Blog di Marco Castellani

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Educarci allo spazio

Devo dirlo, anche a rischio di apparire utopista: io credo che quella nuova umanità che tutti indistintamente attendiamo, dovrà avere – quasi a pelle – una percezione del cosmo molto più viva di quella che abbiamo noi ora.

Siamo ancora immersi in una poderosa stortura, se ci pensiamo: siamo dentro uno spazio immenso e pieno di cose da guardare – che sfidano la nostra immaginazione – ma facciamo perlopiù finta di niente. Cose da guardare, come questa qui sotto: l’ammasso di galassie Abell 2744 ripreso dal James Webb, una poderosa fusione di tre distinti ammassi di galassie a circa tre miliardi e mezzo di anni luce da noi.

L’ammasso di galassie Pandora
Crediti: NASAESACSA, Ivo Labbe (Swinburne), Rachel Bezanson (University of Pittsburgh), Processing: Alyssa Pagan (STScI)

Può essere un caso che soltanto in quest’epoca abbiamo accesso ad immagini come questa, soltanto ora il cosmo si svela ai nostri occhi in una ricchezza soverchiante di varietà e di configurazioni, davvero da travalicare ogni pensiero? Basta fare un giro nell’ammasso di Pandora (la voce che accompagna è in inglese ma già le immagini giustificano il viaggio) per accertarsene oltre ogni dubbio.

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Vita nel cosmo

Argomento di sicura attualità, viste le ricerche sempre più insistenti e precise che i nuovi strumenti ci permettono. La ricerca della vita nel cosmo, le prospettive, le sensazioni, le possibili sorprese. E anche le grandi burle, come quella dell’Ottocento, riguardante la Luna (nella quale ci cascarono in tantissimi) …

Riascolta la chiacchierata che ho fatto con Alberto Negri di SpazioTesla, la sera del 6 marzo scorso. E se vuoi, fammi sapere nei commenti qui sotto, la tua opinione!

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La musica del cosmo

Il testo di una canzone può essere letteratura? Ai tempi delle mie scuole medie (secolo scorso), le parole de La Guerra di Piero del grande Fabrizio De André (a proposito del quale Stefano Sandrelli ha recentemente dialogato con ChatGPT) con stupore le vidi comparire nel mio sussidiario, gomito a gomito con quelle di ben più blasonati poeti.

Immagine di Davide Calandrini – @davidecalandrini 

All’epoca avevo un po’ troppo forte addosso il senso di cultura come roba polverosa ed antica, ma mi parve buffo che una persona che ineriva al mondo vivo della canzone (un mondo che dialogava costantemente con le mie emozioni e i miei sentimenti, come fa anche adesso), potesse guadagnarsi un posto lì. La domanda mi segue fin da allora: ci stava bene quel testo nel sussidiario? Era il suo posto? Non ci provo nemmeno a rispondere: so che la domanda continuerebbe comunque a pungolarmi, di tanto in tanto… [Continua a leggere sul portale EduINAF]

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Cosa è la scienza

Sono anni difficili. Il ragazzo alla cassa del supermercato notava stamattina, giustamente, che nemmeno si è usciti dal COVID che già si affacciano alla coscienza le avvisaglie di una nuova guerra mondiale (e speriamo che così non sia).

Forse sono i tempi esatti per chiedersi di nuovo, la natura delle cose, delle parole. Smettendo di dare tutto per scontato. Sono infatti tempi rifondativi, o tempi di collasso. Quel che è tolto di mezzo, brutalmente, è la possibilità di vivere in uno strato intermedio, in una zona tiepida dove sostanzialmente si viene spinti avanti in modo abbastanza inconsapevole.

