Lo scrivo perché non trovo più con chi parlarne, senza che mi tiri appresso qualcosa. Ho provato un po’ ingenuamente a parlarne in casa, tempo fa. Lo sai che è uscita la demo dell’inizio di Tubular Bells 4? Bella… però peccato che Mike si sia ritirato, pare che non la completi…
E intanto uno si aspetta, che ne so, una certa partecipazione al dolore. Sì perché è un dolore, certo non comparabile con altri dolori più forti, per carità. Però è un dolore. Nel senso che uno sente un gusto, un sapore di qualcosa, ma non può proseguire, rimane appunto un accenno. Si incammina su una strada bella, alberata, con tante cose da guardare lungo il cammino. E poi, alla prima curva, quando si aspetta un cambio di panorama, si trova davanti un segnale di STOP. Proprio quando uno avrebbe voglia di saperne di più, di entrare meglio nella faccenda.
C’è quel tanto che basta per farti dire ok, mi interessa, mi piace, vediamo… ma poi niente, non vedi niente. Rimani lì. Rimani in demo.
E che dire, hanno ragione, è veramente un bel film.
Tre ore filate che non senti nemmeno il tempo, tanto è serrato il montaggio, incalzante la narrazione. L’alternarsi di colore e b/n è un espediente riuscitissimo, gli attori sono follemente bravi, il gioco della colonna sonora a volte preponderante altre volte quasi assente, è di indubbia sapienza.
Un film dove la fisica (e anche l’astrofisica, più di un poco: vedi al proposito la trattazione del collasso delle stelle, dei buchi neri) è protagonista dall’inizio alla fine. Una fisica innestata profondamente nella realtà, anche nella terribile realtà degli ordigni nucleari.
Oppenheimer ne esce come un uomo – con tutti i suoi entusiasmi, le sue confusioni, le sue cadute, le sue incertezze. Perché anche un grande fisico alla fine è un uomo semplice, splendidamente incongruente – se vogliamo – come tutti gli altri.
E forse questo è un pregio del film, il suo specifico valore culturale. Anche al di là delle legittime discussioni sulla bomba atomica, su questa spaventosa arma di distruzione di massa.
C’è ancora bisogno, sì, di ricordarci che i fisici sono uomini (o donne), perché c’è bisogno di capire che la fisica è umana, umanissima. Impregnata di umanità: questa, del resto, è la sola fisica che mi interessa, che ci interessa davvero.
Domenica pomeriggio ho visto Mission: Impossible – Dead Reckoning – Parte uno. Mi sono divertito, ho ammirato la costruzione di un’opera complicatissima, ho goduto in particolare delle scene girate in Italia (Roma e Venezia, con una fotografia splendida). E in due ore e tre quarti circa in un susseguirsi mozzafiato di scene di azione (mirabolanti), ho anche riflettuto.
Sì, perché questo film è spettacolarmente attuale. Attualissima è la percezione acuta di come l’intelligenza artificiale sia la vera cosa che genera ammirazione ed inquietudine, in pari misura. Sorprendente che la sceneggiatura sia stata scritta ormai anni fa, perché – almeno per l’Italia – è una fotografia esatta di un dibattito che sta avvenendo nel momento presente.
Mi viene da pensare all’incontro tra Federico Faggin e Marco Guzzi, nel quale molto si è ragionato sull’intelligenza artificiale (con dei punti di vista che a mio avviso rimarranno come riferimenti fermi in un dibattito che fermenta ogni giorno di più).
L’ho visto pure io, ieri. Ormai non potevo più attendere. Ogni giorno mi diventava sempre più impossibile schivare gente che ne parlava. Inevitabilmente, la trama si definiva sempre di più, vanificando in parte la sorpresa. Soprattutto però, mi incuriosiva la grande enfasi con cui molti, sui social, magnificano questo film di Netflix. Volevo semplicemente capire se l’enfasi, per me, fosse giustificata.
Ora, il film è certamente interessante. Direi che concordo pressoché in toto com quanto scritto dall’ottimo Davide Coero Borga su Media INAFqualche giorno fa.
