Blog di Marco Castellani

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Ricominciare, è legge

Ricominciare è una parola molto vicina alla parola più cristiana, alla parola finale cristiana: «Risorgere», «risurrezione». Quante volte ci siamo ricordati che proprio per questo la Pasqua è il mistero principale, il mistero grande della vita cristiana! È per Colui che è tra noi che ognuno di noi riprende, ognuno di noi ricomincia, ognuno di noi rinasce, ognuno di noi risorge. Per ogni giornata e ora e istante della nostra vita, la risurrezione, la ripresa, il ricominciare debbono dettare il cammino, debbono essere la legge.
Luigi Giussani

Ricominciare, insomma, è legge. L’universo ricomincia, ogni momento.

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Cultura

C’è un senso sbagliato che a volte accompagna la parola, un senso sbagliato perché foriero di una catena di fraintendimenti senza fine. Il senso sbagliato è (qui, e quasi sempre) nella separazione: specificamente, qui è nell’idea di cultura che divide, che tiene lontani, che erige barriere (tra chi sa e chi non sa). Che è elitaria, settaria, escludente. Tale senso è sapientemente inquadrato nella canzone di Giorgio Gaber, Il dente della conscenza.

C’è un senso corretto, naturalmente. Quello da recuperare. Lo trovo mirabilmente espresso in questo brano di Don Giussani, tratto dal testo Dare la vita per l’opera di un Altro:

Parlare di cultura, infatti, è parlare di tutto l’assetto umano della nostra presenza nel mondo, perché la cultura non è un esito ricercato dagli appassionati o dai competenti: la cultura è ciò da cui l’uomo trae tutto il suo comportamento, ciò a cui si ispira nel suo comportamento come origine di tutto, nel formularlo e dispiegarlo seguendo l’evoluzione delle cose e della vita, e nell’affermazione dello scopo ultimo di ciò che egli compie, cioè del suo destino.

Qui trovo finalmente quello che sto cercando. La cultura come l’assetto umano della nostra presenza nel mondo. Potente, come formulazione. Gravido di varie conseguenze. Intanto, come prima implicazione, riguarda tutti. Difatti non puoi non avere un assetto, non puoi tirartene fuori. E parimenti, nessuno può tirartene fuori. La cultura non è per pochi, non è per una casta, è di tutti e per tutti.

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Adriana

Non la conoscevo, Adriana. Non l’ho mai incontrata, nemmeno da lontano. Eppure era da tempo qualcosa di mio. Intendo, la sua musica era diventata mia, nel tempo. E nel cammino. Nel cammino che lei ha fatto e io, tra cadute e riprese, allontanamenti e ritorni, provo a fare. Sono ancora qui che provo, e le sue melodie mi risuonano dentro come argini sicuri dove incanalare le emozioni, il desiderio del bello, del vero, il desiderio di essere a casa, di essere amati e protetti ed accuditi. Il desiderio di un perché, soprattutto.

Nelle assemblee cantavamo Povera Voce e mi è sempre apparso un canto semplice e bello, limpido e chiaro. Non c’è una parola di troppo, non c’è un pretesto per non camminare, per non camminare in queste parole e dunque iniziare – o riprendere – il cammino personale.

Scrivo ora su Adriana Mascagni, a poche ore dall’inizio della celebrazione dei suoi funerali. Scrivo di una persona che si è fatta strada nel mio cuore con la sua arte, è entrata con la persuasività della sua musica, delle sue parole.

Banale dirlo, forse. O ridirlo. Ma il potere dell’arte è questo, di colpo una persona che non hai mai visto ti entra dentro in modo prepotente e perentorio, attraverso il canale dell’arte, perché tu e lei, tu e lui, siete entrati in risonanza per un tema musicale, per delle parole, per un dipinto. Improvvisamente ecco che ti importa. Quello che fa questa persona, ciò che produce, diventa importante per la tua vita. Se (per dire) sei un astronomo, ti occupi della Luna e delle stelle, ecco che Luna e stelle sono nel suo canto, sono il suo canto. L’arte vera è gentile e viene a parlarti nel linguaggio che tu conosci: lo fa lei tutto il lavoro per collegarsi con te. Tu devi solo aprire gli occhi, le orecchie.

