Blog di Marco Castellani

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Dopo Parigi…

A volte nella confusione della grande quantità di rumori, di innumerevoli strategie interpretative di ogni cosa, emergono segnali in fase, segnali concordanti. Che si rinforzano in una sintonia virtuosa, per cui inizi a maturare degli indizi di una possibile certezza. A covare questo senso caldo e inconfessabile di comprensibilità del reale. 

Può accadere per le piccole cose, per gli affetti personali, e anzi quando accade è un conforto grande. E può accadere per avvenimenti “esterni”, che comunque  si presentano alla coscienza e la interrogano. Chiedono uno schema interpretativo (ultimamente) positivo, aperto e lavorabile.

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Ecco, ritrovo una confortante unità di accenti, qualcosa che mi rassicura e mi fa pensare di essere sulla strada giusta. Di essere, appena, sulla strada. E’ quello che penso leggendo l’intervento di Julian Carron, presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione, che interviene sui fatti di Parigi. Sì, perché leggendo non posso fare a meno di ritornare a quello che scrisse “a caldo” Marco Guzzi, proprio all’indomani della strage. Ed è come se leggessi la stessa cosa, appena incarnata in una sensibilità diversa. Come lo stesso oggetto, descritto attraverso due vocabolari, due sistemi di riferimento, differenti solo all’apparenza. Non conflittuali, peraltro: anzi, felicemente complementari.

E’ quello che mi conforta di più. Prendo dallo scritto di Juliàn Carron,

Questa situazione storica è un’opportunità eccezionale per tutti: anche per i cristiani. L’Europa può costituire un grande spazio per noi, lo spazio per la testimonianza di una vita cambiata, piena di significato, capace di abbracciare il diverso e di destare la sua umanità con gesti pieni di gratuità. 

Ritorno allo scritto di Marco, e leggo

Questo è il tempo della nostra conversione, della conversione dell’Occidente ai propri stessi principi, altrimenti anche libertà, fraternità, e uguaglianza, saranno morte parole, che già infinite volte sono state utilizzate per schiavizzare popoli interi e imporre ingiustizie e stragi in tutto il pianeta, a partire proprio dalla rivoluzione francese e dall’arroganza della sua ragione totalitaria.

In entrambi gli interventi ricavo questo senso di opportunità, questo leggere attraverso eventi anche dolorosi, tragici, per vedere cosa di positivo possiamo trarre. Perché allo sbigottimento, del tutto comprensibile, non segua l’inattività del cinismo e del freddo disincanto, ma ci si possa mettere in cammino, con una prospettiva buona.

Apro una parentesi personale. Quando ho iniziato il cammino di Darsi Pace, nell’ottobre dello scorso anno, ho allo stesso tempo dato – inevitabilmente – inizio anche un lavoro di raccolta di evidenze, di concordanze, ho insomma esteso la mia richiesta di unità delle cose e dei punti di vista a tutto ciò che adesso interessa la mia vita. Non è certo una indagine accademica: è piuttosto un lavoro di portata esistenziale, pregnante per la vita quotidiana, per la coscienza di me stesso, al quale non posso sottrarmi. Fa parte del mio lavoro di essere uomo. 

Questo non so se interessi davvero il lettore, ma è  quanto mi riguarda più da vicino. Del resto, l’osservatore è parte del fenomeno osservato, ci insegna la fisica moderna. E’ inseparabile da esso.  Così che per parlare di come vedo il mondo (in fondo è l’unico argomento valido di un blog) bisogna che parli anche un po’ di come sono io. Oltre a tutto questo, che potrebbe sembrare ovvio, se ne scrivo qui è perché credo che qualche semino di concordanza possa interessare chi non è direttamente implicato in questi cammini, ma sia semplicemente mosso da un desiderio onesto di comprendere, e di stima verso posizioni che – pur con registri espressivi diversi – esprimono pacatamente una interessante sensazione di urgenza.

C’è qualcosa che ben travalica il senso di appartenenza a questo o quel movimento, la nostra prossimità a questo o quell’ordine di idee.  Che ben si presta ad un confronto in campo aperto, da uomini liberi (libertà che, detto di passaggio, non è in alternativa ad appartenenza, anzi…). Come ben dice Luca Doninelli in un pezzo di pochi giorni fa, “Le prime due volte – una da solo e una in compagnia – l’ho letto perché l’aveva scritto Carrón. La terza volta l’ho letto e basta, e solo in quel momento mi sono accorto della sua importanza.”  