Giunti alla quarta tappa dell’avventura “cosmica” di Toy Story, mi sento di dire che il pericolo della stanchezza o della routine, sia stato egregiamente scongiurato. Se la chiamo cosmica, è solo perché il meccanismo narrativo di Toy Story, fin dalla prima rivoluzionaria puntata, è imperniato su una idea semplice ma straordinaria, estremamente feconda. Quale poi sia, la sapete: in breve, i giocattoli sono vivi e hanno affetti, relazioni, connessioni come gli umani. Ma sono anche attenti a non farsi scoprire: in presenza di una persona, loro simulano il comportamento atteso da un giocattolo (inerte). Potremmo dire, in termini fisici: ad ogni misura restituiscono lo stesso profilo (che è quello che più ci aspettiamo).
Ma cosa avviene nel tempo che trascorre tra le misure? Cosa accade quando nessuno guarda? Questo non possiamo dirlo. In generale, non potremo mai dirlo. La realtà nella sua essenza si cela dietro un velo, e quel che ricostruiamo unendo le misure – come nel gioco ben noto di collegare i puntini – è sempre altamente arbitrario. Il modello non è mai il reale, e questo è un bene, perché il reale può essere sempre qualcosa di più.
Toy Story, fin dal primo episodio, ci propone un messaggio decisamente interessante, perché parla ad una parte del cuore sempre in ascolto, sempre in attesa: ci suggerisce che l’inferenza tutta positivistica di voler ridurre il mondo a qualcosa di già visto, già compreso è ultimamente e felicemente fallimentare, perché esiste un mondo, un universo, che fuoriesce con allegria dall’ansia di catalogare e comprendere “razionalmente” le cose. Un ambiente che straripa, brulica di invenzione e relazione.
Woody con il nostro nuovo amico, Forky… (Crediti: sito ufficiale)
Così, si capisce che una stanza di giochi non è appena una stanza di giochi: è di fatto anche la sede privilegiata per mille emozioni, relazioni, rapporti affettivi, intrecci e soprattutto storie, mille storie che si generano continuamente, che rendono questi oggetti tutt’altro che inerti. Del resto i bambini già lo sanno, i giocattoli vivono. I rapporti con le cose sono più imprevedibili e profondi, più poliedrici e fecondi, rispetto all’approccio utilitaristico e consumistico di molta parte del nostro pensiero “moderno”.
E ad essere precisi, ci lancia un secondo importante messaggio, strettamente connesso al primo: questo mondo non visto, è un mondo buono, positivo. Un mondo che opera per il bene. Difatti – e anche in questa occasione viene ribadito in modo molto chiaro – lo scopo ultimo di ogni giocattolo, la sua ragione di “vita”, è il benessere e la felicità del bambino cui appartiene. Nell’aderire intimamente a questo obiettivo – e nel conseguente sentirsi parte di una relazione di affetto – è la felicità stessa del giocattolo, il suo sentirsi realizzato.
Ci sono – è vero – conflitti e situazioni di tensione anche in questo mondo “parallelo”, non visto. Ma si risolvono sempre in bene e soprattutto, proprio in questo quarto pannello, si addolciscono ulteriormente, visto e considerato che (tranquilli, sarò generico per non rovinarvi del tutto la visione) non esiste nemmeno un vero cattivo, questa volta.
E’ chiaro che nessuno si aspetta, tornando a casa dopo aver visto il film, che i giocattoli nella stanza dei propri bimbi si animino davvero. Eppure questa proposta, questo suggerimento di riformulazione del patto con il reale (ovvero, ammettere la possibilità che ci sia qualcosa che non controllo, che mi supera, che opera per il bene) rimane piacevolmente attaccato addosso, come una polverina magica che – a lasciarla depositare – inizia quel sano lavoro di contrasto e di scioglimento di un cinismo che troppo spesso ci lasciamo aderire addosso, quasi fosse l’inevitabile scotto del diventare adulti.