Secondo me, è questo il tempo giusto per tornare a chiedersi cose fondamentali e scomode, tipo cosa è la scienza. Di riferimenti alla scienza ne abbiamo assorbiti (e subiti) in gran quantità, negli ultimi tempi. Sospinti dal lo dice la scienza oppure questo non è scientifico oppure la scienza ha torto, sballottati da tabelle e proiezioni di andamenti di contagi, di decessi, di guarigioni, c’è stata una spinta fortissima a rendere scientifico quasi ogni respiro, oppure – per ritorsione mentale, o rimbalzo – a rigettare tutto questo, cercando più confortevole dimora in visioni alternative e pseudoscientifiche, in ragioni paradossali di scenari improbabili, in un mix di superstizione e favolistica associata, vibrazioni cosmiche e negazionismi estremi.

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Scorrimento verticale

Dalla scienza possiamo certamente imparare, e anche ben oltre la sua area di azioni, la sua ampiezza legittima di intervento. Imparare cioè, non solo come si comporta il mondo fisico, ma fare nostra l’attitudine che la scienza stessa richiede, per il processo di scoperta. In realtà (mio umile parere) è ciò che la fa davvero interessante. E non solo per gli scienziati o gli appassionati, ma per tutti.

Per professione indago il cielo secondo il metodo scientifico, che molti secoli fa un certo Galileo Galilei mise a punto, consegnandoci uno strumento formidabile, flessibile abbastanza da costituire un ottimo framework per gli scienziati attuali. Che ancora (nonostante tutti gli sforzi) migliore non ce n’è. E sì, dichiararsi “astrofisico” fa ancora effetto, nonostante tutto. Insomma, esiste una magia della volta celeste, magia che viene percepita da donne e uomini anche lontanissimi dalle questioni di scienza. Un tesoro di potenziale attenzione e passione che non va assolutamente disperso. Va amorevolmente custodito e incentivato, quando possibile.

Tornando al tema: una cosa nella quale lo studio delle stelle mi sfida continuamente, è la gestione della complessità. Mi pare qualcosa di molto moderno, molto contemporaneo. Credo vi sia qui un vero messaggio che noi scienziati dobbiamo prima far nostro, sopportando tutta la fatica del caso (siamo donne e uomini anche noi, con la nostra buona parte di inerzia mentale), per poi lasciar fluire fuori. Semplicemente, è un messaggio troppo importante perché rimanga confinato in un ambito ristretto.

A Galileo “bastava” puntare il cannocchiale al cielo, 
registrando quanto vedeva… 

L’astrofisica (come molte altre discipline) è davvero costretta ad abbracciarla questa scomoda complessità, a farci casa. Penso al caso di Gaia, tanto per rimanere su qualcosa a me familiare. Un telescopio (bel progetto dell’Agenzia Spaziale Europea) in orbita alta – a un milione e mezzo di chilometri da Terra – che ci ha già permesso di costruire un catalogo di quasi due miliardi di stelle (impresa senza precedenti). In fondo è l’analogo moderno di quello che ha fatto Galileo, puntando il cannocchiale verso la volta celeste. La prosecuzione esatta del suo stesso lavoro, per quanto la tecnica rende oggi possibile. Non c’è alcuno scarto, è un cammino naturale che da Galileo porta a Gaia. Ma se per Galileo (con il dovuto rispetto) le cose erano abbastanza semplici, per Gaia appaiono un tantino più complesse.

Il percorso alquanto complesso che deve attraversare una singola “misura” di Gaia, dall’osservazione in avanti,  prima di poter entrare nell’archivio. Crediti: ESA website


Così stanno le cose. Esiste ormai una complessità irriducibile che va inevitabilmente affrontata, per estrarre un solo dato scientificamente valido. Una complessità che si articola ad ogni livello: da quello dello strumento di indagine utilizzato a quello intrinseco del campo che si vuole indagare. Del resto leggiamo la natura ad un livello sempre più elevato di finezza, e questo è sempre più sfidante, tanto a livello teorico quanto a livello tecnico. Praticare la vera scienza (non la pseudoscienza e i suoi derivati) rappresenta – oggi più che mai – un allenamento preziosissimo a gestire il pensiero complesso.