Nel bel messaggio di Davide Prosperi di ieri compare una citazione stupenda di Luigi Giussani, riguardo il canto:

Chi non è toccato da un concerto di archi, come si può essere insensibili dinanzi ai colori di una sonata per pianoforte? Sembra il massimo. Eppure, quando sento la voce umana… Non so se capita anche a voi: ma è ancora di più, e di più non si può. Davvero, non esiste un servizio alla comunità paragonabile al canto.

https://www.dailymotion.com/video/x43mffl

L’artista entra nella tua vita con il suo materiale e poi che farne di tutto questo, decidi tu. Non mette alcun freno alla tua libertà. Il servizio alla comunità è reale, penso, se si gioca ultimamente in una possibilità offerta specificamente ad ogni persona: la proposta arriva così al singolo. Come dire, ti propongo questo, tu cosa ci fai? Come la tua creatività incontra la mia, cosa vi costruisce intorno?

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Affetto

Scrive Luigi Giussani in Generare tracce nella storia del mondo, che è un affectus, come quello che aveva Simone, così puramente è profondamente affezionato a Gesù, ciò che porta lontano la capacità di giudicare adeguatamente la realtà.

Ebbene, quanto sia dirompente questa frase mi arriva solo dopo un po’ di ragionamento. Sì, mi trovo ordinariamente dentro questa convinzione, che il giudizio sia obiettivo solo se mi riesco ad astrarre dalla contingenza, se riesco a spegnere le emozioni e gli affetti nell’atto della valutazione, se mi sento sufficientemente lontano da tutto, in equilibrio su un punto (che immagino) di stabilità. Come un pianeta svincolato da ogni orbita, da ogni pur vago moto di attrazione: nulla che mi attiri in modo particolare, tutto è in equilibrio. In questo framework, ogni cosa che cattura la mia attenzione, che muove il mio animo, può rappresentare una distrazione, una alterazione indebita di questo (alquanto fantomatico) equilibrio valutativo.

La frase di Giussani (che riguarda cielo e terra, l’eterno e il contingente) giunge a scardinare questo terribile pregiudizio, questo desiderio malato di pulizia e di imparzialità. Malato proprio perché irrealizzabile, semplicemente e puramente disumano.

Volendo rimanere sulla fisica, senza approfondire l’aggancio metafisico (ché ci vorrebbe ben altro spessore di scrittura) cono cose che ci indica anche la scienza, a voler davvero ascoltare (il fatto è che non ci piace troppo ascoltare, nemmeno cosa dice la scienza, quanto va contro il nostro assetto mentale di default). Abbiamo viaggiato tanto, da quando Galileo ha aperto la porta all’analisi scientifica del mondo, a questa potentissima possibilità di ordinare il mondo fisico secondo dei modelli, capaci perfino di fare predizioni su eventi futuri.

Abbiamo viaggiato tanto, abbiamo traversato mondi diversi, nei secoli. Mondi che assomigliavano un po’ a come ci sentivamo, alla coscienza che avevamo maturato nel viaggio, più o meno fin lì. Abbiamo attraversato territori in cui, un po’ gasati dalle cose che stavamo scoprendo, ci siamo sentiti in potere di comprendere l’intera evoluzione delle cose. E’ stato anche detto che sarebbe bastato avere più informazioni (posizione e moti delle particelle, per essere precisissimi) per predire le cose, fino al limite estremo.

Questo modello è superato, siamo andati ben avanti nel viaggio. Scoprendo nuovi territori. Ora sappiamo che aggregare informazioni su informazioni non sempre ci aiuta, nella comprensione. La realtà non è conoscibile con precisione infinita, ce lo dice anche la fisica quantistica, che anzi fissa dei limiti in modo che può anche apparire implacabile. Oltre un certo confine, il dato semplicemente non ha senso, il famoso principio di indeterminazione è sempre da riprendere, come spunto importante per riflettere.