Il pezzo di Luca è bello, perché schiva lesto le posizioni ideologiche ed astratte, e va piuttosto a cercare l’odore della realtà, con esempi vivi di questa umanità nuova che fa del dialogo il suo strumento espressivo privilegiato e direi quasi irresistibile.

Leggetelo.

Così, non dovrei aggiungere altro, se non che scommettere su questa umanità del dialogo, su questa nuova umanità mi pare la prima cosa e comunque la più urgente. Ed è, come dice il sottotitolo del testo di Marco, un progetto politico e spirituale. Ogni progetto ormai è politico e spirituale insieme, ovvero vede come indispensabile premessa ad un lavoro tra gli uomini il lavoro dentro gli uomini, dentro se stessi, nel farsi docili, nel farsi pane, al fremito di uomo nuovo che vuole sbocciare anche in noi.

Un uomo nuovo, che non si riconosce più negli steccati e negli schieramenti ideologici elaborati nello scorso millennio. Elaborati per separare, per dividere. In ossequio al nostro io belligerante, che si riconosce quando si ritrova in opposizione a qualcuno.

Sembra assurdo dirlo a ridosso di questi avvenimenti, ma forse possiamo ormai fare un passo in avanti.

E’ stato detto autorevolmente molti anni fa. E’ stato gettato un seme… “Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna…” (Galati 3,28). E’ una prospettiva ancora da far nostra, ancora da far sbocciare, in senso compiuto. Ci viene più facile distinguerci in persone di destra, di sinistra, credenti, atei… così che l’uomo in relazione – che è definito appunto dalla relazione e non dalla separazione – deve ancora sbocciare. 

Ma i tempi sono prossimi, ormai: le doglie del parto le avvertiamo già.

Possiamo fare una cosa, intanto. Da subito.

Possiamo lavorarci.

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Se accade qualcosa

Rileggendo le bozze per un piccolo libretto di poesia che vorrei finire di compilare nei prossimi giorni, mi sono imbattuto in un verso

“Se accade qualcosa mi placo: / la guardo soltanto accadere”

che mi sembra descriva adeguatamente questo momento, questo momento personale e questo momento anche a livello più ampio, sociale.

Così scorgo in fondo al mio cuore, palpitante, il desiderio che accada qualcosa capace di strapparmi al tappeto consolidato di pensieri e di auto-osservazione. Che accada qualcosa che mi strappi da me stesso, dalle mie furbizie consumate e dai bilanciamenti usati per tirare avanti. 

Ricordo. Da bambino c’era il senso forte dell’attesa di qualcosa. Un regalo, il ritorno di un genitore, un ritorno a casa. C’era un senso di una possibile svolta in ogni istante.

“I bambini stanno bene / per loro ogni giorno è differente” canta Fossati ne Il rimedio ed è una intuizione geniale.

Ora se spesso non troviamo niente per cui stupirci, da una parte sembriamo adulti (per quanto in una accezione un po’ triste) ma dall’altra ci muoviamo intorno come bambini insoddisfatti. Ma l’ultima cattiveria che possiamo farci, in questa condizione (tutti, credenti o non credenti), è impedirci di pensare che qualcosa di radicale possa ancora avvenire. Che possa esseri un punto di svolta, un punto di valore. Di dolcezza, soprattutto. Una dolcezza infinita è quello che il cuore attende per riposare, niente di meno.

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Un punto di dolcezza, di tenerezza che possa agire facendo sciogliere le resistenze dentro di noi, liberare il nostro potenziale creativo. Se non si è creativi si soffre, si soffre da morire. Creatività è forse semplicemente disponibilità ad un disegno sulla nostra vita, che siccome è unico perciò stesso ci rende unici, ci rende speciali e insostituibili.

Perché impedirsi di pensarlo? E’ ragionevole? Rispondo per me, dico di no.

Ma se lo dicessi in forza di una mia forza, mentirei. Crollerei. Se lo dico in forza di volti, di “persone e momenti di persone” attraverso cui vedo un Destino più grande, forse posso essere sincero.