Questo mi sembra di capire: l’Universo risulta tanto complesso quanto noi “sopportiamo” che sia, momento per momento. Dal cielo delle stelle fisse, dal modello stazionario in avanti, fino ad affacciarsi alla prospettiva tipica della nostra epoca, di un cosmo in espansione accelerata in cui avvengono continuamente ogni sorta di fenomeni di differente energie e su diverse scale spaziali, con una varietà che davvero pare non avere fine. Progettare e realizzare strumenti di indagine più evoluti equivale – di fatto – ad abilitarsi a ricevere un segnale più sofisticato dal cosmo, che verifica o smentisce le teorie attuali e allo stesso tempo invita a salire ad un livello più alto di complessità, ad intraprendere un dialogo con il mondo naturale su un parametro nuovo di finezza, potremmo dire. E non c’è indicazione, per ora, che questa progressione continua, questo dialogo su livelli sempre più fini, possa avere un termine, possa trovare un confine.

Cavoli. Il pensiero complesso è una sfida continua. Qualcosa che non è facile da sostenere per molto tempo, per chiunque. La tentazione di individuare scorciatoie interpretative – tanto di un fenomeno fisico quanto di una problematica sociale – è sempre in agguato. Le pseudoscienze spesso si sviluppano proprio dietro un’idea interpretativa molto semplice, che rassicura e fornisce un apparente riparo contro un grado di complessità che spaventa, in quanto difficile da padroneggiare.

Perché il punto è questo: si tratta di praticare un atto di umiltà, introdursi in un mondo che non possiamo dominare nemmeno in senso dialettico, su cui non possiamo esercitare alcun tipo di potenza o prepotenza. Un mondo che non ci appartiene, ma esonda continuamente dalla nostra misura, ci indica sempre altro, ci spinge a decentrarci continuamente (in analogia stretta a come siamo decentrati cosmologicamente). E questo non sempre fa piacere, non appare normalmente agevole.

Nel dialogo su temi sociali e politici adottiamo spesso degli schemi interpretativi, dei filtri che semplificano il reale e sembrano (finalmente) ordinarlo secondo parametri che possiamo ben controllare. Anche qui, infatti, la complessità ci spaventa. Accidenti, non sappiamo proprio come affrontarla. Ci piacerebbe trovare uno schema che – come un grande magnete in un campo di limatura di ferro – orienti tutto verso una certa polarità, ci dia la confortante sensazione di avere la chiave di interpretazione di quello che accade. Ed anche – perché no – il brivido sottile di “avere capito cosa c’è sotto”, che risulta enormemente gratificante per l’ego.

Peccato che tutto questo avvenga ad un prezzo. Ed è che la ipersemplificazione del reale porta spesso a costruire tesi che rischiano – a dispetto della loro attraente sobrietà concettuale – di non essere affatto incisive sul mondo. Poiché infatti risentono di una forte attitudine ideologica, non sono abbastanza docili ai fatti, alla loro continua mutevolezza, alla loro connaturata impermanenza.

Qualche piccolo esempio. Uno schema (che andava di moda alcuni anni fa, più che ora) è interpretare il conflitto sociale come semplice lotta tra le classi, porta ad una indebita semplificazione riducendo drammaticamente i parametri in esame, fornendo magari risposte per ogni occasione, ma risposte “di plastica” che inevitabilmente risentono della povertà dell’analisi, e come tali si dimostrano insufficienti per ogni azione pratica, anche infarcita di abnegazione e buona volontà.

Un altro schema è quello (decisamente di maggiore attualità) che rintraccia nell’azione più o meno occulta di determinati “poteri forti”, votati alla loro autoconservazione e al loro ampliamento, la spiegazione di una larga serie di dinamiche politiche e sociali. In particolare, tutti sappiamo come pullulino interpretazioni “alternative” dell’attuale emergenza sanitaria che più o meno pesantemente attingono alla nozione di Big Farma, come entità sovranazionale capace di stravolgere e determinare le politiche sanitarie, che sarebbero così ultimamente guidate da criteri di profitto e non da considerazioni di salute pubblica.

