno avviando sul viale del tramonto, riservandosi un momento di gloria (e di grande bellezza, appunto) prima di iniziare la lenta fase di nana bianca.

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Un’onda di bellezza cosmica

L’onda d’urto, residuo visibile dell’esplosione di una supernova, si addentra nello spazio interstellare alla bellezza di cinquecentomila chilometri all’ora. Nota agli astronomi con il nome di NGC 2736, il suo aspetto allungato le ha fatto guadagnare il nome di Nebulosa Matita.

La bellissima Nebulosa Matita, gioiello del cosmo.
Crediti & Copyright: Greg Turgeon & Utkarsh Mishra (qui riprodotta per concessione degli autori)

Questa nebulosa si estende per cinque anni luce e si trova a circa ottocento anni luce da noi, ma rappresenta appena una piccola parte del resto di supernova poeticamente chiamato Nebulosa delle Vele. Tale nebulosa in sé si estende per un diametro di circa 100 anni luce, e rappresenta il materiale espulso da una stella che esplose circa undicimila anni fa. Inizialmente, le onde d’urto si spostavano a velocità di milioni di chilometri all’ora, ma nel tempo hanno rallentato in maniera considerevole, spazzando via il materiale interstellare circostante.

Nella bellissima immagine, i colori rosso e blu tracciamo, primariamente, le nubi di atomi di idrogeno ionizzato ed ossigeno, rispettivamente.

Ma l’immagine è bella di per sé, anche senza sapere nulla di cosa rappresenti, in termini scientifici. Questa è la bellezza quasi “casuale” che viene fuori da tanta scienza, come se ci fosse qualcosa che si comunica su vari livelli, non trascurando quello estetico. La bellezza muove qualcosa nel cervello, sono colpito e mi si evocano associazioni e analogie, che si allargano su uno spazio ben più ampio della pura scienza. A me viene in mente subito – forse per il tono di rosso, forse per qualche forma – la copertina di Us, di Peter Gabriel (non so quante volte l’avrò ascoltato). Ma ad ognuno può far venire in mente cose differenti, ad ognuno parla nel suo linguaggio. La bellezza fa casa dovunque, rispettando quel che trova.

In fondo, è questa la sua forza (cosmica).

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Un magnetismo… galattico

Esistono vari livelli di bellezza “invisibile” nel nostro Universo, potremmo dire. Ci sono cioè segni di simmetrie, di complessità di variazioni, gradazioni, progressivi disvelamenti, armonie e consonanze, che non sono semplicemente, ordinariamente visibili. Che cioè avvengono totalmente fuori dalla portata dei nostri sensi (ma avvengono, avvengono).

L’astrofisica moderna, nel mentre che ci indica e ci descrive vari ambiti fuori dalla classica “astronomia ottica” – sempre più appena una tra le tante modalità di approccio alla complessità del cosmo – ci fornisce gli strumenti per poter iniziare anche a percepire segni di bellezza e simmetria fuori appunto dalle frequenze e pertinenze che potremmo registrare con i nostri sensi.

Per esempio, è indiscutibile la delicata bellezza di questa immagine.

Il “centro magnetico” della Via Lattea
Crediti: NASASOFIAHubble

Questo è il cuore magnetico della nostra Galassia. Come spieghiamo questa bellezza? Ebbene, dobbiamo pensare ad un flusso di particelle che, ruotando in concordanza con il campo magnetico galattico, emettono fiotti di luce polarizzata in banda infrarossa. Questo segnale ci viene restituito e deliziosamente rimappato nel visibile, dagli strumenti a bordo di SOFIA, che è attualmente l’osservatorio “aerotrasportato” più grande del mondo.

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Terrorismo (e ortofrutta)

Devo dirlo, devo ammetterlo. Sono (quasi) stato un terrorista.
E non una. Ma tante, tante volte.
Non nel senso punibile dalla legge, probabilmente. Ma certamente nel senso di ammalato di terrore, nel senso di un incredibile impoverimento interno che poi porta comunque a questo: ad aspettarsi che la vita (tua, o degli altri) cambi non per un lento e fiducioso lavoro, ma per un gesto, un avvenimento eclatante, roboante.
Mi direte magari che non è terrorismo, in senso proprio. Eppure è già qualcosa di vicino, è già un avvicinamento ad un certo ordine di idee.
Quello opposto, esattamente opposto, alla bellezza, alla poesia.
Così in questa alternanza di governi che si contendono la mia anima, molte volte ho fatto il favore della parte sbagliata. Tutte le volte che ho smesso di stupirmi per il fiorire di evidenze e di piccola ma tenace poesia del quotidiano che accadeva intorno.
Per rimanere nel concreto, nella vita quotidiana: tutte le volte che sono passato vicino ad un banco di ortofrutta, e ho rinunciato a stupirmi per la panoplìa di colori e profumi che mi era liberamente posta davanti, scegliendo magari di seguire qualche filo di pensieri — certamente più grigio e meno imprevedibile.
Insomma, avete capito. Tutte le volte che ho smesso di guardare.
Di mantenere un contatto aperto con la stupenda non linearità del mondo e mi sono lasciato sedurre dalla linearità malata del pensiero interno (malata sempre, quando non guarda).
Certo non la sto facendo semplice. Non auspico una maggiore frequentazione di banchi ortofrutticoli come soluzione al regime del terrore, che quest’onda di nichilismo efferato (mascherato da guerre tra religioni) sta tentando di imporre al mondo e prima ancora alle nostre coscienze, no.
Il problema è complesso e va affrontato in modo completo, di certo.
Dico solo questo, dico appena che nella lotta ad ogni regime del terrore, ad ogni impalcatura organizzata di violenza, l’educazione alla bellezza non può essere lasciata da parte. Mai.
Perché i demoni non odiano semplicemente il bello — di più: non lo sopportano.
Perché è la via di accesso ad un altro ordine mondiale.
Quello della vita.

