Due cose mi vengono in mente, dopo aver assistito alla proiezione di Inside Out. Due cose diverse ma abbastanza congruenti, assolutamente compatibili. Una più generale, ed è posta alla  radice stessa – mi sembra – del percorso di realtà come Darsi Pace: quel “ripartiamo dalle emozioni” che segna tanto il primo paragrafo dell’omonimo testo di Marco Guzzi, quanto percorre in sottotraccia tutto l’arco di questa deliziosa pellicola. Ecco, ripartiamo dalle emozioni, e ripartiamo da tutte le emozioni. Senza censurare nulla. 
Così mi pare che il messaggio di Inside Out sia duplice, essenzialmente. Non solo ripartire dalle emozioni, ma anche, non escludere niente a priori. Tutto ha la sua funzione: perfino la tristezza. Addirittura la rabbia, serve, è utile. Senza voler svelare nulla, possiamo senz’altro dire che è piuttosto scoperto il ruolo che queste emozioni apparentemente “negative” (dalle quali fuggiamo in ogni modo, appena si può) rivestono nel cooperare affinché la gioia di vivere possa ritornare ad avere dimora stabile nella mente dell’uomo (della piccola Riley, in questo specifico caso). 
Rabbia, disgusto, gioia, paure e tristezza… tutto serve, se ben composto.
E’ vero che le emozioni non sono tutto. D’accordissimo. L’ideale sarebbe un interscambio virtuoso tra ragione ed emozione, un dialogo continuo ed amichevole che informi e guidi la percezione del mondo e le scelte conseguenti. E’ pur vero, però, che veniamo da un lungo periodo in cui, direi tristemente, si è posto molto l’accento sul razionalismo anche in molti processi conoscitivi e segnatamente scolastici. Identificando totalmente l’essere umano con la sua parte logica, raziocinante, spesso (con molte virtuose eccezioni…) trascurando o anche censurando la sua parte emotiva, si è proceduto – spesso senza intenzione – a produrre delle persone fragili, essenzialmente impaurite dal proprio oceano emotivo interiore, rimasto alla mercé di sé stesso, assolutamente ineducato.

Avverte Marco Guzzi, in apertura appunto del libro Darsi Pace, come “dal punto di vista emotivo la nostra umanità sembra sempre più fragile e infantile, sembriamo spesso inconsapevolmente posseduti da flussi emotivi, da passioni mai seriamente indagate, come diceva Jung, che possono diventare tempeste collettive quando si scaricano sui teatri ormai planetari della storia.”

Ben venga dunque un richiamo a riprendere familiarità con i nostri stati emotivi. A cercare di riprenderli, riabilitarne la dignità, comprendere come servono alla vita, alla vita vera. Un primo atto di riconciliazione con sé stessi, che è anche inevitabilmente un atto sociale e politico, nel senso che incide radicalmente nella percezione che abbiamo di noi e degli altri, e dunque inevitabilmente sui rapporti più risanati che diveniamo capaci di intrecciare.

Una seconda cosa che mi è tornata in mente, in relazione al film, è un passaggio della bella canzone Fango di Lorenzo Cherubini, “L’unico pericolo che sento veramente, è quello di non riuscire più a sentire niente…” Ecco. Questo nel film è palese, scoperto, manifesto. Il momento più terribile, direi quasi orribile, non è affatto uno di quelli nei quali la simpatica protagonista agisce dominata da una emozione magari “sgradevole” (rabbia, disgusto, paura, tristezza). Assolutamente no. E’ invece quello in cui lei stessa perde il contatto con le sue emozioni. Di qualsiasi tipo possano essere.

Scrive assai lucidamente Claudio Risé, in un articolo su Tempi, che ” …il guaio oggi non è lo strapotere delle emozioni, ma il fatto che non ci siano quasi più. Nessuno che prenda a pugni un tavolo come fa Rabbia (rosso, basso e inquartato, grande casinista), o che sia gioiosamente pazzoide come Gioia, radicalmente pessimista come Paura (che a un certo punto esclama: «Ottimo, oggi non siamo morti»), schifato come Disgusto davanti al broccolo, esausto e contagiosamente melanconico come Tristezza (che quando tocca un bel ricordo, lo rompe). Tutti neutri, beneducati, che non si capisce cosa pensino. Un vero guaio, anche per la psiche. Che senza emozioni si spegne.”

E’ quello il momento davvero pericoloso. E’ lì che si perdono i colori del vivere. Per il resto mi sono accorto che sono uscito con un senso di pace. Come se già riconoscere le emozioni, accettarle, fosse già una azione, una minima azione, terapeutica.

Riconoscere che la salute mentale è anche nel permettere l’avvicendarsi delle emozioni (senza “bloccare” per forza quelle che non ci aggradano) vuol dire essenzialmente volersi bene.  E’ l’inizio di una insurrezione benefica, un cammino nuovo di amicizia con la vita, dopo tanto freddo esercizio di logica. Eccole qui: rabbia, disgusto, tristezza, paura, gioia. Le prime quattro le bandiresti dal tuo orizzonte interno, potendo. Vorresti essere un uomo migliore, una donna perfetta: concederti queste passioni non è bene, non è adulto. Non si fa… Eppure sono proprio loro che  – in uno splendido gioco di squadra – renderanno possibile il ritorno della gioia nella vita di Riley.

Davvero tutto coopera a rendere colorata la vita, a vivere sempre intensamente il reale (per riprendere una bella frase di Luigi Giussani), se davvero niente si censura, nulla si esclude.

Loading