Certo, nemmeno qui è lecito semplificare. I poteri forti esistono, non è in questione. Agglomerati di interessi si conoscono e si incontrano quasi spontaneamente, individuando strade per custodire e rilanciare gli interessi comuni. Sono uno dei fattori in gioco. Non certo l’unico, però. Ricorrere a questi come “motore ultimo” di tutto quanto accade, è probabilmente semplicistico.

Il tratto caratteristico di questi schemi di massima, mi pare, è la refrattarietà all’analisi paziente dei particolari, alla rilevazione della “grana fine” che ogni porzione di realtà custodisce e può esporre, come dicevamo, se adeguatamente interrogata. Manca la voglia e la pazienza di analizzare diligentemente il mosaico: al contrario, si pretende di giungere subito ad un momento di sintesi, che permetta di descrivere tutto con ridotto contenuto informativo, in un modo che sia facile da assimilare e propagare.

Non mi interessa arrivare ad alcun punto, che non sia questo richiamo a rispettare la complessità di un fenomeno, di un avvenimento, di una emergenza, della gestione di una pandemia (quello che volete). L’informazione complessa spaventa, annoia. Vorremmo avere tutti delle facili chiavi interpretative, ridurre tutto a pochi byte di informazione, perfettamente portatili, perfettamente spendibili sui social. La banalizzazione e l’estremizzazione di un punto di vista lo spogliano della sua intrinseca rete di articolazioni e lo mutano in una piccola capsula, perfettamente rilanciabile e pronto per i vari like, i plausi, le manifestazioni prefabbricate di indignazione, l’esecrazione spicciola manifestata in pochi secondi. Prima di passare ad altro.

Ha ragione Samuele Bersani, siamo ormai tutti campioni nazionali di scorrimento verticale e anche se sappiamo che questo non ci aiuta a capire, alla fine non ci interessa. Ci piace troppo, farci catturare da emozioni semplici, comprensibili, elementari. Facilmente condivisibili, spendibili su Internet.

Sono appena uno scienziato, non mi voglio improvvisare sociologo, predicatore, analista del costume. Come scienziato mi limito a questa “semplice” osservazione: gestire propriamente la complessità, acconsentire a che ogni fenomeno sia interpretabile a prezzo di una fatica nel vagliare il grado di compresenza di differenti narrazioni, non è immediato, non ci viene facile. A me, almeno, non viene per niente facile: d’istinto vorrei ridurre ogni problema alla mia interpretazione, riducendo i gradi di libertà del fenomeno e innalzando alte mure contro ogni diversa visione (perché lo confesso, alla fine tutte queste opinioni differenti dalla mia, mi danno fastidio).

Il fatto è questo: posso certamente farlo, posso anche guadagnare diversi like e perfino prosperare nella mia bolla informatica, ma perdo mordente nel comprendere il reale (e qui praticare un po’ di vera scienza, aiuta a capirlo). Se è questa comprensione che cerco autenticamente, forse devo mettere in conto la fatica di una analisi, che riparta ogni mattina da un onesto lavoro di scavo, di indagine paziente.

Rifuggendo le semplificazioni: comode, ma fallaci.

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Accelerazione

A volte non ci rendiamo conto di come le cose siano in accelerazione, sia a livello umano che a livello cosmico, e dunque non facciamo quell’utile lavoro di decifrazione del dato, che ci consentirebbe – nei tempi lunghi che richiede – di vivere su questo piccolo pianeta in modo forse un pelino più consapevole. Di capire, insomma, un poco meglio, cosa sta accedendo.