Forse “Cercate ogni giorno il volto dei santi e traete conforto dai loro discorsi” (Didaché) vuol dire questo. Per me, adesso, vuol dire guardare fuori di sé e vedere persone amiche, volti, fare memoria di brani di conversazione, di persone che ci hanno guidato e sono in cielo (come Don Giacomo di cui oggi ricorre l’anniversario della morte), altre che ci guidano ora, con cui è possibile continuare un cammino.

Per tutto questo, mi dico, è ragionevole sperare. Anche avessi visto una sola volta questi volti, è ragionevole sperare. Per tutto questo, non si tratta di forzare un ottimismo, ma cedere ad una Presenza. Da cercare ogni giorno. Per riempire il cuore, e così poter sorridere alla moglie, ai bimbi, agli estranei. O se oggi magari non si sorride, per capire che si potrà sorridere comunque, domani.

Buona Pasqua.

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Nel freddo, una nascita

Nasce nel freddo. E vieni in una grotta al freddo e al gelo, canta il celebre inno.

Vuol dire tanto. Anche questo, che il freddo non è l’ultima parola. Vuol dire che il freddo, pur sentito, drammaticamente avvertito, non è conclusivo di nulla, non implica logicamente nulla, non delimita nulla in senso definitivo. Perché non può mai essere l’ultima parola. Meglio, perché non può evitare – anche il freddo più freddo – che l’Universo si pieghi alla categoria della possibilità, che debba piegarsi a questa legge. Che ogni momento possa accadere qualcosa di nuovo.

Dio sceglie quelle circostanze che possono mettere di più davanti ai nostri occhi chi è Lui e quale straordinaria novità può generare nel mondo. E questo dovrebbe rallegrare ciascuno di noi, perché significa che allora non c’è situazione, momento della vita o storia che possa impedire a Dio di generare qualcosa di nuovo (Juliàn Carron)

Photo Credit: AlicePopkorn via Compfight cc

Ci sono momenti in cui uno può sfidarsi a prendere certe frasi alla lettera. A me piace farlo con la frase di Carron appena riportata. Parlo di sfida perché il mio pensiero gravita sovente attorno ad una diversa attitudine, prevale spesso il già visto, il già saputo. Ma – mi dico – è solo una ennesima distorsione dell’ego, che resiste ad aprirsi alle infinite possibilità dell’esistenza, che trascendono allegramente noi e tutte le nostre ottocentesche riduzioni dell’imponderabile complessità del reale e del suo perenne scintillante mistero. Perché? Perché non ama perdere il controllo, non ama cedere. E non ama le sorprese.

E invece la suprema saggezza è cedere. Alle infinite possibilità nascoste, incorporate, in ogni situazione. Ogni freddo può svelare dolcissime sorprese, se accolto con pace, con pazienza. Come la neve il freddo custodisce, copre, prepara ad una nuova nascita.

Il Senso dell’esistenza, l’Essere, nasce nel freddo. Dove nessuno se lo aspetta.

Pensiamoci. Ora. Buon Natale.

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Maestro

Ecco un’altra parola su cui ci si potrebbe passare una vita, o probabilmente (potendo) anche ben di più. Maestro. Mi viene in mente prima di tutto la frase del Vangelo, “dove stai di casa, Maestro?” (Gv 1, 38). Unica coincidenza, in cui Chi indica la strada, è Lui stesso la strada.

Perché, chi è un maestro? Secondo me, un maestro è uno che ti indica la strada. Non ti porta verso lui ma ti rilancia in un cammino. Così che se anche lui dovesse cadere, niente di quello che ti ha insegnato perde valore. Segui lui per seguire ciò che lui segue. Un maestro è qualcuno seguendo il quale si entra più in sé stessi. Un maestro non ti porta mai lontano da te, ti aiuta a scoprire il tuo cuore. 
Vi sono sempre stati maestri. In ogni epoca. 
Mi sembra si debba registrare come caratteristica un po’ triste della modernità una generale diffidenza verso i “maestri”. Almeno è quello che percepisco io, come dire, “fidati, ma non fidarti troppo”. Questa è l’aria nella quale sono cresciuto. Passato il tempo di ubriacature ed entusiasmi per rivoluzioni sociali e politiche (le cui promesse sono state palesemente disattese), ecco che una generale diffidenza ha inquinato l’aria. E, per carità. Ha degli aspetti positivi. E’ sana e naturale una certa dose di diffidenza. Ma portata all’eccesso diventa velenosa un dubbio sistematico. Paralizza, lascia nella solitudine.
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Un maestro ti può indicare la strada, e può essere saggio affidarsi…