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Take five (Lucio sei grande)

Di solito uno non ci pensa. Fa le sue cose e non ci pensa. Se gli dici, ma hai presente che ci sono gli ultimi cinque album di Lucio Battisti? Hai presente la bellezza? Quello magari ti guarda strano, non è che capisca bene. Ti dice, ho le bollette da pagare, devo passare dal commercialista o – peggio ancora – devo andare dal dentista. Devo accudire un mio parente anziano, ho la macchina in panne. Mia moglie non mi capisce. Cosa mi importa degli ultimi cinque album di Battisti adesso?

Io pure risponderei così, a prima botta (o qualcosa di simile, ci siamo capiti).

E’ proprio questo il guaio.

Che la gente non si accorge che c’è la bellezza, in giro. Non vi attinge, nei momenti di difficoltà. C’è questa dannatissima idea che uno per attingere alla bellezza deve aver sistemato tutto, deve star bene e a posto, rilassato e ben nutrito, deve aver messo a posto tutti i desideri e gli istinti. Poi pensiamo alla bellezza. Devastante, devastante.

No, è che anch’io in fondo sono così, è per questo che è devastante. Altrimenti erano problemi vostri, e pace. 

Prendiamo Lucio. Gli ultimi anni sono quelli della collaborazione con Panella, e della sperimentazione sonora. Don Giovanni, L’apparenza, La sposa occidentale, Cosa succederà alla ragazza, Hegel. Dal 1986 al 1994. Posto che sono dei capolavori ancora in larga parte non assimilati (dopo tutti questi anni!), ecco che si pone il problema. 

600px Lucio Battisti Hegel svg

L’ultimo lavoro. “E” sta forse per End. La fine. O forse un inizio nuovo…

Per me questi lavori trasudano bellezza. Anche a distanza di anni, quasi dieci dall’ultimo lavoro (che stavo riascoltando in questi giorni), c’è qualcosa di coraggioso e di sublime che attraversa anche i brani meno riusciti. Ma chi glielo ha fatto fare? Chi? Prendiamo il Battisti di Una giornata uggiosa (1980). Fama, riconoscimenti, soldi. Un percorso collaudato. Con un paroliere d’eccezione come Mogol, tra l’altro. E che ti succede? 

Che si cambia. E già (che – detto tra noi – non ho ancora ascoltato, ma confido che questo non indebolisca la mia tesi)  è il manifesto del cambiamento.

Scrivi il tuo nome su qualcosa che vale, mostra a te stesso che non sei un vegetale. E per dimostrare che si può cambiare, sposta il confine di ciò che è normale. Bella giornata è questa qua, l’aria più fresca ti esalta già, il momento migliore per cominciare un’altra vita, un altro stile (Scrivi il tuo nome)

Così cambia tutto. Si prendono nuovi rischi, si fanno nuove scelte. Nuove collaborazioni, nuove sonorità. Nuovi testi: poetici, preziosi. E inizia l’avventura straordinaria. Ora mi permetto una digressione: la musica attuale è così tristemente immediata nella melodia e nelle parole. Soddisfazione immediata, o cambi pezzo (o stazione radio, o file mp3). Al primo ascolto hai capito tutto. Non c’è un rapporto da approfondire, se non va cambi. Poi ti stufi, e cambi. Un dongiovannesco sfrenato. Un libertinaggio forzoso (neanche deliberatamente scelto). 

Qui c’è di entusiasmante che al primo ascolto non capisci nulla. Nemmeno riesci ad arrivare alla fine del disco (quasi come con Amarok, ma questa è un’altra storia). Poi riparti, e ti inizia ad entrare in testa un passaggio, una sequenza di parole. Vorrei segnalare questo fatto, vorrei avvisare: le sequenze di parole di uno qualsiasi di questi album ti possono ricorcolare in testa a distanza di settimane, mesi. Anni. Ok, non le riesci a spremere tutte subito. Non come le altre canzoni, scarti, mangi, digerisci e ciao. Una botta e via, amici come prima, non mi ti filo più, chi si è visto si è visto.

Qui invece ti ricircolano dentro, ci pensi quando meno te lo aspetti. E estrai nuovo succo, quando meno te lo aspetti.  E’ più un matrimonio che una avventura occasionale. E’ il rapporto con una sposa non con una amante. Del resto,. non è una cosa nuova, non è invenzione di  Lucio (meglio, della somma arte Panella, il paroliere). Si chiama in termini semplici, si chiama poesia.