Il fatto che l’accumulo di pura informazione non aiuti la comprensione, lo avverto già come individuo, come persona, prima ancora che nel lavoro di scienziato. Prendiamo una cosa molto attuale, il bombardamento di informazioni in questa pandemia, ad esempio. Ebbene, l’esposizione esasperata alle statistiche di contagio, guariti e deceduti, erogata con assidua determinazione da ogni medium, non faceva che generare in me rinnovata confusione, minor possibilità di capire ed entrare realmente negli eventi. Se sono onesto con me stesso, devo ammettere che – almeno per me – l’accumulo di dati equivale ad una perdita di reale conoscenza, che tale bombardamento insistente può essere usato (consciamente o no) per destabilizzare, spaventare, ultimamente per generare un senso di impotenza. La gran mole di dati spinti nella coscienza, senza che vengano riordinati ed allineati da una ipotesi di senso, genera questo senso strano di confusione, di progressiva opacità.

Perché manca qualcosa, appunto. Manca quello che Giussani chiama affectus, alla fine. E’ questo, è questo il fatto. E se vogliamo rimettere in gioco la fisica quantistica, possiamo farlo anche qui, e senza forzare nulla. Ed anzi, qui abbiamo una evidenza rigorosissima, confermata proprio da quella scienza che a volte giudichiamo più impersonale ed arida di quanto sia veramente. C’è una lezione semplice e potente, che possiamo derivare da tale ambito. Non è infatti possibile conoscere qualcosa senza esserne parte, così potrei tradurre, senza troppo tradire, l’evidenza che ci giunge ormai molto chiara, dalle ricerche. Conoscere un sistema equivale a modificarlo, sia pure in piccola parte.

Fermiamoci un attimo su questo. Sì fermiamoci, perché questo noi, oso dirlo, non lo abbiamo ancora capito. Non lo abbiamo capito proprio per nulla. Per una sorte di fenomeno inerziale, noi gravitiamo ancora intorno al positivismo ottocentesco, e gli ultimi (ma anche penultimi) risultati della scienza dobbiamo ancora digerirli. Magari li sappiamo, nella testa, ma non sono ancora scesi nel cuore. La testa è veloce ad impadronirsi di un concetto, ma poi perché giunga nella vita reale, nella pratica di vita reale e concreta, ci vuole molto tempo. Lo diceva benissimo Gaber, che cito spesso in casi come questo, se potessi mangiare un’idea, avrei fatto la mia rivoluzione (idee giuste o sbagliate, se non arrivano al cuore, non funzionano). Ora ed ancora, insomma, ci tocca questo lavoro, di far scendere le idee e le convinzioni, dalla mente verso il cuore, dal pensiero alla carne.

Come questa cosa qui. Non esiste la conoscenza impersonale, oggettiva, di un fenomeno. In realtà, non è mai esistita. Ci piaccia o meno, faccia o meno a botte con quello che crediamo di credere, ma è così. La conoscenza implica sempre la partecipazione, in qualche grado. Per una persona, ma direi per un essere vivente, è una partecipazione essenzialmente affettiva, la possibilità della conoscenza.

Senza questo affetto, pensiamo di comprendere, valutare, giudicare, ma siamo semplicemente dentro una specie di simulazione mentale, non siamo vicini all’oggetto che dovremmo conoscere, siamo confinati su un universo parallelo, inconsapevolmente schiavi dei nostri preconcetti.

E’ una bomba, quello che dovremmo confessarci ora, senza più nasconderci dietro ad improbabili oggettività. Una esplosione universale, davanti alla quale siamo spesso totalmente inadeguati, ovvio. Ma non per questo dobbiamo impedirci di dircelo: una conoscenza adeguata della realtà viene soltanto da un amore ad essa. Davvero, la ragione conosce nella misura in cui essa ama.

