Più volte ci siamo richiamati alla necessità di pensare un cosmo accogliente, uscendo dall’arcaico (ma perdurante) teatro concettuale che ci descrive un universo freddo, statico, indifferente a noi. Constatata la necessità, dobbiamo ammettere al contempo che non ci viene facile: c’è come una resistenza, una forza di inerzia, che viene esercitata in senso contrario a questo nostro desiderato e fondamentale percorso di liberazione psico-cosmico.
Senza girarci troppo attorno, credo sia lo stesso assetto della società in cui viviamo, che esercita questa resistenza. Il sistema neoliberista (efficacemente definito da Marco Guzzi come “estremizzazione del pensiero economico-liberale che porta alla cancellazione di ogni limite per il mercato e, quindi, di ogni controllo da parte degli stati nazionali nei confronti di entità multinazionali e delle corporations”) – che si espande ormai in uno spazio vuoto, non incontrando più la pressione contrastante di visioni differenti – ha assoluto bisogno di persone che non lo contestino, che si accontentino, che non sia accorgano, soprattutto, di essere re o regine.
Noto anche come l’ammasso di Pandora, si chiama in realtà Abell 2744 e si trova a circa tre miliardi e mezzo di anni luce da noi.
La cosa intrigante è usarlo come lente gravitazionale. Gli astronomi hanno utilizzato questo fantastico effetto per osservare galassie primordiali che altrimenti sarebbero del tutto inosservabili. In particolare, nel caso di Abell 2744 si è evidenziata una galassia di sfondo, chiamata UHZ1, con un redshift (lo spostamento verso il rosso della luce, legato alla distanza da noi) che raggiunge l’incredibile valore di z=10.1.
Stiamo dunque osservando un oggetto visto quando il nostro universo aveva appena il tre per cento dell’età attuale. In altre parole, stiamo maneggiano una cartolina che il cosmo ci ha spedito quando era veramente un bimbo. Innumerevoli le cose che possiamo comprendere da questi dati.
Si chiamavano un tempo le “stelle fisse”. Ora non ci sono più, in un certo modo. Siamo noi infatti che, in qualche senso, diamo densità di esistenza al cielo, lo strutturiamo secondo i nostro modelli mentali, a loro volta derivanti dalla nostra evoluzione di pensiero. Il cielo delle stelle fisse non c’è più non perché non vi sia mai stato, ma perché ora vediamo le cose sopra la nostra testa in modo differente.
Il paradigma attuale, cui siamo invitati ad entrare – in senso culturale prima ancora che strettamente scientifico – è che tutto si muove, tutto cambia, niente è fermo, tutto ha una sua storia, diciamo. Non ci sorprenderà troppo dunque, che in questo senso continuino ad arrivare conferme. L’ultima è che anche le strutture più estese, quegli immensi filamenti cosmici che percorrono le galassie e possono essere estesi anche centinaia di milioni di anni luce, sono anche essi coinvolti in dinamiche di movimento, in giganteschi moti di rotazione.
La faccenda è stata determinata tramite simulazioni al computer, di ben diciassettemila fili galattici. Non è ancora ben chiaro il meccanismo che porta questi fili immensi a muoversi, è più chiaro il messaggio che possiamo conservare: a qualsiasi scala guardiamo, troviamo un Universo che si muove, che evolve, che è irresistibilmente dinamico.
Non c’è più tempo per un Universo fermo, stazionario. Adesso, è ora di muoversi, di creare, di giocarsi nel mondo. Di rischiare qualcosa. Lo dicono le teorie, ma già lo sentiamo, in fondo, anche dentro di noi.
Sono passati cento anni appena, e questo ci dovrebbe far riflettere. Di quanto in cento anni è cambiata la nostra percezione del mondo, dell’universo. Abbiamo appena dietro le spalle il periodo di cambiamenti più accelerati, probabilmente, di tutta la storia della nostra millenaria indagine riguardo la struttura ultima del cosmo.