La sposa occidentale che sembra quasi ridere / e invece lei respira, / quasi piangere, ma gira / dall’altra parte il viso, ma ritorna / portando sue notizie inaspettate; / amando tutto ciò che adora, / chiama con nomi fittizi le cose: /così, semmai, le rose / son spasimi, per ora. (La sposa occidentale)

Poi l’ultima canzone dell’ultimo discoLa voce del viso. La bocca.  E’ come se riassumesse tutta la poetica dei cinque dischi, ma in fondo di tutto Battisti. L’elogio commosso e stupefatto della bellezza. Più che elogio: il tributo. La bellezza che addolcisce il mondo, la vita quotidiana. La bellezza che nelle canzoni prende le sembianze dolci della donna, della ragazza. Seguita e indagata con una sorta di divertita tenerezza, e insieme di sbigottimento davanti al mistero. Al mistero di qualcosa che non si può spiegare compiutamente, in parole umane. 

Quest’opera sensibile: 

il tuo volto che si manifesta ed è 

oltre l’ordine della natura.

Il primato del principio del piacere sulla fredda razionalità. E’ paradossale perché spesso l’ultimo Battisti viene etichettato frettolosamente come cerebrale e invece secondo me non c’è niente di più passionale, di più sanguigno ed insieme di più teneramente appassionato. 

Ti spadroneggia allora il tuo godio, 

disincantato in quanto, 

più è restio al racconto lenitivo, 

al riassunto giulivo. E non è riso appunto 

e non è pianto il tuo perché il racconto è il riso e pianto il suo riassunto. 

Sul viso la sintassi non ha imperio, non ha nessun comando. 

Vado in visibilio qui, non riesco più ad essere distaccato, nemmeno un po’. Ma vi rendete conto? Sul viso la sintassi non ha imperio non ha nessun comando. Vince la bellezza sul razionalismo! Ecco cosa canta Lucio come ultima cosa, cosa ci regala prima di partire.  Vince una Bellezza su tutte le nostre preoccupazioni.

E tanti altri esempi…. per esaurire l’argomento ci vorrebbe un libro. O due. Ma qui illumino per schegge, momenti, impressioni. Epifanie. 

Comunque torno al punto, perdonate la divagazione. Il punto è che uno non ci pensa. Non  ci pensa agli ultimi cinque dischi di Battisti. Dite la verità, quante volte ci avete pensato? Sono tempi dure, dite. Ci sono altri problemi.

E io dico che è proprio il tempo di pensare agli ultimi dischi di Battisti, proprio perché sono tempi duri.

Proprio perché sono tempi duri, ci vuole la bellezza. Ci vuole la poesia.

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Telescopio Spaziale Hubble, ecco come si rivela la bellezza

Vi siete mai chiesti come si ottengono tutte le bellissime immagini che ci ha regalato finora il Telescopio Spaziale Hubble, nel corso della sua onorata e lunga carriera? Sono spesso panorami celesti tali da farci rimanere a bocca aperta! Come fanno dunque i dati “grezzi” acquisiti da Hubble ad andare a comporre una di quelle immagini bellissime, come quella di Arp 274, presentata qui sotto? E’ davvero un processo interessante, se teniamo conto che – propriamente parlando – le camere a bordo di Hubble non acquisiscono immagini a colori: contano soltanto i fotoni nelle diverse bande fotometriche.

Il tripletto di galassie Arp 274.

Il tripletto di galassie Arp 274. Nella (bella) immagine sembrano parzialmente sovrapposte, ma in realtà sono a distanze diverse. Crediti: NASA, ESA, M. Livio and the Hubble Heritage Team (STScI/AURA)

Al proposito, il team di Hubble ha prodotto un video nel quale viene mostrato il processo per cui si crea una immagine stratosferica come quella di Arp 274. E’ in inglese, naturalmente, ma può valera lo stesso la pena di vederlo: ci dà un’idea interessante di cosa avviene “dietro le quinte” e come funziona la “galleria estetica” forse più importante del mondo…

Le immagini a colori provenienti da Hubble sono ottenute dalla combinazione di immagini in “bianco e nero” acquisite attraverso i vari filtri. Per una immagine, di solito la sonda deve prendere tre foto diverse, una attraverso un filtro rosso, una per il verde e una per il blu. Ognuna di queste foto deve poi essere inviata a Terra, dove le varie sequenze sono finalmente combinate in una immagine a colori. 

Questo sarebbe già sufficiente. Consideriamo però che Hubble dispone in realtà di una quarantina di filtri nelle diverse bande, che vanno dall’ultravioletto (più “blu” di quanto i nostro occhi non possano vedere) fino all’infrarosso (più… “rosso” del rosso, in pratica). Questa grande disponibilità di dati nelle diverse bande fornisce al team che produce le immagini una grandissima flessibilità, permettendo loro di “portare in luce” qualsiasi informazione sia rintracciabile nei dati. Come pure, di tanto in tanto, di prendersi qualche leggera “licenza artistica” … 😉

Da un articolo su Universe Today

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