Wislawa Szymborska (1923-2012) è stata una poetessa e saggista polacca insignita del Premio Nobel per la Letteratura nel 1996. Splendida la sua capacità di intrecciare l’ordinario con l’universale, il quotidiano con il cosmico. La sua poesia si distingue per l’ironia, la curiosità e un senso di meraviglia che abbraccia tanto il mondo umano quanto quello cosmico. Ed è proprio questo che mi interessa, adesso. Per questo, ne scrivo.
“Tempo del femminile, tempo per tutti” Elaborazione dell’Autore attraverso Copilot Designer di Microsoft
Nelle poesie della Szymborska – per le quali mi appoggio alla traduzione di Pietro Marchesani, dal bel volume che tutte le raccoglie, La gioia di scrivere – le stelle e il cosmo non sono mai semplicemente scenari lontani e inaccessibili. Al contrario, esse diventano metafore potenti per esplorare la condizione umana, il mistero dell’esistenza e – come stiamo per vedere – il nostro stesso ruolo nell’universo… [Continua a leggere sul portale Edu INAF]
Gli articoli redatti dall’intelligenza artificiale sono – ancora forse per un po’ – facilmente riconoscibili: sono piatti, pieni di buon senso misurato ma senza spessore, senza punti di climax, senza concessioni all’emotività, con una attenzione esagerata a considerare il punto di vista più neutro possibile. Insomma sono mortalmente noiosi, almeno a questo stadio di evoluzione dell’IA.
Anche per questo, io non sono tra quelli che fanno scrivere i pezzi a ChatGPT. Mi diverto di più a scrivere personalmente. Ma questo non vuol dire che rinunci a fare esperimenti, per vedere se in qualche misura questa nuova tecnologia mi può essere d’aiuto. E l’aiuto spesso arriva, inutile negarlo.
A volte però è un aiuto un tantino avvelenato.
Per un articolo che sto scrivendo per la mia rubrica su Edu INAF (che dovrebbe apparire sul sito giovedì 30 gennaio) ho posto a ChatGPT alcune domande relative alla poetessa Wisława Szymborska (premio Nobel per la poesia 1996). Mi interessa particolarmente, come potrete comprendere, il suo rapporto con il cosmo.
L’idea era di raccogliere le buone idee eventualmente fornite dalla macchina automatica, per poi rielaborarle secondo la mia sensibilità, tanto per essere sicuri di non lasciar fuori nulla di importante. E integrarle nel mio pezzo, in via di scrittura.
I più non saranno d’accordo, ma io sostengo che il primo a capirlo è stato Vasco. Con la lungimiranza tipica dei veri artisti, ce l’ha cantato chiaro, già molti anni fa. Addirittura, era il marzo del 1987 e all’epoca nessuno ancora ci pensava, ma lui già era avanti, molto avanti. C’è chi dice no, è la canzone in oggetto.
Davvero, nessuno ci pensava. Perché a quell’epoca, non solo non c’era Webb, ma perfino Hubble (con tutti i ritardi che ha accumulato) contrariamente ai piani iniziali, doveva ancora essere lanciato (per la cronaca, lo sarà solo tre anni dopo). E lui però l’ha detto, è incontestabile. E bisogna dunque dargli il dovuto credito.
“I conti non tornano”, generata mediante Copilot Designer di Microsoft
Le parole sono difficilmente equivocabili, peraltro.
C’è qualcosa che non va In questo cielo C’è qualcuno Che non sa Più che ore sono
Adesso, lasciamo pur stare le ultime tre strofe, che già da sole aprirebbero un discorso assai complesso sulla nostra percezione del tempo, sul crollo moderno del concetto di simultaneità, messo in crisi dal logico sviluppo della fisica relativistica: un cambio di paradigma che Vasco descrive in modo così compiuto e succinto, da far invidia a Ungaretti… [Continua a leggere sul portale Edu INAF]
Alla fine, cosa mette in connessione stabile scienza e poesia? Ritengo che sia molto semplice: come forse abbiamo già scoperto, percorrendo le varie tappe di questa rubrica.
Provo a dirlo in un modo sintetico. Entrambe cercano di farci comprendere l’ambiente in cui viviamo, lo spazio che occupiamo. E rendercelo più abitabile. Tutto qui, in fondo: certo, se con ambiente intendiamo tanto quello esterno (lo spazio propriamente detto) quanto quello interno (sentimenti, emozioni). Le connessione tra i due spazi sono virtualmente innumerabili (secondo diverse correnti di pensiero, in realtà si tratta di un solo spazio: celebre la frase di Agostino, l’anima è in qualche modo, tutto), e l’indagine appassionata in essi procede sempre nelle due direzioni, interna ed esterna. Altrimenti si lascia fuori qualcosa. Qualcosa altrimenti si spezza, e i frammenti dispersi, proiettati con violenza verso orbite irregolari, rendono tutto più opaco, più doloroso, meno trasparente. Inquinano lo spazio.