Gli scienziati vi si riferiscono come al Grande Dibattito, ormai, senza altre qualifiche, e prende le mosse proprio nel 1920. La cosa di cui si discute è probabilmente l’ultima grande questione di una tale rilevanza “cosmica” che l’umanità si trova davanti (fino ad una nuova sorpresa, ovviamente).
Esiste solo la nostra Galassia o ce ne sono altre? E’ stranissimo a pensarci, ma solo cento anni fa questa domanda aveva una pertinenza di freschissima attualità. Era la domanda cosmologica fondamentale. E’ difficile realizzare compiutamente quanti passi avanti abbiamo compiuto, da allora, come è cambiata la nostra percezione dell’universo in così poco tempo.
Non è troppo diverso da quel che si pensava un tempo, alla fine. Ovvero, è sempre possibile mettersi al centro di tutto, e non è necessariamente un danno. L’importante – vorrei dire – è esattamente nel come lo si fa. Se è un passo che compiamo con tracotanza ed arroganza, oppure con tremore e timore. Cambia tutto, anche se il centro è lo stesso, il punto focale rimane invariato. Geometricamente la stessa cosa. Esistenzialmente, un ribaltamento completo di prospettiva.
Per questo non mi disturba pensare la Terra – oggi, nel 2018 – al centro dell’universo, perché in un certo senso è davvero il centro. E’ il centro dell’universo osservabile, quello cioè di cui noi possiamo avere esperienza.
Nell’illustrazione artistica, ripresa da APOD, si spazia con andamento logaritmico dall’universo vicino (quello prossimo al centro, con i pianeti del Sistema Solare) alle regioni più lontane, disseminate di galassie delle forme più disparate. Fino poi alle regioni estreme con cui possiamo venire a contatto, che sono quelle dalle quali, passati i filamenti di materia primordiale, ci giunge solo la radiazione di fondo cosmico, ovvero l’eco del Big Bang, quel grande scoppio da cui il nostro cosmo si è originato.
E questo è tutto. Oppure no?
Vediamo. I cosmologi ritengono che l’universo osservabile sia parte di qualcosa di ben più grande, un “universo” che contiene delle parti (anche abbastanza estese) con le quali non possiamo assolutamente venire a contatto, perché – sostanzialmente – oramai troppo lontane a causa dell’espansione accelerata, tanto che nessun segnale può giungere fino a noi. E’ una zona a noi completamente preclusa, ci piaccia o no.
E questo è proprio tutto, stavolta. Oppure…
Vediamo. C’è chi argomenta che anche il nostro universo potrebbe essere “semplicemente” un esemplare di una specie di costellazione di universi (che ordinariamente sono isolati uno dall’altro), dove magari vigono anche leggi fisiche differenti. Per dirla tutta, ci sono anche delle teorie per le quali in ogni istante l’universo si divide in una miriade di altri universi.
Mi sto riferendo alla cosiddetta interpretazione a molti mondi della meccanica quantistica. Certo non la sola ad ipotizzare una collezione di universi, oltre al nostro. Ma sicuramente una delle più pazzesche, solo che ci si pensi un momento.
C’è da dire che queste idee, seppur indubbiamente suggestive (e percolate, significativamente, nella percezione comune), non sembrano avere – almeno al momento – alcuna possibilità di verifica nel senso scientifico, o comunque di falsificazione nel senso popperiano: per farla breve, non c’è modo di dire se sono giuste o sbagliate. Possiamo pensarne quel che vogliamo, tanto non c’è da fare esperimenti o misure (almeno, per ora) per decidere.
Semplicemente, perché di altri universi – per definizione – non possiamo avere alcuna conoscenza (altrimenti sarebbero comunque parte del nostro, anche in senso filosofico). Per noi dunque c’è un mondo, semplicemente uno.
E non è poco, vista l’estensione e l’abbondanza che lo contraddistingue. E tenuto anche conto che ancora, di questo universo, dobbiamo – davvero – comprendere quasi tutto.
Anche, oserei dire, come viverci nel modo migliore, più bello.
Niente. Quando muore uno scienziato di questo calibro, la notizia trascende velocemente l’ambito strettamente accademico, supera il confine degli addetti ai lavori. E coinvolge irresistibilmente un ambito ben più vasto, ben più ampio e variegato della solita cerchia.