Appare indubbiamente assai efficace la traslazione della storia dell’universo nell’intervallo di tempo – assai più “comprensibile” a livello umano – di un secolo appena, operazione che compie il filosofo e poeta Marco Guzzi, in un video recente (estrapolato dal corso Darsi Pace). Davvero ci fa capire come le cose si stiano muovendo con una furia di accelerazione impressionante. E mi fornisce lo spunto per qualche piccola considerazione a sfondo cosmologico.

Allacciate le cinture, la velocità è in aumento… 

Va subito detto che, come viene anche specificato in apertura del video, questo lavoro di ricomprensione è possibile soltanto adesso: appunto, solo da pochissimi anni, da quando abbiamo scovato (andando a vedere le “pieghe” impercettibili dell’eco primordiale del Big Bang) questo valore, i fatidici 13,82 miliardi di anni che rappresentano (secondo le stime più recenti) l’età dell’universo.

Insomma, tutto questo interessante discorso, sarebbe stato semplicemente privo di senso financo per il giovane Einstein, cresciuto nella percezione – allora incontestata dagli scienziati – di un cosmo esistente da sempre, e sempre uguale a sé stesso. Incomprensibile, perfino per lui. E parliamo di un uomo che ha rivoluzionato la fisica moderna, definendo un quadro concettuale in massima parte ancora valido. Insomma Einstein, non Keplero. Un uomo del novecento. Un uomo molto vicino a noi, nella linea temporale. 
Già. E’ incredibile come accelerino le cose. Se ci penso, non posso trattenere la meraviglia. Ancora da bambino, ricordo come fossi sicurissimo che domande come “quanto è grande l’universo” oppure appunto “quando è nato” non appartenessero all’ambito dell’indagine scientifica, né vi sarebbero mai potute appartenere, semplicemente perché strutturalmente  refrattarie ad ogni indagine empirica.

Mi sbagliavo. E mi sbagliavo di grosso.

La storia della scienza ha dimostrato, in pochissimi anni, come domande che erano rimaste – praticamente da sempre – appannaggio del mito o della religione, abbiano inaspettatamente trovato una risposta compiutamente scientifica. Ovvero, falsificabile, perfezionabile, verificabile a piacere. Ha spazzato via in pochi decenni convinzioni ed architetture di pensiero (come quella dell’universo stazionario) che duravano da millenni interi, che hanno permeato il sentire di generazioni e generazioni.

Piuttosto impressionante. Una rivoluzione più epocale del modo di concepire il cosmo, forse non è pensabile, in tutta la storia umana. Ed avviene, praticamente, adesso.
Non i nostri nonni, non i nostri padri. Non gli antichi, o gli uomini del secolo scorso. No. Siamo esattamente noi – voi che avete l’ardire di leggere queste righe (altra cosa incredibile, a pensarci) – nel punto preciso di svolta della storia umana, nel punto esattissimo in cui l’universo si osserva e “dice qualcosa” su di sé. Prende coscienza, in un certo senso. Perché noi, perché siamo nati adesso? Viene il capogiro a cercare di capirlo, a cercare soltanto di figurarcelo.
C’è un’altra cosa, ancora più generale, che si innesta sorprendentemente bene in questa catena di evidenze. Non solo la storia dell’uomo sulla Terra è in furiosa accelerazione, ma anche, come abbiamo scoperto da pochissimi anni (e che peraltro è valso un premio Nobel a tre tizi di nome Saul Perlmutter, Brian Schimdt e Adam Reiss), l’universo stesso è impegnato – a livello globale – in una espansione accelerata, che pare non conosce né fatica né ostacoli.
Fino a pochissimi anni fa si pensava piuttosto ad un Universo in fase più o meno di rallentamento, che si sarebbe prima o poi avviato verso una progressiva contrazione, avendo ormai esaurito la spinta iniziale (perdonatemi la grossolanità di questa sintesi, ma per capirci). I dati, come spesso accade, si sono fatti largo prima di tutto forzando la mente degli stessi scienziati, increduli di fronte a quanto essi stessi stavano scoprendo.
Il quadro attuale, in estrema sintesi, è questo: una (ancora) misteriosa energia, agisce spingendo ogni cosa lontana da ogni altra, accelerando a ritmo furibondo questa espansione già impressionante.
E dunque. Perché scopriamo solo adesso (e di conseguenza, lo”viviamo” solo adesso) il fatto che l’intero universo sia in accelerazione? Pensiamo ancora che sia casuale?

