Blog di Marco Castellani

Tag: citizen science

Troppi dati, caro Hubble!

Se non proprio perfetta, questa galassia è senz’altro una delle più fotogeniche. In pratica, un piccolo universo contenente miliardi di stelle, a circa quaranta milioni di anni luce da noi, in direzione della costellazione Dorado.

La bellissima galassia NGC 1566
Crediti: ESANASAHubbleProcessing: Detlev Odenthal

Sarà che anche l’orientazione aiuta, perché NGC 1566, il nome in codice di tanta bellezza, è posta in modo tale che la vediamo esattamente di fronte. Per l’anagrafe una grande galassia a spirale, esibisce due bracci che si avvolgono delicatamente su distanze immense, definendo così delle zone di intensa formazione stellare e sede di diversi ammassi stellari, graziosamente evidenziate dalla luce di colore violaceo che ne fuoriesce.

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Il colore dell’universo

Di che colore è l’universo? Intendo, se tutto fosse omogeneizzato e spalmato uniformemente, che colore verrebbe fuori da questa pasta cosmica? L’interrogativo parrà ozioso, ma è emerso in una imponente ricerca scientifica che ha tentato di determinare il tipo di stelle più comuni nelle galassie vicine. La risposta, in breve, la trovate qui sotto.

Crediti per il colore: Karl Glazebrook & Ivan Baldry (JHU)

In termini computeristici, #FFF8E7. Per arrivare a questo risultato, gli astronomi hanno mediato tramite computer, la luce rivenienti da ben duecentomila galassie, dal progetto 2dF. Il nome è stato poi scelto tramite un sondaggio in rete. Tra i più votati, gli scienziati hanno selezionato “Cosmic Latte”, per l’intenzionale rimando ad una parola italiana, Latte, in omaggio alla lingua parlata da Galileo Galilei. Altro motivo, il collegamento (ovvio e doveroso) alla Via Lattea e al suo specifico colorito.

Personalmente trovo motivi di consolazione in questa immagine, così semplice. L’universo non è buio, l’universo è chiaro, di color latte. Prima cosa che andrebbe meditata quando siamo un po’ giù, e tendiamo a indugiare sul colore nero proiettandolo magari fino alle stelle. Comprensibile, certo: ma non (più) supportato dalla scienza, possiamo dire. Non è bello questo? Anche, apprezzo l’omaggio di ricercatori non italiani (Karl Glazebrook e Ivan Baldry) ad uno scienziato del nostro paese.

Il latte è un nutrimento, un sostegno alla crescita. L’universo condensato e compresso in un colore oggi viene fuori di latte (in altre epoche aveva altri colori). Sarà un caso? Mi piace pensare ad un messaggio, che è un messaggio di sostegno e aiuto alla crescita. Alla crescita umana, nel caso specifico.

Non solo, là fuori, è pieno di stelle. C’è un nutrimento cosmico che ci aiuta e ci spinge in avanti, a fare i passi necessari nell’esplorazione di stelle e galassie. E di noi stessi.

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Scatti, dalla “grande congiunzione”

Le stelle si impicciano di quello che accade sulla Terra, altroché. Non ci credo troppo, sul fatto che le stelle stanno a guardare. E i pianeti anche, altroché. Un allineamento di pianeti è un evento che si rifrange in diecimila storie, come viste e vissute da posti differenti. Da cuori, differenti.

Congiunzione, in panorama italiano. Crediti: Cristian Fattinnanzi

Sono belle queste immagini – una galleria in crescendo come riporta il sito APOD – perché ci parlano innanzitutto di noi. Ci parlano di come sulla Terra, da tanti luoghi della Terra, si sia guardato alla grande congiunzione di ieri. E ogni posto ha un suo colore e una sua luce, un suo carattere e un suo profumo. Ogni persona che ha scattato la foto, che ha guardato il cielo, ha una storia unica, ha una profondità ed insondabilità propriamente cosmica.

Sono belle queste immagini perché parlano di noi, innanzitutto. Così, è bello il cielo perché è un modo per parlare di noi, senza immediatamente mettere noi al centro.

Forse il mondo più vero di tutti, per parlare di noi.

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… la pittura, per Giove!

Davvero, sembra proprio un quadro post-impressionista! Sono le bande ed i vortici dell’atmosfera gioviana, ma ritratti in modo da catturare l’occhio, ben oltre il dettaglio scientifico, fino ad apprezzarne l’innegabile bellezza. 