Non fosse un evento tragico, si potrebbero fare considerazioni su come la scienza sia in realtà sempre molto presente nell’immaginario collettivo. Sia come sotto traccia, pronta a venire fuori, ad esondare, in particolari occasioni: l’abbiamo visto più volte, può essere un atterraggio di una sonda su un pianeta lontano, l’uscita della Voyager I dal Sistema Solare, il tuffo finale di Cassini dentro Saturno.
Tanti spunti per ricordarci che il nostro mondo è grande come l’universo. E il nostro mondo, ci interessa. Il suo perenne mistero, ci cattura.
E’ questo, secondo me: la sete di infinito, la voglia di conoscere almeno qualcosa di questa sconfinata immensità in cui siamo lanciati, a bordo i un pianetino ai margini di una galassia gigantesca, ebbene quella sete rimane viva, sempre. A volte scorre sottotraccia, appena coperta dagli strati un pochino polverosi della vita quotidiana. Ma rimane viva. E’ lì, e riguarda tutti.
Capire che ci stiamo a fare nell’universo, non può più prescindere dal capire l’universo. Almeno un po’. E lui ci ha provato, ci si è speso fino all’ultimo, nel capire.
Così ieri mattina seguivo i messaggi su Twitter con l’hashtagStephenHawking e comprendevo con inequivocabile evidenza – se pur servissero altre evidenze – come questa figura di scienziato sia entrata profondamente nel cuore delle persone (molto al di là del grado molto specialistico delle sue ricerche). D’accordo: il fatto di essere un grande scienziato, ed insieme affetto da una penosa malattia invalidante, ha certo contribuito a creare il suo mito. Ma non è solo questo, probabilmente non è solo questo. Il fatto di non arrendersi mai è stato determinante, da come mi pare di capire.
I messaggi su Twitter si succedevano a gran velocità, e moltissimi davano – come è giusto – un condiviso tributo di ammirazione per il suo coraggio di andare avanti, di cercare, fino alla fine.
Gli diedero due anni di vita, lui se ne prese cinquanta e ne fece un capolavoro. Grazie Stephen Hawking.
Mettiamola così, in modo molto semplice. La gente ha bisogno di vedere che c’è chi non si arrende, di fronte anche a difficoltà grandi. Le persone ne hanno bisogno, per proseguire il proprio viaggio nel cosmo, in questo spicchio periferico ma tutto speciale di spaziotempo. Anche, per sentire più “amico” questo universo, più praticabile. Più percorribile. Per non sentirsi persi nel vuoto.
Oggi più che mai, infatti, per tanti versi ci sentiamo spaesati, a volte senza una guida, senza un manuale di istruzioni. La gente ne ha bisogno davvero, cerca un esempio, un modello, cerca qualcuno da ammirare. Mutatis mutandis, potremmo dirlo anche – accenno solo un paragone che potrà sembrare azzardato – per Giovanni Paolo II, per quell’eroismo semplice e sofferto che ha contraddistinto i suoi ultimi anni di pontificato, che ha colpito e catturato ben oltre la cerchia di chi si professa cristiano.
Lo so, per alcuni versi due figure agli antipodi, perché sappiamo cosa pensava il nostro scienziato del rapporto tra scienza e fede. Eppure gli antipodi sono un residuo di una visione geometrica cartesiana, un po’ semplicistica. Lo spazio tempo – ormai lo sappiamo bene – è mobile, permeabile, fluttuante, imprevedibile, modificabile. Gli opposti si incontrano, si baciano (e infatti i due si sono incontrati, e anzi Stephen ne ha incontrati altri tre, di papi). Gli opposti, del resto, sono un frutto della mente giudicante, divisiva, non certo della mente che si apre all’infinito. Ecco, lì non c’è contrapposizione, le forse si unificano procedendo verso il punto focale. La geometria cartesiana – troppe volte impalcatura indiscussa della nostra testa – si sfalda, non regge. E’ vecchia.