Maestro. C’è un motivo di cronaca che spiega perché mi confronto adesso con questa parola. Ho pensato al ruolo che rivestono quelli che riconosco in vari modi come “maestri” nella mia vita, nel caso eclatante della rinucia al ministero petrino da parte di Benedetto XVI. La mia prima impressione – come tanti, probabilmente – è stata di incredulità, stupore. Poi anche, una istintiva tristezza. Mi piace questo papa, mi piace quello che scrive, quello che dice. La discrezione e l’umiltà con cui si pone. E non capivo le ragioni di quel gesto. Lo ammetto, non sapevo interpretarlo. 
Ero ancora confuso quando – a pochi minuti dall’annuncio ufficiale – Valerio Albisetti, che stimo come persona e apprezzo come scrittore e saggista, postava su Twitter e Facebook il seguente messaggio…

Albisetti. I cui libri mi hanno aperto degli squarci stupendi e confortanti nella comprensione di me stesso. Che mi ha aiutato e mi aiuta a trovare un senso all’interno di me, e un cammino, al di fuori…

Beh, mi spiazzava. Pensavo inizialmente, ma come sarebbe? Coraggioso e chiaro? Però intanto mi sospingeva a vedere più in la del mio naso, di non fidarmi troppo della mia reazione istintiva. L’autorevolezza che si è guadagnata Albisetti presso di me, rimetteva in circolo tutto. Perché lui dice così? Perché proprio lui (un maestro per me) dice così? Allora il punto diventa, cosa mi sto perdendo? Devo capire cosa è che non ho capito (perché a questo punto diventa ragionevole ipotizzare che mi manchi un tassello, per comprendere il quadro).

In successione temporale piuttosto serrata, ecco apparire un articolo di Monica Mondo, che mi colpisce già dal titolo, “Che la sua decisione sia la nostra speranza.” Speranza. Non tristezza.

E poi il messaggio di Julian Carron, presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione. Già come inizia, mi spiazza.

“Con questo gesto, tanto imponente quanto imprevisto, il Papa ci testimonia una tale pienezza nel rapporto con Cristo da sorprenderci per una mossa di libertà senza precedenti, che privilegia innanzitutto il bene della Chiesa. Così mostra a tutti di essere totalmente affidato al disegno misterioso di un Altro. Chi non desidererebbe una simile libertà? (…) accogliamo anche noi con libertà e pieni di stupore questo estremo gesto di paternità, compiuto per amore dei suoi figli …”


Così due persone che considero – diciamolo pure – come maestri, nei loro ambiti e competenze, oltre a registrare una confortante concordanza, mi indicano che forse posso andare più in là con il ragionamento, posso superare lo sconforto iniziale. Posso aprirmi al fatto, misterioso ma reale, che il gesto privilegia innanzitutto il bene della Chiesa. Un bene legato al mio personalissimo bene, come  esplicita la frase per amore dei suoi figli (altrimenti perché preoccuparsene? Con tutte le cose a cui dobbiamo pensare, non abbiamo certo tempo per cose astratte). 
Ed essere rilanciato, lo sento, mi fa bene. Trasforma la tristezza in fiducia, pur ammettendo aspetti di mistero che probabilmente non mi si chiariranno mai fino in fondo. E con la fiducia torna il sole a fare capolino, torna l’ipotesi dell’affidarsi tranquillo, torna la possibilità che tutto sia per il mio bene.

Una chiave di lettura che si fa, se possibile, ancora più dolce e accorata nell’intervento di Carron  pubblicato su Repubblica di oggi. E capisco ancora meglio l’importanza, la rilevanza per tutti di questo gesto
“L’ultimo atto di questo pontificato mi appare come l’estremo gesto di un padre che mostra a tutti, dentro e fuori della Chiesa, dove trovare quella certezza che ci renda veramente liberi dalle paure che ci attanagliano.”

Liberi dalle paure. Ecco una cosa che mi interessa davvero, tra tante parole che si sono dette su questa vicenda. Liberi dalle paure che ci attanagliano. Ecco una cosa che parla al mio cuore, al mio desiderio.

Un gesto che libera dalla paura, non è fatto per paura. Infatti…

Io sono contento di avere dei maestri. Persone che mi indicano la strada.
Che non pensano al posto mio, ma mi aiutano a pensare.