Qualcosa di così deflagrante, che in fondo l’abbiamo sempre saputo. Le grandi tradizioni ce lo hanno sempre insegnato. Ma forse ora è il momento giusto, per ritrovare come nostro, quello che ci è sempre appartenuto.

Con un rinnovato affetto, ovviamente.

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Solo la (tua) vita, convince

Devo ammettere che all’inizio ero anche un poco perplesso, approcciandomi al volume “La vita è l’opera“, una autobiografia di Marco Guzzi, ideatore dei gruppi Darsi Pace (con i quali lo scrivente entrò in contatto ormai diversi anni fa). Essendo dichiarata come autobiografia, il timore di una operazione con una certa dose di connotazione narcisistica, devo dirlo, mi è inizialmente affiorato alla mente. 

Abbiate pazienza, con me. Non avevo ancora capito (e qui mi permetto un gigantesco spoiler) che avevo tra le mani uno dei pochi libri che si possono davvero leggere, adesso.
La faccenda, se vogliamo dirla tutta, è che il sottotitolo – come capisce ogni lettore dopo aver voltato anche un modesto numero di pagine – è fondamentalmente una balla.
Sì care Paoline, stavolta avete barato: giunti al ventunesimo volume della gustosissima collezione Crocevia (le cui variopinte copertine formano adesso una allegra adunanza di colori, nello scaffale), chissà come mai, ma l’avete fatta sporca. Il sottotitolo, una biografia è chiaramente una deviazione dalla verità, non ci sono scuse. 

Una felice deviazione, dovrei aggiungere a questo punto. Una sperticata sottovalutazione, nel complesso.
Perché è ben di più di una biografia, ed al contempo (come vi dicevo poco fa) è l’unico modo possibile, adesso, per ragionare su alcuni temi importanti, mantenendo alto l’interesse di chi legge. 

Perché l’autobiografia è così avvincente, adesso? Perché proprio adesso, in questi tempi estremi, abbiamo bisogno di testimoni, non appena di incontrare verità disincarnate. Il fatto che tutto l’argomentare sia innestato su una vita reale, che sia non appena proclamato ma vissuto, rende le cose più vere, le rende potenzialmente vivibili anche per noi. Le rende esattamente, una proposta per noi.

Quello che disse Luigi Giussani già negli anni Novanta parlando ad un gruppo di responsabili del suo movimento, risuona oggi di una attualità quasi sconcertante, «Il grande problema del mondo di oggi non è più una teorizzazione interrogativa, ma una domanda esistenziale. Non: “Chi ha ragione?”, ma: “Come si fa a vivere?”».

La cosa stupefacente, per me, è capire come questa frase oggi, proprio in questi giorni, si possa prendere alla lettera, anzi che lo si possa fare soprattutto oggi: sì oggi, barricati in rifugi domestici per il virus, chiusi in ambienti fisici (e spesso mentali) ristretti, desiderosi quanto mai di una finestra di apertura, di un punto di fuga che però non sia una diversione sterile, ma sia piuttosto un radicamento, forte, in cose che contano, in poche grandi cose (per dirla ancora con Giussani). Ma per carità, in un modo vivo e fresco, di nuovo finalmente vivibile, gustabile, direi quasi spalmabile sulla pelle. Respirabile, se volete. Insomma, molto concreto. 

In fondo è la rassicurazione robusta e lieta, del si può vivere così che ci serve, in questo periodo. Non ci serve veramente altro. Dice Guzzi in un altro testo (e lui sa che mi piace da matti), che noi esseri umani “non abbiamo bisogno di molto altro, ma solo di infinita consolazione” (per il dettaglio, si trova adesso all’apertura del volume “Facebook, il profilo dell’Uomo di Dio”). Ed allora, facciamola corta. Basta con i discorsi. Solo di questo abbiamo bisogno. Infinita consolazione. Di verità disincarnate ed astratte, di speculazioni intorno ai massimi sistemi davvero non sappiamo più cosa farne. 