Forse non è così come quasi sempre ce la raccontiamo, forse c’è qualcosa che regge l’urto del tempo, qualche magia che non scolorisce nel diventare grandi, ci sembra dire l’intero progetto di Toy Story. Ma lo dice sommessamente, come un gioco: questo – a mio avviso – è il vero punto di valore. Non ci impegna con grandi discorsi, perché i grandi discorsi ormai non li sopportiamo più. Piuttosto, ci arriva di lato, sorpassa le nostre difese e ci aggancia a sorpresa, facendoci divertire e dunque predisponendo il terreno all’ascolto di una buona notizia, di qualcosa che si pone fuori dal tessuto percepito della vita ordinaria.
Perfino il tema abusatissimo dell’accoglienza del diverso, di chi sembrerebbe “da buttare” ed anzi inizialmente si vuole esso stesso buttare via, è affrontato in modo simpatico e per nulla retorico, con l’irriverente e scanzonata invenzione di Forky, un pupazzetto creato in quattro e quattr’otto dalla bimba all’asilo con materiale di scarto. E che, in barba a tutte le sue evidenti diversità, viene integrato nel gruppo da subito. Proprio in questa amichevole integrazione, ed in una paziente educazione alla quale viene sottoposto, impara a voler bene e a volersi bene.
Nel complesso, questa quarta sezione (a questo punto, speriamo non l’ultima) mi sembra scorra bene, rispetti il paradigma di fruizione a vari livelli e dunque si presenti come uno spettacolo sufficientemente elaborato anche per gli adulti, sempre tenendo conto dei vincoli imposti da un approccio che deve coinvolgere persone in un ampio spettro di età.
Ma se devo dire, di questa quarta parte mi colpisce soprattutto una cosa, l’accento sulla dinamica del dono. Il tema centrale, senza troppo anticipare la trama, mi pare proprio costruito su questa dinamica. E’ lei che vince, alla fine, anche sull’ipotesi iniziale, sulla scommessa di partenza di ottenere con forza quello che poi viene, con una fortunosa catena di eventi che portano anche alla maturazione dei protagonisti, ceduto come un dono. La rinuncia alla forza innesca irresistibilmente una relazione più profonda, tale che si volge verso il movimento del dare quell’esitazione a lasciare qualcosa di sé, che è pur naturalissima negli umani (e quindi, nei giocattoli). Ti consegno questo nella speranza che tu possa essere felice. Quello che di mio ti regalo, ti restituisce “voce” ovvero fa cantare la tua vera essenza, per la quale potrai finalmente essere amata.
Alla fine della visione, ognuno è rilanciato nel fare i conti con l’ipotesi che la realtà sia più magica di quanto si è abituato a pensare. Per molti bambini, è un assunto normale. Per noi adulti diventa il termine di una ripresa, di una ipotesi di lavoro (ritornare come bambini, per accedere alla verità delle cose, è un suggerimento autorevole innestato nel profondo della nostra storia). Ognuno è di fronte alla sua libertà, nel dare seguito a questa ipotesi, nel rilanciarla investendo la realtà del necessario lavoro di verifica, o abbandonarla. In ogni caso, la proposta c’è stata, delicata e persuasiva al tempo stesso.
E forse, mi dico, non si può chiedere molto di più, ad un film.
L’abbiamo detto tante volte, ormai la connessione globale, continua, è la norma, per tutti.
L’eccezione è quando non si dispone di accesso alla rete, semmai. E’ un caso che è sempre più improbabile, sempre meno gestibile (ovvero accettabile, per il senso comune), via via che il tempo passa. Non vi annoierò raccontandovi di come era prima, prima che ci fosse Internet, e poi delle connessioni a consumo, quando si stava collegati appena pochi minuti e il contatore girava, e tutte queste cose qui.
No, oggi vado a vedere come reagiamo, come reagiscono i nostri strumenti di elezione – i browser – quando si trovano di fronte l’imbarazzante ed improbabile evento di non avere connessione alla Grande Rete Universale.
Non è una indagine con velleità di completezza. Nemmeno, che voglia dimostrare qualcosa. Giusto una curiosità, tanto per vedere.
Ecco come reagisce Chrome, ad esempio, se si è improvvidamente fuori rete.