A pensare davvero, fuori dagli schemi comuni.
Perché la vita sia più vita.
Sia più piena.

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Quando fuori piove…

Fuori piove, ascolto smooth jazz negli auricolari. A casa le persone sono dietro le varie attività, computer, televisioni. Vedo gocciolare dalla finestra. Davanti al mio naso, non molti metri in linea d’aria, c’è un bel pino grande. Sta in silenzio, assorbe l’acqua che gli cade addosso. Oserei dire che è contento.
Alle volte sono nervoso, teso. Misteriosamente. Spesso lo sono in molti, del resto. Chissà perché mi viene in mente di nuovo, che la conversione non è, come avevo spesso immaginato, uno sforzo morale o ascetico, un nuovo obiettivo da raggiungere, un salire. Ora mi viene in mente, come mi veniva in mente qualche tempo fa, che è un nuovo modo di guardare, più rilassato, tranquillo, benevolente. Uno scendere. Come quando sai che non tocca a te di fare tutto, di sistemare tutto quanto. Tranquillo, mi dico: non tocca a te sistemare nemmeno te stesso.

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Ridurre la fede ad etica, a morale, è quanto di più pericoloso ci sia per il cuore dell’uomo. Poi non si capisce più nulla, basta vedere (o immaginare) che un uomo noto (magari un politico) dichiaratamente cattolico, sbagli, e subito si grida allo scandalo. 
Perdendo di vista che la partita che ci interessa non è innanzitutto per la moralità, la partita vera e decisiva è per la felicità. 

Soprattutto non si capisce che la fede non è un’ennesima sovrastruttura, qualcosa per fissati. Ma è qualcosa per gente che si vuole davvero godere la vita, attimo per attimo. E siamo sempre in viaggio, sempre soggetti ad errori. Ma la strada è bella, e non è definita dagli errori. Abbiamo ancora un lungo cammino davanti e siamo felici di poterlo percorrere”, come dice Carron nella bella lettera a La Repubblica del primo maggio.
Fuori piove e io (ri)scopro, che se porto intorno questo sguardo, questa coscienza più tenera e rispettosa di quanto esiste dentro e fuori di me, sono meno nervoso, meno teso. Mi piacerebbe essere così, come un albero che aspetta il sole e la pioggia, e respira. 
Questioni di essere presi in braccio, alla fine. Come la frase di Sant’Ambrogio che era cara a Don Giacomo Tantardini, che tanto ha insistito, fino alla fine, sulla semplicità della fede.

Vieni dunque, Signore Gesù… Vieni a me, cercami, trovami, prendimi in braccio, portami. 

Quando comprendiamo che abbiamo davvero bisogno di essere portati in braccio, possiamo vedere accadere miracoli. E’ quando finalmente cediamo ad un Altro, che comincia lo spettacolo.
E’ molto più bello essere cercato dalla Verità, che cercarla. Credere è ammettere di poter essere cercati, in fondo. Questo ribalta tutta la questione. Cambia il verso della freccia. Ci permette una salutare passività. Non oziosa, ma contemplativa. Come davanti ad una cosa bella.

Che bello quello che ha detto Carròn ai funerali“don Giacomo ci ha testimoniato la bellezza dell’essere cristiano e ha trascinato tanti di noi dietro di lui. “

L’albero davanti a me. Ecco. Un albero non si giudica, per esempio. Vive e respira. Le radici ben piantate nella terra, sa cosa lo tiene in piedi. Io non giudico nessuno, nemmeno me stesso esortava tanti anni fa Don Luigi Giussani. 
Rileggo. Volevo dare a questo post un’atmosfera, un senso meno diretto, più allargato, errante. Un procedere in linea curva, docile, non rettilineo. Come pensieri durante un giorno di pioggia… Non so se ci sono riuscito, alla fine mi faccio prendere la mano, cerco istintivamente di trovare una tesi e dimostrarla… e non è quello che conta, non contano le parole. 
Anzi, alle volte ci vuole un vuoto di parole, uno spazio di silenzio.
Perché conta questo, la dolcezza del cuore, quando si sente grato.

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Sul primato della geografia

A volte ci metto un po’ per capire delle cose. Capirne il significato vero, oltre le parole.