Non sappiamo che farne perché non ci sono utili, non ci aiutano più, perché ormai la nostra coscienza moderna, la nostra potenziale consapevolezza – ci piaccia o no – è oltre l’asfittica disamina di torti e ragioni, di istruzioni per l’uso della vita che non abbiano sangue e carne, dentro. E’ inevitabilmente, storicamente oltre, e nessun ritorno indietro è più tollerabile. Soprattutto ora, che siamo stanchi di giochetti dialettici, che i giochetti dialettici sono fragorosamente saltati in aria, spazzati via finalmente, da questa infausta ed inattesa emergenza sanitaria.
E per inciso, se dopo, si tornasse come nulla fosse, alla contrapposizione dualistica di torti e ragioni, al combattimento fragoroso ed inutile delle mille opinioni, rimbalzate da un pagina di giornale ai social e viceversa, beh avremmo davvero perso una occasione. Che è presente, senz’altro presente, pur in mezzo a tanta sofferenza. 

Che poi se vogliamo, non c’è che da riscoprirla questa verità, in fondo non c’è da inventarsi nulla. 

Perché questo è anche il centro del messaggio cristiano, come evidenziato nel libro: nessuna verità disincarnata, la verità è una Persona. Lo ripetiamo da millenni, ma forse non l’abbiamo ancora ben capito, nel complesso. Meglio, non abbiamo assaporato tutta la aerea, sconfinata benefica larghezza ed inedita spaziosità di questa posizione, sempre nuova. Ma addentrandosi nel testo, questo si può anche non capire chiaramente, o non capire subito, e il fascino ti raggiunge ugualmente. Non ci sono ulteriori concetti da mandare a memoria, ci sono – Deo gratias! – cose che accadono.
Non è appena chi ha ragione che ci interessa, ma come si fa a vivere, perché la faccenda è questa, nel periodo presente, ogni sistema astratto che ci appagava tanto (in apparenza), è semplicemente saltato. Così è un aggancio biografico che appena ci può interessare, adesso. Così questo libro – e certamente altri, sullo stesso registro – oggi ci interessa particolarmente. O meglio, solo questo tipo di libri oggi si può realmente leggere, come saggio. 

Certo ci sono i romanzi, un buon romanzo attraversa i tempi ed è fruibile in ogni situazione. Ma come saggio, ecco, siamo qui, questo è ciò che è possibile leggere. Nessuna trattazione formale oggi regge. Questa sì, perché una vita è lo specchio di mille vite, ogni vita è una proposta alla nostra vita. 

Un libro esattamente per questi tempi, dunque. Sono tempi estremi, in cui solo una verità incarnata, una verità vivente, una verità non di concetti, ma di sangue circolante, ci può prendere.
Perché adesso ogni ulteriore diversione, deviazione, è semplicemente intollerabile. E allora si attraversano i temi eterni della cultura, della fede, della tecnica e dello sviluppo dell’uomo, della felicità e della politica, del matrimonio e della sessualità, della psicologia e del rinnovamento nella Chiesa, della morte e della creatività ma in modo ancora possibile, in modo ancora felicemente, carnale.

Ed è un piccolo ma robusto inno alla gioia quello che ne deriva, capace di ristorare e rincuorare il lettore smarrito di fronte agli eventi, donando un senso e una direzione, ragionevoli e (nonostante tutto) gioiosi, perché alla fine – fatemi dire così – non si tratta della vita di un tizio, che puoi conoscere o meno, puoi aver incontrato o meno. Non si tratta di essere esposti ad altre nozioni, a dotte speculazioni, riguardo la biografia di Marco Guzzi, riguardo i gruppi Darsi Pace, riguardo a questo o quello. Non sono ennesimi appigli perché tu “ti faccia un’idea”, metta un’etichetta alla cosa e passi avanti. 

No, ed è questo il bello. Alla fine capisci che si tratta della tua vita, e l’abilità semplice e potente di chi intervista (Francesco Marabotti) e chi racconta semmai, è sul rimanere ancorati a cose concrete di una vita, che scopri con piacere che riguardano direttamente la tua, di vita.