Ancora una volta questa meraviglia ci viene da un sapiente mix di scienza e creatività. Open science, potremmo meglio dire. E’ infatti la scienza trasportata a Terra dalla sonda Juno, di cui più e più volte abbiamo parlato, che sta gironzolando intorno a Giove – il pianeta gigante – e mettendo il naso nella complessa e variegata atmosfera del pianeta, sede di fenomeni così complessi che ancora sono ben lungi dall’essere adeguatamente compresi.

Di fatto, il grado di dettaglio della nostra conoscenza dei corpi del Sistema Solare sta aumentando a livelli mai immaginati prima. E come sempre, per ogni cosa che si comprende, aumentano le domande, si aprono nuove incognite. Come la dinamica precisa dei moti atmosferici di Giove, appunto.

E la scienza diventa Open Science, perché i dati messi a disposizione di tutti, dal sito NASA, vengono “catturati” e rielaborati per scopi creativi, come ha fatto – in questo caso – Rick Lundh.

A dimostrare che il dato scientifico grezzo è in realtà appena più di una asettica registrazione di un fenomeno, è un campo aperto di possibilità. Sempre e comunque, tutte da esplorare.

Crediti immagine: NASAJPL-CaltechSwRIMSSSProcessingRick Lundh

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Tutto il lato “rosa” di Giove…

Il pianeta Giove, visto finalmente da vicino (grazie alla sonda Juno) continua ad essere fonte di grande meraviglia. In particolare, per la complessità mirabolante dei fenomeni atmosferici che avvengono ad alta quota, e che ora si possono veder con un grado di dettaglio assolutamente sorprendente.

Crediti immagine: NASA/JPL-Caltech/SwRI/MSSS/Matt Brealey/Gustavo B C

Questa foto che vedete, decisamente suggestiva nella sua tonalità rosa, è stata acquisita da Juno il giorno un mese e mezzo fa, quando si trovava a trascorrere il suo undicesimo passaggio ravvicinato al pianeta gigante (e gassoso, come sappiamo). In quel momento la distanza dalle nubi era di poco più di dodicimila chilometri: un’inezia, in pratica, se consideriamo che la distanza media tra Giove e la Terra si aggira intorno ai 780 milioni di chilometri. 

Da lì arrivano i dati di Juno, che dunque traversano una distanza immensa, per essere poi raccolti a Terra ed elaborati secondo quanto è più opportuno per rivelare volta per volta la straordinaria complessità di questo peculiare ambiente planetario. L’immagine che vedete è stata elaborata dal citizen scientist Matt Brealey, usando creativamente i dati grezzi, messi a disposizione di tutti dalla NASA, nel sito apposito.

La sonda spaziale Juno è stata lanciata ad agosto del 2011, e continuerà la sua missione verso l’estate di quest’anno, al termine della sua dodicesima orbita in cui ha raccolto dati scientifici.

Per intanto, tutto fa pensare che i regali di Juno non siano affatto finiti.

Anzi.

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Il turbolento polo nord di Giove

Questa nuova vista acquisita dalla sonda Juno della NASA, che sta gironzolando da tempo attorno a Giove, appare davvero straordinaria per bellezza e qualità del dettaglio. Ormai queste sonde moderne, possiamo dirlo, ci stanno abituando assai bene.

Crediti: NASA/JPL-Caltech/SwRI/MSSS/Björn Jónsson

L’immagine, a colori esaltati, è stata acquisita il 16 dicembre dello scorso anno, quando Juno era impegnata nel decimo passaggio ravvicinato al pianeta gigante. Nel momento dello scatto, la sonda si trovava a poco più di ottomila chilometri sopra le nubi che ricoprono Giove.

La bellezza che potete ammirare (cliccate sulla foto e vi ci potete facilmente perdere…) è dovuta in buona parte all’eccellente lavoro del citizen scientist Björn Jónsson: uno dei tanti appassionati, “non addetti ai lavori”, che ha scaricato i dati grezzi dal sito NASA, ha sottratto gli effetti dell’illuminazione globale, ha aumentato il contrasto e rinforzato i colori, e ha esaltato i particolari su piccola scala.