“…non perché siamo bravi, ma perché accettiamo di essere all’interno di un luogo dove Lui ci fa capire, sperimentare, gustare Chi è e quindi, cosa è la vita, cosa può essere la vita”
(Julian Carron, “L’inesorabile positività del reale“)

Meditavo su questo passaggio stamattina, uscendo dalla palestra. E’ qualcosa che fa una differenza radicale, completa; di quelle differenze capaci di cambiare la vita. Mi sono visto alla luce di questa frase e improvvisamente ho capito qualcosa di me. Ho sempre cercato la “prestazione” e mi sono giudicato, severamente, su questa. Essere capaci di raggiungere un certo “standard”, spirituale, morale, etico, familiare, lavorativo, etc… Raggiungerlo, tenerlo, nel tentativo di porre argine all’insicurezza, al dubbio, alle occasionali derive di mancanza di senso.
Ma che bello spreco di energia, a pensarci.
Si perché invece è una cosa tutta diversa. Non è una questione di standard etici (“non perché siamo bravi”), ma di semplice geografia. Scegliere dove stare e non tormentarsi più sul come si è. Stare nel luogo dove Lui ci fa capire, ecco. Stare. Tutto qua, tutto qua! La vita è semplicissima. Stare in questo luogo, e non preoccuparsi più di niente. Stiamo, e lasciamo fare. Sarà Lui a preoccuparsi di noi.

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Guardare, prima di tutto… !
Quanto mai vero per Parigi, non vi pare?

Il bello è che riesco a sorprendere questa cosa “in atto”. E’ una cosa di ogni momento, di ogni più piccolo attimo. Se non accetto di essere all’interno di questo luogo, mi attacco immediatamente, per sentire la consistenza di me, ad uno standard, ad una “prestazione”: mi giudico. Non lo dico, ma pongo la salvezza in un mio cambiamento. Mi costringo in gabbia da solo. Guardo me e non guardo fuori. Non guardo davvero i posti, la realtà.
C’è aria stantìa, c’è proprio bisogno di cambiare: ci vuole geografia, non moralismo. La bellezza di un luogo, non la costrizione di un ragionamento, la pericolosa sterilità di un nefasto perfezionismo.

Lo ammetto: non mi piaceva la geografia da giovane studente. Agricoltura, industrie, terziario. La lista di cose da memorizzare per ogni regione, ogni più piccola nazione. Dopo tanti anni, mi devo ricredere. Un bel posto è un bel posto, non si discute. E si stratta prima di tutto di guardare, che di pensare a come comportarsi. Stare in un luogo e scoprirne pian piano la bellezza.

E la vita, infatti, diventa più bella. Da subito.

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Natale tra amici…

Ci sono le cose che ti rallegrano al mattino. Quando ti svegli un pò incerto sull’umore che devi prendere, quando ti senti pesante di tanti piccoli compromessi, di tante cose non risolte che ti porti dentro, di tante zone d’ombra con cui convivi. A volte ogni mossa sembra una fatica, ogni passo un’impresa. Nel dubbio quasi ti blocchi. Vorresti la felicità subito e ti senti trattenuto da tanti lacci, incongruenze, mezze decisioni, dubbi. Ti guardi dentro e ti scopri così incapace ad amare davvero, quanto vorresti. 
Ci sono queste cose che ti prendono di sorpresa, allora, e ti rallegrano al mattino. Come quando apri il computer e vai a leggere un articolo, con la curiosità che deriva dalla fiducia che accordi a chi scrive. Leggi appena qualche riga de La tentazione del Natale, l’articolo di Juliàn Carron apparso su L’osservatore romano di oggi, e nonostante pensi di non poter essere sorpreso (In fondo, tante volte la tentazione è di non aspettarsi granché dal Natale. dice proprio)… caspiterina, sei sorpreso! 
Sei più che sorpreso, sei commosso. Perché, non c’è mica niente da fare, trovi esattamente le parole che ti servivano, che sembrano, per qualche misteriosa coincidenza cosmica, pronunciate e scritte proprio per te, esattamente per il tuo io che sta leggendo in questo momento! Esattamente.
«Il Signore revoca la tua condanna», cioè il tuo male non è più l’ultima parola sulla tua vita; lo sguardo solito che hai su di te non è quello giusto; lo sguardo con cui ti rimproveri in continuazione non è vero. L’unico sguardo vero è quello del Signore. E proprio da questo potrai riconoscere che Egli è con te: se ha revocato la tua condanna, di che cosa puoi avere paura? «Tu non temerai più alcuna sventura». Un positività inesorabile domina la vita.
Questo me lo rigiravo in testa stamattina, mi sorprendevo a commuovermi davvero. Le parole che mi servivano, trovarmele davanti, così. “Lo sguardo solito che hai su di te non è quello giusto; lo sguardo con cui ti rimproveri con continuazione non è vero“. Mi sono sentito improvvisamente accolto, voluto bene… amato. Uno si scioglie e si commuove se è amato, sennò tenta di fare il duro. Trovando solo durezze. Ma se è amato… oh, è tutto un altro discorso, si aprono diecimila possibilità. Si intravede ogni bellezza. Brilluccica anche, pur se appena intravista, una “positività inesorabile”.