Non sono esattamente sicuro che le cose che scopriamo attraverso la scienza – come quelle che elaboriamo attraverso l’arte e le altre discipline che definiscono la consapevolezza del tempo presente – non abbiano un preciso significato per noi, qui ed ora. Non ci aiutino a definire un compito, un lavoro (che c’entra perfino con il motivo per cui siamo nati, oserei dire). 

Allora, dobbiamo proprio farlo questo lavoro quotidiano, dobbiamo innestare queste considerazioni cosmologiche proprio ed esattamente nella percezione di vita dell’uomo di oggi, nella sua carne, nel suo stesso respiro. Anche per questo la scienza è patrimonio comune, anche per questo la scienza è importante. Per tutti, ma proprio per tutti.

Perché un cosmo che ci parla (e che di nuovo, magari, si fa raccontare), con il quale recuperiamo un atteggiamento di relazione, è il segno di un ritrovato (benedetto) desiderio di camminare verso l’unità di noi stessi, è un segno – strano ma vero – di un possibile ritorno verso un maggior equilibrio mentale e una compiuta apertura della coscienza.

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L’infinito di stelle

Così si chiama la bella canzone che apre l’album (straordinario, epico, mirabolante, destinato a restare) Mina Fossati, ed questo infinito di stelle mi torna in mente, mentre rifletto sui primi capitoli del libro di Amedeo Balbi, L’ultimo orizzonte. Cosa sappiamo dell’universo.  
Sì perché mi sembra proprio questo, mi sembra che ci sono cose a cui praticamente, non pensiamo mai. Nonostante siano cose enormi, siano questioni che definiscono e rinormalizzano la nostra stessa posizione nel mondo. Il modo in cui pensiamo e ci pensiamo, nel (nostro) universo. E non può essere che tutto questo non abbia impatto, in qualche modo –  anche involontario e irriflesso- sulla nostra vita quotidiana, su come ci rapportiamo agli altri, su come carezziamo il cane o nutriamo il gatto, sul modo in cui pensiamo al prodigio della nostra nascita, al mistero della nostra morte.

Le stelle non sono infinite. E per questo, ognuna di loro è speciale…
I primi capitoli del libro di Amedeo, trattano proprio di cosa c’è intorno. La grande questione, se siamo dentro un universo infinito, magari sempre uguale a sé stesso nel tempo e nello spazio (principio cosmologico perfetto, come si dice tra gli addetti ai lavori), oppure se quello che c’è intorno a noi è quantificabile, misurabile, è definito in termini di massa presente, di spazio occupato.
Io direi, davvero, che fa tutta la differenza del mondo. 
Certo oramai lo sappiamo – non ci spendo molte parole – che lo scenario cosmologico oggi comunemente adottato è quello del Big Bang, un “momento iniziale” da cui è derivata ogni cosa del nostro mondo fisico. Il quale, appunto, è finito (anche se non necessariamente limitato) derivando proprio dall’espansione – sia pur accelerata – di quel momento esplosivo (diciamo) al tempo “zero” del nostro universo. Abbiamo ormai accumulato una grande serie di dati che confermano questo scenario: sempre il nostro Amedeo, ne parla in modo interessante in uno dei suoi video.