C’è spazio per chi ha una visione e la segue con forza, sia pure con vis polemica, la argomenta, la innerva di ragioni. E’ sempre un’apertura. Solo i tiepidi non aggiungono niente, non aggiungono sapore all’alchimia universale.
E poi, se vogliamo davvero: non era conciliante con la spiritualità o la religione, ma era stato lo stesso accolto all’Accademia Pontificia delle Scienze (e questo è semplicemente bellissimo, secondo me). A proposito, segnalo che proprio il quotidiano cattolico Avvenire peraltro oggi esce alla grande con un bell’articolo di Piero Benvenuti(inpassing, ex presidente del mio ente, l’Istituto Nazionale di Astrofisica) che assai intelligentemente si smarca subito dal possibile inghippo di vetuste contrapposizioni, ed inquadra in un contesto ampio e aperto l’opera e la visione di questo grandissimo scienziato…
Preferisco onorare la sua memoria pensando che egli abbia voluto richiamare la nostra attenzione, anche con forme provocatorie, sulla necessità impellente che la filosofia e la teologia non ignorino i messaggi provenienti dalla cosmologia attuale, soprattutto dalla evoluzione globale ed unitaria dell’universo.
Non c’è bisogno di altro, perché cadremmo nella retorica. E non è proprio il caso.
Chiudo con un piccolo ricordo personale, se mi è concesso. Moltissimi anni fa – ero un ragazzetto – forse per la prima volta sentii parlare di lui da un altro astrofisico, da mio papà. E ricordo ancora benissimo, a distanza di decenni, l’ammirazione e perfino la commozione con cui ne parlava (ricordo il luogo dove eravamo, quasi le impressioni più minute). E per me già basterebbe questo, per dolermi della sua scomparsa.
Addio Stephen, ora le stelle le vedi, davvero. E sono sicuramente sfolgoranti.
Guardate bene l’immagine qui sotto. Straordinaria, nel suo livello di dettaglio, non trovate? Ebbene, se pensate che sia una parte dell’Hubble Deep Field o comunque una immagine reale dello spazio profondo, acquisita con qualcuno dei più grandi telescopi a terra o nello spazio, siete in errore (ma pienamente giustificati, viste le circostanze). La cosa notevole è che non state guardando una vera immagine dell’universo, ma una simulazione teorica.
Settanta milioni di elementi per questa simulazione, che rende pienamente conto della varietà dell’universo: galassie ellittiche, nane, interagenti. E anche vuoti. E filamenti. Grazie alla potenza degli attuali elaboratori, il modello si avvicina sempre più alla realtà così come la osserviamo. Crediti immagine: Becciani U. et al.
Per la precisione, l’immagine mostra la bellezza di settanta milioni di elementi ed è ottenuta da una simulazione ad N corpi creata attraverso VisIVO(Visual Interface for the Virtual Observatory). VisIVO è una collezione di software open source con il quale si possono realizzare immagini da dati astrofisica su larga scala. Con tale software – e con simili tecnologie informatiche – gli astronomi sono ora in grado di processare enormi set di dati, anche provenienti da diverse sorgenti, e combinarli in visualizzazioni tridimensionali, che risultano estremamente accurate.
Così l’universo osservato e l’universo simulato si avvicinano sempre di più, magari in un futuro arriveremo ad un livello di dettaglio ora impensabile… chissà, se noi stessi fossimo una simulazione molto ben realizzata, da qualche ignota civiltà? Scenario da fantascienza, abbastanza irreale ma comunque suggestivo, almeno dal punto di vista letterario!
Tornando… con i piedi per terra (ma il naso in sù come sempre), è interessante anche il fatto che il computing power che ha reso possibile questa simulazione sia tutto italiano: precisamente, viene dal Consorzio Cometa, una rete grid di computer (ovvero, una infrastruttura di calcolo distribuito, di solito usato per l’elaborazione di ingenti quantità di dati) sparsi su sette diversi siti, tutti localizzati in Sicilia. Cometa fornisce l’accesso alla bellezza di 250 CPU e ben due terabyte di spazio di memorizzazione.