Così dico grazie, grazie Juliàn per farti tramite di questo Amore, per insegnarci che siamo amati. Sempre e comunque.
E un altro segno bello lo trovo, un altro percorso brillante, bello, lo intravedo dal post di Alessandro D’Avenia, che ho avuto il privilegio di incontrare in una libreria di Roma, non molti giorni fa (vedi il post su questo blog)
“…c’è per me una bellezza che non si rovina, che non si rompe, che non c’entra con il nettare e l’ambrosia, con la proporzione e l’armonia, ma c’entra con la vita quotidiana, con il sudore, i capelli, la pelle, le mani screpolate, la fatica, lo sco­raggiamento, la tristezza, la paura, il falli­mento, il sangue, il freddo e il sonno. Una bel­lezza senza perfezione. Una bellezza che c’en­tra con tutto, perché tutto ha attraversato. U­na bellezza fecondata da limiti e sproporzio­ni, per partorire ciò che non passa. Io questa bellezza cerco. Questa bellezza nasce per me. In una stalla.”

Questo anche mi dà calore, mi dà speranza, conforto. Ne ho bisogno, per la vita, non per un fatto intellettuale. Proprio per la vita.
Questi sono alcuni dei miei amici, li sento amici, e sono grato per la luce che gettano su questi giorni. Ho bisogno di essere aiutato, condotto per mano, a capire. Alla gioia. Ho bisogno di camminare preso per mano, e sto capendo – mi ci è voluta quasi una vita – di quanto mi servono per il cammino, mia moglie, i miei amici, tutti quelli che testimoniano che c’è un cammino che può essere percorso. A volte faticoso, ma bello. E’ una lotta, spesso tento di sottrarmi al fatto semplice di camminare. Eppure ogni volta uno torna sul sentiero, con sempre più ragioni per farlo.
C’è una bellezza che non si rovina, che non si rompe… che c’entra con la vita quotidiana. 
Auguri di buon Natale 🙂
Riprodotta per gentile concessioni di Euresis.org

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Gustarsi il tempo…

Non ci può essere vera felicità se ci si gioca su un atteggiamento sleale verso la moglie, la famiglia. Dal coraggio di capire che si è davvero a casa, che non ci può essere situazione migliore, che le fantasie sono solo fantasie (percezioni distorte per fragilità, impazienza dell’attesa di un compimento), viene la letizia e la pace. 
E viene perché non è una cosa fine a se stessa, non è per un inutile buonismo, uno sterile moralismo. Nemmeno può essere per un quieto vivere (che brutto e sottilmente disperato sarebbe un “quieto vivere” senza un’apertura, un respiro, un riverbero di un Altro!). E’ come una umile domanda, una ricerca di un incanto, di un prodigio, “Il prodigio che tutti aspettiamo“. Il compimento del desiderio del cuore.
Altrimenti il tempo vincerebbe, come sempre vince se non c’è (o non si riconosce) una radice che non muore, che non ha scandalo del passare del tempo. “Mia giovinezza non ti ho perduta / Sei rimasta, in fondo all’essere” dice Ada Negri. 

“Luci della sera”
(scatto di oggi per Picplz)



Essere in se stessi, nella propria storia, trovarci il fondamento, stupirsi della sua consistenza… questo dà pace. Questa pace, questa sicurezza, permettono la creatività e l’efficacia del proprio stare nel mondo. Insieme, sono la risposta più solida alle paure e alle nevrosi.
Bisogna avere una radice, per fiorire. Per gustarsi il tempo.

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