Nel complesso, un lavoro davvero egregio, che a sua volta premia ed esalta lo sforzo fatto dagli scienziati di mestiere (per quanto questa definizione vada forse sfumando, come vediamo): tutto quel lavoro che c’è dietro una moderna impresa scientifica e tecnologica come la sonda Juno, appunto.

La regione è quella del polo nord di Giove: non ci si confonda dall’orientazione della foto, che in effetti potrebbe trarre in inganno. Le foto di Juno non “abbellite” sono disponibili al sito https://www.missionjuno.swri.edu/junocam  per chiunque voglia cimentarsi in una riproposizione creative, che può essere – come in questo caso – estremamente efficace.

Il cielo è di tutti – scienziati e non. Tutti lo rendiamo migliore, con questo lavoro comune. Come probabilmente deve essere.

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Gaia e lo Zoo: quando la scienza (ri)diventa possibile

Siamo decisamente in epoca di Big Science: la ricerca spaziale è dominata da grandi progetti che sono frutto della collaborazione di molte persone, disperse sovente su tutto il pianeta. Un esempio eclatante – solo uno tra i tanti – è la missione GAIA, da poco entrata in piena attività, destinata a fare un censimento di una porzione di Via Lattea di dimensioni mai viste prima: un catalogo accurato di miliardo di stelle.

Gaia è un progetto ESA, ovvero Agenzia Spaziale Europea, ed è un caso emblematico di quello che si può intendere per Big Science: è un satellite al quale si lavora da anni, da molti anni prima del lancio, e si sta lavorando alacremente tuttora: rifinendo continuamente le procedure di analisi e riduzione dati, verificando le condizioni della sonda, digerendo i primi dati che sta inviando a Terra, etc. 

Gaia è sopratutto una sfida esaltante – sia sotto l’aspetto tecnologico quanto sotto quello squisitamente scientifico – che promette di portare avanti veloce la nostra concezione di come è fatta la Via Lattea, ma pure di come si formano ed evolvono galassie simili a questa (e sono tante), e quindi, in qualche modo, di come si sviluppa e si evolve l’universo.

A livello di percezione comune, tuttavia, il rischio è che simili enormi progetti possano far sentire più lucidamente del dovuto, la distanza tra questi grandi team e le persone “normali”. Portando all’estremo uno scollamento che rischia di scoraggiare e incutere un timore reverenziale decisamente controproducente, ed anche – in qualche modo – fuori posto. Certo, perché la scienza comunque è un’avventura di tutti, e questi progetti sono comunque finanziati da tutti noi: qui in particolare, da noi cittadini d’europa.

Ma la Big Science è comunque un segno. Che qualcosa è cambiato.

Cerco di spiegare: mi aiuterò con un esempio.

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Un tempo, bastava uno di questi sassi, e una mente aperta e curiosa…

Photo Credit: ouyea… via Compfight cc

Ai tempi di Galileo, per fare scienza di punta, se ci pensate, bastava raccogliere un sasso. Salire su una torre (pendente, anche meglio), osservare come cade. Ragionare. Derivare un’evidenza. Stop. 

Analizziamo la cosa, sotto l’aspetto dei costi e della fattibilità.

Finanziamenti: praticamente zero.

Preparazione: raccogliere un sasso (pochi secondi). 

Attuazione: salire sulla Torre e lasciarlo cadere (da qualche minuto a qualche decina, dipende da quanto si sale in alto e dalle proprie condizioni fisiche).

Tempo di analisi dei dati: pochi secondi.

Come vedete, per un esperimento capace di rivoltare come un calzino il quadro scientifico consolidato al tempo – per cui oggetti di peso diverso cadrebbero a diverse velocità – ed autorevole (Aristotele dopotutto non era l’ultimo arrivato…), è bastata una persona con un po’ di curiosità e una attrezzatura veramente minimale.

Per un’impresa moderna come GAIA lavorano di solito centinaia di persone da molti anni prima che il satellite stesso venga perfino assemblato. Ci vogliono finanziamenti così ingenti che solo un’ente transnazionale tipicamente può affrontare l’impresa. Poi, per giunta, si prevedono anni ed anni per analizzare i risultati, e derivarne le evidenze scientifiche.

E con tutto quanto, non si prevede certo un sovvertimento del quadro della fisica teorica, pari a quello di Galileo! 