“La poesia apre nuovi universi”, immagine generata mediante Copilot Designer di Microsoft
Mantenere l’unità di tutto è essenziale, ormai non è più un optional. Oggi non basta la sola poesia, non serve la sola scienza. Sono zoppicanti, se pensate da sole. Serve cementare la loro profonda amicizia, urge anzi – pur bruciando le tappe – suggellare il loro matrimonio [Continua a leggere sul portale Edu INAF]
Certe volte guardo il cielo i suoi misteri le sue stelle Ma sono troppe le notti passate senza te Per cercare di contarle
Esperienza recente, per molti di noi. D’estate infatti è più facile avere occasione di guardare il cielo, lontano dai centri urbani, dove il buio è ancora degno di tale nome. E di scoprirlo, quasi inaspettatamente, pieno di stelle. Il che porta, sovente, a risultati imprevedibili. Perché magari si attivano misteriosi collegamenti interni, perché le stelle dicono qualcosa per ognuno.
“I suoi misteri e le sue stelle”, immagine generata dall’autore, mediante Copilot Designer di Microsoft
Biagio Antonacci, nella canzone il cui incipit apre anche questo articolo, amalgama abilmente misteri e stelle del cielo con il sapore delle notti trascorse senza la sua stella, senza la persona amata. Con minima spesa di parole, con attraente sbrigatività poetica: edificando un tunnel, una efficace scorciatoia tra spazio esterno e spazio interiore. Un’abbondanza di misteri e di stelle, mescolata insieme ad una mancanza? Un composto decisamente agrodolce. Mi torna alla mente una strofa lapidaria di Saffo… [Continua a leggere sul portale EduINAF]
Come avrete probabilmente notato riguardo le illustrazioni di questa rubrica, alla consolidata collaborazione con l’artista ed amico Davide Calandrini, si è quietamente avviata negli articoli più recenti una sperimentazione di immagini generate con i motori di intelligenza artificiale, i cosiddetti text-to-image.
Il reale muta molto velocemente, siamo in accelerazione anche noi – proprio come il cosmo – ed è più che opportuno sperimentare con le nuove soluzioni tecnologiche, comprenderne potenzialità e limiti: tutto questo, con l’intento di non farsi condurre da esse in modo passivo, ma educarsi anche qui ad un proficuo rapporto, che tuteli quella creatività che è la forma specifica ed irriducibile che distingue l’umano dalla macchina.
L’intelligenza artificiale – lo sappiamo – non è realmente creativa (provate a chiederle di generare una poesia e vi metterete le mani nei capelli), è un insieme di algoritmi, pur estremamente sofisticati. La creatività è però il centro gravitazionale specifico di questa rubrica, così possiamo avvertire questa indagine come una parte organica di questo nostro attivo dimorare nel punto di intersezione, sempre vivo, tra letteratura e scienza.
Tecnicamente, i motori text to image (da testo ad immagine) generano una illustrazione a partire da un input testuale, anche molto strutturato: si può domandare, per esempio, non soltanto di avere una immagine di un gatto in una vecchia casa ma aggiungere dettagli stilistici o pittorici, tipo un gatto su un tavolo stile Vermeer (non so se lui abbia mai dipinto qualcosa del genere, ma è inessenziale in questa sede). Vi sono diversi motori di questo tipo, disponibili online: cito solo alcuni tra i più noti, come Image Creator di Microsoft, NightCafé o Firefly di Adobe, ma la lista esaustiva sarebbe assai lunga. Tuttavia non è tanto il lato tecnico che ci interessa qui, quanto le ricadute in ambito creativo. E vogliamo capire come se la cavano, specialmente, con la parola poetica. Sopratutto, che immagini ne riescono a trarre.
In una Roma torbidamente soffocata nel caldo estivo, con la ridotta lucidità consentita dalle temperature in fuga ascendente, ho provato dunque a compiere un minimo esperimento, dando in pasto ai tre motori citati, un verso di Annalisa Manstretta, un verso che abbiamo già commentato qualche mese fa (quella volta era accompagnato da una immagine elaborata da Davide):
Il sole dal lato sinistro, la luna da quello destro, due cerchi perfetti. In questa campagna astrale ci son finita io, quella fuori scala, dalla taglia modesta di una donna.
Non ho impartito raccomandazioni stilistiche e mi sono limitato alle impostazioni di default, per la generazione di immagine: ogni sito peraltro permette di giocare con una serie di regole in modo da ottenere, dallo stesso prompt testuale, una grande varietà di immagini. Ancora, spesso le immagini generate sono molteplici: qui ne riporto appena una per ogni caso, scelta a mio gusto personale.
Ecco dunque cosa mi propone Image Creator.