Il tono è parecchio sobrio, ti informa che niente, non puoi navigare. Vedi un po’ tu, allora, di risolvere la questione, perché così è francamente intollerabile: il dinosauro lì mostrato, unico accenno ad un approccio un po’ ilare del problema, ti fa capire che sì, ecco, giusto i dinosauri, loro non avevano Internet, e non c’è nessuna necessità ed utilità di stare senza rete. Tra l’altro, senza rete Google ci perde, perché non passa la pubblicità, insieme ai siti. E’ il caso, dunque, di rimanere all’epoca dei dinosauri? Dài, spicciati a risolvere il problema. Ritorna online, ritorna fruitore. Non ci far spazientire.
Vediamo ora come reagisce Firefox.
Anche esso molto sobrio, anzi di più: non compare nemmeno un dinosauro (per dire). Ma alcune informazioni ti aiutano a capire se è un errore umano oppure di qualche altro tipo. Sembra sotto sotto, comunque, che ci sia un po’ di speranza, un po’ più di speranza rispetto alla desolazione di Chrome offline, tutto sommato (secondo me Chrome soffre ad essere offline). Cioè, il problema esiste, siamo d’accordo, ma forse si può ancora fare qualcosa. Già Impossibile contattare il server, fateci caso, è meno disperatamente drastico di Connessione Internet assente.
Le parole non sono a caso; le parole sono importanti.
Per me la cosa più bella però è la reazione di Edge, il nuovo browser di casa Microsoft.
Diciamolo: è l’unico che cerca di rianimarti un poco. Intanto ti fa capire che tu esisti. Che non sei un granellino insignificante di fronte alla preponderanza e alla pervasività del Sistema Mondiale Globalizzato (cioè Internet). Ora, guardiamo la cosa con calma. Prendiamolo sul serio. Ti dice “Non sei connesso” e questa informazione, ovvio, te la deve dire. E’ la realtà dei fatti, baby, piaccia o non piaccia è così.
Però la butta subito sulla valorizzazione della persona (di te, proprio di te): E il Web non è lo stesso senza di te. Questo, insieme al cuoricino spezzato del disegno, ti rincuora un po’ (vabbè, un pelo ruffiano, ma lasciamo perdere questo aspetto). Cioè, ti dice, ti rassicura, io non ci sono, ma quelli comunque sentono la mia mancanza. Ovvero, tu non sei irrilevante, ovvero tu contribuisci al web, non sei un semplice fruitore. Possiamo dire, azzardare, che c’è un accenno ad un pensiero creativo. Tu puoi aggiungere valore al web. Che poi è così: se solo ce lo ricordassimo più spesso.
E non trascura di fornirti speranza, di non farti naufragare nel disagio: “Verrà riattivata la connessione” è come un amico, un parente, che ti dà una pacca sulla spalla e dice coraggio, andrà tutto bene, tutto si risolverà, vedrai. Vero o non vero, è la cosa che ci vuole, in questo momento drammatico.
Poi certo ti fornisce alcuni semplici consigli, di quelli che li penseresti da solo (saranno attaccati i cavi?, il wireless è acceso?), ma almeno ti ha messo un po’ di buon umore.
Facendoti capire che tu conti, come persona. Ovvero, dicendo la semplice, rivoluzionaria verità.
Mi imbatto in un interessante articolo su Il Post, al riguardo del diritto alla privacy e soprattutto alla possibilità o meno per le autorità di accedere a quella incredibile raccolta di dati e metadati sulla nostra vita ordinaria, che tutti ci portiamo in tasca: sì, il telefono cellulare.
La lettura del pezzo è molto interessante, perché sfata pacatamente alcuni miti nei quali ancora siamo imbevuti, che distorcono un po’ la realtà: L’Europa non sembra in effetti così avanti nella tutela dei dati personali rispetto agli Stati Uniti, anzi. Certo, una tutela che a volte vorremmo non ci fosse, come quasi saremmo tentati leggendo proprio i due casi dell’articolo, che hanno per oggetto non immacolati personaggi (facendo finta che esistano…), ma due – possiamo dirlo – delinquenti, ma non per questo menu umani di ognuno di noi, non per questo meno oggetto di diritti come ognuno di noi.