GAIA è lontana un milione e mezzo di chilometri, al momento (più o meno). Ma il rischio è che sembri ancora più lontano dai cuori e dalle possibilità delle persone comuni. Che non ne percepiscano l’indubbia carica di entusiasmo che ha permesso a tanti ricercatori di lavorarci e di portarla fino a lì (nel secondo punto largrangiano, per la precisione). 

Insomma, se c’è qualcosa che la scienza moderna ha inavvertitamente “rubato” alle persone, è la sensazione che ognuno possa fare scienza, possa indagare la struttura del mondo semplicemente con gli occhi aperti e la voglia di capire: come è accaduto per millenni. C’è come un senso di “tutto già fatto” che rischia di rubarci la legittima curiosità per il mondo e le sue meraviglie. 

La gente ascolta le imprese scientifiche più mirabolanti, veri sogni che si condensano e prendono sostanza, al telegiornale o nelle trasmissioni specialistiche, e le avverte come cose magari avvincenti ma comunque, nella sostanza, inavvicinabili. 

Ed è un peccato: la scienza è di tutti, deve esserlo. Almeno, io ne sono convinto. E’ un patrimonio potenziale di stupore, di conoscenza e di meraviglia, che è sempre stato dell’uomo, di ogni uomo, e ne ha pieno diritto. Nessuno può rubarlo, nessuno deve. 

Al dunque, siamo destinati a patire questo scollamento tra grande scienza e mondo comune, subirlo come inevitabile? 

Forse no. Ci sono segnali incoraggianti. 

Se la tecnologia – con la sua complessità stratificata crescente – ha allontanato la scienza dai cittadini, la stessa tecnologia forse la può riavvicinare. Può anzi condurli di nuovo protagonisti come non lo potevano essere da molto tempo. Non possiamo che guardare con grande interesse allo sviluppo della citizen science che tipicamente sfrutta le potenzialità e la pervasività di Internet per chiamare il grande pubblico di nuovo all’avventura di fare scienza,  invitandolo a collaborare effettivamente e fattivamente a progetti di primario valore.

In questo la stessa deriva ipertrofica della grande scienza ci aiuta. I dati, volenti o nolenti, stanno diventando talmente abbondanti, che semplicemente gli scienziati non bastano più, per esaminarli e per ricavare dei risultati, delle correlazioni interessanti.

Lo specialismo ad oltranza qui non paga. Bisogna allargare. Bisogna richiamare tutti a questo lavoro, tutti quelli che sono interessati, a prescindere dalla loro specifica preparazione.

Ecco dunque sorgere la citizen science, senza retorica, la vera scienza del cittadino.

Uno dei più importanti e “antichi” esempi, in ambito astronomico, è certamente Galazy Zoo, di cui ci siamo già occupati. Il progetto consente a chiunque abbia a disposizione un computer collegato ad Internet, di lasciare la sua specifica impronta in una impresa scientifica rilevante e di grande importanza, come la classificazione delle galassie. Come ben dice lo “strillo” sul sito,

Per comprendere come si formano le galassie abbiamo bisogno del tuo aiuto a classificarle secondo la loro forma. Se sei veloce potresti essere addirittura la prima persona a vedere le galassie che devi classificare. 

C’è tutto sul sito per mettersi all’opera rapidamente: una procedura di addestramento guidato e la possibilità, appreso il semplice meccanismo, di iniziare a fare vera scienza, praticamente da subito.

Un po’ come fosse tornato Galileo, solo che invece di sasso e piuma (stando all’aneddoto) ci porta un computer ed un browser.

L’effetto è lo stesso: tutti possono – di nuovo – partecipare alla scienza di frontiera.

E i risultati, quelli non mancano (basta scorrere l’elenco di pubblicazioni sul sito). L’ultimo è piuttosto clamoroso: grazie all’ingente lavoro di classificazione, dovuto allo sforzo congiunto di centinaia di migliaia di persone, gli scienziati sono giunti alla conclusione importante che le galassie si sono stabilizzate nella loro forma circa dieci miliardi di anni fa. Ovvero, ben due miliardi di anni prima di quanto si pensasse.

E’ certo un’acquisizione importante: come l’esperimenti di Galileo, smuove un quadro consolidato portando un modo di vedere fresco e “dirompente”. Per di più, reso possibile soltanto per la massiccia partecipazione di entusiasti volontari. 

Certo: non sarà come demolire una teoria aristotelica (d’altronde, quello è già stato fatto).

In ogni caso, non è poco.

E sopratutto, non è per pochi.

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