Ma a parte i dettagli, andando dritto alle implicazioni filosofiche di questa teoria: un tempo iniziale, uno sviluppo, definisce molto limpidamente un prima e un dopo, il che si presenta come una irreversibile infrazione del principio cosmologico perfetto, che pure ha tenuto banco per molto, molto tempo. 

Come descritto nel bel volume di Amedeo, perfino Einstein si oppose al Big Bang: di fatto, perfino un fisico “moderno” come lui affondava le sue convinzioni nell’antico (e tenace) presupposto di un cosmo sempre uguale a sé stesso, in ogni tempo e ogni posizione. Quel presupposto che un universo in espansione (come crediamo sia il nostro) manda completamente a gambe per aria.

E rifletto su come sta cambiando il nostro modo di pensare, come ci stiamo adeguando a quanto ci dice la scienza.  O meglio, al modo in cui il cosmo risponde – oggi – alle nostre domande. Anche se avviene tutto molto, molto velocemente, ci stiamo adeguando. Difatti, non riesco a pensare davvero ad un universo infinito pieno di stelle, mi sfugge proprio, mi sfugge da ogni parte. L’idea di materia infinita è qualcosa che la mia mente non riesce ad afferrare, esulando da ogni esperienza sensibile.

Forse allora il Big Bang con la sua quantità finita di materia ed energia, è una cosa a noi più congeniale. Più ancora di quell’universo non solo illimitato ma anche infinito, pieno di stelle, di un infinito di stelle che propagandosi in ogni direzione sempre uguale a sé stesso, alla fine sfugge completamente ad ogni rappresentazione mentale convincente.

Ma poi se le stelle fossero infinite, sarebbero così tanto preziose? Così belle? Le stelle, le galassie, mi sembrano tanto più mirabili se penso che sono tante, tantissime, ma sempre numerabili.

Nell’infinito di oggetti, ogni oggetto conta zero, alla fine. Di oggetto come lui ce ne sono senza limiti, la sua esistenza è inessenziale. Nel nostro Universo, invece, ogni cosa (sia un essere vivente, una galassia, un pianeta, una luna) conta. In modo infinito, direi. Proprio perché non è l’infinitesimo componente di una serie. Proprio perché è unico. 

Ed essendo unico, arricchisce l’universo in modo specifico.
Un arricchimento di importanza decisiva.
Probabilmente, infinita.

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L’ordine naturale delle cose…

Scrive lucidamente Jeremy Rifkin che
Il nuovo concetto della natura è sempre l’argomento più importante della matrice che costituisce ogni nuovo ordine sociale. In tutti i casi, la nuova cosmologia serve a giustificare la giustezza e l’inevitabilità del nuovo modo in cui gli esseri umani stanno organizzando il proprio mondo, presupponendo che la natura stessa è organizzata secondo linee simili. Ogni società si può così sentire rassicurata dal fatto che il modo con cui conduce le proprie attività è compatibile con l’ordine naturale delle cose e, inoltre, è un giusto riflesso del grande disegno della natura.
Non è dunque casuale la cosmologia che ogni epoca umana si trova a dover affrontare. Non è semplicemente una questione di progresso lineare della cultura scientifica, mentre appare piuttosto come uno specchio del sentire diffuso e comune, quel substrato condiviso che informa tanto lo scienziato più specialistico come la persona più aliena da ogni velleità scientifica.
E’ come percepiamo il cosmo, e intendo in senso veramente ampio, ovvero tutto quello che sentiamo esterno a noi stessi. Il cosmo, in questa accezione, è veramente molto presente, perché inizia appena dove finiscono le mie dita, ed è anzi quell’ambiente dove le mie dita, le mie mani, la mia attività e la mia volontà si esercitano.