Quello che si evince, anche e soprattutto, è la conferma di quanta vita viene trattenuta quotidianamente in queste piccole scatoline che ci portiamo appresso, e che effetti imprevedibili può suscitare il loro (più o meno inopportuno) disvelamento.
Sì, viene da pensare a Perfetti Sconosciuti, quel film di qualche anno fa che mise benissimo a tema esattamente questo argomento: lì una situazione apparentemente tranquilla (una cena tra amici) esplode letteralmente in una rete fittissima di conflitti, delusioni, risentimenti… tutto per un tranquillo giochino, che consiste fondamentalmente nell’aprire il flusso informativo in arrivo sugli smartphone, elidere la privacy anche solo per poche ore, per “dimostrare” di non avere segreti. Devastante (ma bellissimo, il film).
Mi chiedo, forse è violenta in sé la pretesa di non avere segreti, grandi o piccoli, o cose che comunque se lette da un’altra persona, fuori contesto, potrebbero dispiacere, potrebbero aprire ferite. Forse è una pretesa inutilmente dura quella di non avere zone d’ombra, una hybris totalitaria dalla quale dobbiamo difenderci?
Chissà. Intanto la tecnologia continua ad interagire con il mistero dell’uomo, aprendo nuove (ed antiche) questioni.
Con grande piacere ho scoperto che il film Love Actually, un capolavoro leggero (dunque ancora più difficile da realizzare, mirabile da guardare) è sbarcato da poco su Netflix. Già ieri sera ne ho rivisto subito un pezzetto. Non potevo aspettare.
Al mio entusiastico post su Facebook, una amica mi ha scritto qualcosa di scherzoso, come calma, se vuoi ti presto il DVD. Avrei voluto dire, ma non è la stessa cosa. Ormai, non è la stessa cosa. Non so, ormai un DVD mi sembra una cosa vecchia. L’idea di non poterlo vedere immediatamente al computer o sul televisore, di dover collegare il lettore ottico (ormai nei computer non è quasi mai presente), mettere il DVD, aspettare che carichi… e se poi voglio riprendere la visione con il telefono, o con il tablet? No, non c’è verso.
Mi fa un’idea strana questo uso del supporto ottico. E’ come se il film non fosse veramente in mio possesso, come se lo potessi usare in modo limitato, complicato. E’ curioso perché evidentemente è l’esatto contrario: non possiedo nessun film su Netflix, ne posso solo usufruire. Tanto è vero che possono toglierlo dal catalogo quando vogliono (come accade) e rimetterlo (come accade) e io non ho il minimo appiglio per protestare.
Eppure quando ieri sera l’ho visto su Netflix ho esultato (dentro di me). Ho percepito che era veramente a mia disposizione, sempre, senza fare cose complicate, ovunque io sia (con la connessione, ma ormai non serve quasi più dirlo, la connessione è quasi ovunque). Posso vederne un pezzo, spostarmi rapidamente in avanti, cambiare lingua, ritornare, lui è sempre lì. In un attimo si può riprendere la visione, da dove l’avevo interrotto (lo so, interrompere Love Actually è praticamente un grande delitto, una volta ne dobbiamo parlare di questo meraviglioso film).
Secondo me il supporto ottico è totalmente obsoleto. Quando anni fa Steve Jobs tolse l’immagine del CD dal logo iTunes alcuni se ne lamentarono. Ma aveva ragione. La musica, i film si sono spostati sullo streaming. Ora è proprio l’idea di dover ricorrere ad un supporto per ascoltare un album, o vedere un film, che rende la cosa fastidiosa. Che dà l’idea di complicazione.
Se devo ascoltare un disco lo trovo su Spotify, se devo vedere un film, ecco Netflix. Sono finiti i tempo delle (bellissime) collezioni di CD, DVD, pazientemente ordinati sugli scaffali, magari in base a anno di uscita, generi, categoria… Non è meglio o peggio, ognuno ha le sue preferenze. E’ semplicemente che è così, e ogni altro modo ora è una (più o meno strana) alternativa.