Una composizione astratta decisamente cosmica dove correttamente un astro simile al Sole appare sulla sinistra, un corpo simile alla Luna sulla destra. La figura femminile si pone evocativamente come tratto d’unione tra i due. Forse il modesta è stato appena tralasciato… [Continua a leggere sul portale EduINAF]
È una comunicazione stancante, frustrante, dove non fai in tempo a illuderti, e già la delusione ti arriva addosso come una doccia fredda. Forse è anche per questo che da bambina guardavo la Luna per delle ore dalla finestra della mia stanza, con la sensazione di appartenere più a lei che alla Terra. Lo faccio ancora: guardo la Luna con la stessa intensità di allora, a volte fino a che gli occhi mi lacrimano. Allora ero convinta che se l’avessi guardata abbastanza intensamente forse sarei stata finalmente risucchiata lì, a casa. Ero una strana bambina, mi sembrava di avere già vissuto un migliaio di vite almeno, e non capivo i continui slittamenti di umore dei miei, le ragioni dietro i loro conflitti silenziosi. Quando la Luna era piena giocavo a chi toglieva lo sguardo per prima, e vinceva sempre lei, con quel suo rimmel sbavato che non si sistema mai. Una notte che mio padre era tornato a casa dal ristorante ed era entrato nella mia stanza forse per controllare se dormivo, ero saltata su nel letto e gli avevo detto “Il sole fa rumore, ma la Luna è silenziosa”. Chissà se lui se lo ricorda; io mi ricordo che invece di dirmi che era una stupidaggine da bambina aveva annuito e mi aveva guardata con una strana soddisfazione negli occhi. Alla luce della lampada del comodino mi era sembrato fiero di me, sì.
Andrea de Carlo lo incontrai anni fa a Roma, in una libreria del centro, ed in tale occasione gli potei parlare brevemente. Fu molto cordiale con me, tra l’altro mi parve sinceramente interessato al lavoro di un astronomo. Se ben ricordo, era il giro di presentazione de L’imperfetta meraviglia, dunque non era ancora stato pubblicato Una di Luna (2018, edito per La nave di Teseo) – titolo veramente alla De Carlo, come Due di Due oppure Di noi tre (due capolavori, se volete la mia opinione), ma evidentemente l’astronomia già orbitava nei suoi interessi.
“Bambina che guarda la Luna”, immagine generata dall’autore, mediante Copilot Designer di Microsoft
Una di Luna non è forse il De Carlo che preferisco in assoluto – quello di Durante, per dire, o del Teatro dei Sogni – ma è quello che meglio degli altri, si presta ad essere attraversato in chiave squisitamente astronomica. Del resto, narra una vicenda che vive davvero in luce lunare, una storia tenue e con una trama semplice, scritta in modo lineare, dove vincono i colori sfumati sulla complessità degli intrecci, dove i particolari sono definiti quel tanto che basta. A volte sono appena sbozzati, in verità. E probabilmente, ha senso [Continua a leggere sul portale EduINAF]
Stiamo tutti cercando un rapporto nuovo con il mondo, dunque anche con il cosmo. Per molti versi sentiamo che la consapevolezza si accresce, generazione dopo generazione (come pure, nella nostra evoluzione personale), e ciò che andava bene prima ora, semplicemente, non ci corrisponde più.
Ma forse è anche che questo universo in cui viviamo – grazie principalmente al flusso ininterrotto di nuovi dati astronomici e alla tecnologia che ci permette di venirne a contatto in modo immediato – si svela adesso ai nostri occhi in maniera totalmente inusitata. Per la prima volta nella storia dell’umanità, possediamo descrizioni ed immagini di oggetti fuori dal Sistema Solare, dalla Galassia. Riusciamo a leggere segnali addirittura dai primordi del cosmo. Con un clickpossiamo accedere, in un instante, alle immagini dettagliate di corpi celesti lontanissimi da noi come Plutone, come pure a panoramiche spettacolari della sua luna Caronte, ottenuti dopo quasi dieci anni di volo dalla sonda New Horizons.
Fernando Pessoa, visto da Davide Calandrini
Pare conseguente che dalla conoscenza accresciuta nasca – o possa comunque nascere – un nuovo rapporto con tutto. Un rapporto che, senza nulla togliere alla precisa sobrietà dell’indagine scientifica, dentro di noi possa anche colorarsi di una sorta di unicissimo mosaico emozionale. Una parte di emozione in effetti può aiutare la conoscenza: per come siamo fatti, ciò che non ci muove niente dentro, ciò che rimane solo nella testa, si dimentica facilmente. Invece, sentire l’universo, poterlo quasi mordere (un po’ come dicevamo per Ungaretti), e non appena comprenderlo razionalmente, ci immette in un rapporto nuovo, vivo, fresco.
In questo (ed anche molto altro) proprio i poeti sono spesso avanti, ci piaccia oppure no (a me piace, perché non sopporto quegli scienziati che si credono possessori di un qualche accesso privilegiato alla conoscenza tout court: la quale è scientifica, certo, ma non solo). Mi sembra questo il caso per Fernando Pessoa… [Continua a leggere sul portale EduINAF]