Chiaramente il modo in cui percepisco il cosmo informa profondamente ogni mia azione, oserei dire, ogni mio respiro. E questo cambia continuamente.
Ci avverte Marco Guzzi d’altra parte che

… l’ordine del mondo (cosmologico, politico, conoscitivo, e perfino morale) non è statico, non è definito una volta per tutte, ma è storico, si dà cioè temporalmente, attraverso una processualità di mutazioni sostanzialmente “rivoluzionarie” (dalla rivoluzione copernicana in poi)

Difficile negare che stiamo attraversando un’epoca di insicurezza, di crisi che sovente si ripercuote dal livello meramente economico a quello esistenziale. Diceva il celebre sociologo Zygmunt Bauman, pochi mesi prima di morire, che
il sentimento di “insicurezza” deriva da una miscela di incertezza e ignoranza: ci sentiamo umiliati perché inadeguati al nostro compito, e la conseguenza è il crollo della stima e della fiducia in noi stessi. È qualcosa che riguarda tutti.

Non a caso questa insicurezza si riverbera nella percezione del cosmo.

 Così nel il cammino storico, dove ci sembra di aver percorso tutto, esplorato e bruciato tutto (impeti rivoluzionari, ideologie, tirannie…) dove le stesse democrazie liberali mostrano impietose i loro limiti. Ci sembra, in altri termini, di conoscere molto di più degli uomini di qualche tempo fa, di essere avvertiti e disincantati allo stesso tempo, come pure di essere arrivati ad un punto di confusione, di stallo. Di conoscere e non conoscere allo stesso tempo — o perlomeno di non avere la conoscenza necessaria per agire in modo costruttivo nell’agone sociale.

Così è interessante notare come questa situazione, di sapere di non sapere, si ritrova mappata nella nostra percezione del cielo, in cui mai come in questi esatti anni, si coniuga un senso di comprensione globale con una eclatante consapevolezza di profonda ignoranza. E non come la immaginiamo, ma come la scienza contemporanea ce la porge, ce la dipinge.
Non è quel cosmo che poteva avvertire sopra la propria testa una persona come Cartesio, come Newton. E’ un cosmo più chiaro, di cui possiamo finalmente dire scientificamente il momento di nascita, l’estensione, certo-— ma al contempo immensamente più complicato e misterioso.
Un cosmo in ultima analisi più morbido rispetto al meccanicismo implacabile con il quale lo abbiamo vissuto in passato, un cosmo elettrizzante, in un certo senso, perché si apre di nuovo ad un intervento profondo e creativo dell’uomo, finalmente libero perché finalmente liberato (e sempre da liberare ancora) da un meccanismo stolido di azione-reazione, affrancato da un reticolo di dinamiche freddamente impersonale.
Scrive ancora Marco Guzzi,

L’uomo è inserito in questo processo storico con la propria libertà creativa, può cioè intervenire attivamente, non deve solo prendere atto di un mondo esterno sovrastante e bloccato e adeguarvisi, ma può interagire appunto creativamente col darsi storico del mondo. La creatività umana è dunque reale e radicale, in quanto la sua libertà è reale e radicale: per cui l’uomo, si potrebbe anche dire, trascende sempre il mondo dato.

Fino ad arrivare al nodo reale, al punto intorno al quale possiamo lavorare, verso una nuova comprensione di noi stessi, come uomini: una comprensione che restituisca a noi stessi la nostra creatività (in ogni senso, dal cosmologico all’artistico, passando per l’agire sociale)

D’altronde se il sistema del mondo (cosmico come politico) fosse chiuso in sé (bloccato in una necessità tragica e fatale, come il cosmo greco), che spazi di libertà autentica e quindi di creatività radicale avrebbe l’uomo?

C’è spazio per la creatività, dunque, intorno a noi, in noi? Abbiamo affondato le nostre radici su un terreno tanto solido da sgretolare quella disgraziata stazionarietà, sia cosmologica che mentale, che nega sottilmente l’utilità e la unicità del nostro attraversamento del cosmo, per quanto breve possa essere, rispetto alle scale di vita delle stelle, delle galassie?
Una sfida culturale, artistica, cosmologica, ormai non più procrastinabile.

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