C’è un senso sbagliato che a volte accompagna la parola, un senso sbagliato perché foriero di una catena di fraintendimenti senza fine. Il senso sbagliato è (qui, e quasi sempre) nella separazione: specificamente, qui è nell’idea di cultura che divide, che tiene lontani, che erige barriere (tra chi sa e chi non sa). Che è elitaria, settaria, escludente. Tale senso è sapientemente inquadrato nella canzone di Giorgio Gaber, Il dente della conscenza.

C’è un senso corretto, naturalmente. Quello da recuperare. Lo trovo mirabilmente espresso in questo brano di Don Giussani, tratto dal testo Dare la vita per l’opera di un Altro:

Parlare di cultura, infatti, è parlare di tutto l’assetto umano della nostra presenza nel mondo, perché la cultura non è un esito ricercato dagli appassionati o dai competenti: la cultura è ciò da cui l’uomo trae tutto il suo comportamento, ciò a cui si ispira nel suo comportamento come origine di tutto, nel formularlo e dispiegarlo seguendo l’evoluzione delle cose e della vita, e nell’affermazione dello scopo ultimo di ciò che egli compie, cioè del suo destino.

Qui trovo finalmente quello che sto cercando. La cultura come l’assetto umano della nostra presenza nel mondo. Potente, come formulazione. Gravido di varie conseguenze. Intanto, come prima implicazione, riguarda tutti. Difatti non puoi non avere un assetto, non puoi tirartene fuori. E parimenti, nessuno può tirartene fuori. La cultura non è per pochi, non è per una casta, è di tutti e per tutti.

Loading