E la ristorano di una proposta, salutare.

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La casa degli sguardi

A volte ci sono dei suggerimenti a cui sei grato, semplicemente grato. Perché poi non sono semplici suggerimenti, sono delle proposte per incrementare la vita, per aumentarla. Sono spunti che ti aiutano ad essere vivo, un po’ di più. 
Spesso infatti ci diciamo, anche noi fisici ed astrofisici, che tutto è relazione, ma poi ci dimentichiamo che questo ha grandi e profonde ricadute anche nella nostra vita ordinaria. Proprio gli incontri e le connessioni, infatti, rendono questa vita più fonda, più imprevedibile, più meritevole d’essere vissuta. Un po’ più inattesa e lieta, in generale. 

Lo spunto di incontro con questo libro, e con Daniele Mencarelli, che ne è autore (che incontro personalmente al meeting), è quello di un ambiente e  di amici di cui ti fidi. Un suggerimento di lettura che non riesci a buttar via facilmente.

Certo, magari ti chiedi, perché proprio questo libro? Capisci la proposizione dei testi di Giussani (che peraltro, l’hai capito ormai, sono fonte inesauribile di sorpresa), capisci tanto altro (come i classici della narrativa, tesori luminosi dei quali sei grato, ma che in verità ti sorprendono meno, a livello di proposta), nei libri consigliati, ma questo in particolare ti incuriosisce. Un libro di narrativa contemporanea? Deve esserci sotto qualcosa, non può essere semplicemente come tanti altri, un prodotto per l’estate, uno dei tanti lanci editoriali che strizzano l’occhio ad argomenti facili, a narrazioni di poco impegno. Deve esserci una storia umana, sotto.

Quando chi ti propone qualcosa è per te autorevole, sei persuaso (lo sei, anche se ancora non comprendi) che quel che ti indica è di valore.

Il libro l’ho terminato pochi giorni fa, e sono grato, come dicevo, semplicemente grato. E’ una storia umana che tocca il cuore in modo profondo, perché Daniele racconta senza infingimenti, senza veli letterari. Mette giù la realtà così com’è, senza proporsi di abbellirla. All’inizio ti spiazza, totalmente. I suoi problemi di dipendenze, i rapporti con i genitori, soprattutto il nulla che attanaglia, non lascia respiro. Il senso del tempo che porta via tutto, da cui non si può scappare – se non apparentemente, con uno stordimento dei sensi, con una smemoratezza chimica od alcolica, che però riporta invariabilmente al punto iniziale. Ed anzi, nel tempo, accresce il disagio, la confusione. E allarga drammaticamente la confusione, lo stordimento, il cupio dissolvi, proprio alle persone a cui più si tiene.

E’ una situazione drammatica, quella da cui parte il libro. Tutto questo è raccontato così, in modo diretto. Senza abbellimenti, senza scansare gli aspetti più penosi e dolorosi.  E nel contempo, senza usare una sola parola più di quelle necessarie.

Lo confesso. Io ci credo che Daniele è un poeta. Non ho ancora letto molto di lui, a parte questo libro, ma ci credo totalmente. Perché solo un poeta ha questo profondo rispetto per le parole, per quello che dicono, che indicano. Solo un poeta le usa con verità ma con misura, senza indugiare negli effetti di coloriture eccessive o senza farsi tentare da sbiadimenti moralistici. Le usa per la profondità che loro hanno, insomma le rispetta, come già si diceva. Una per una.

Solo un poeta, insomma,  parla con questa verità.

La storia che racconta Daniele, scopertamente e dichiaratamente autobiografica, è come una salita dantesca dalle tenebre alla luce, una storia della quale preferisco lasciarne fuori i dettagli per non guastare a nessuno l’esperienza della lettura. La cosa che mi preme notare, è che il passaggio avviene in modo graduale, non trascurando niente, non censurando nulla. Parte anzi da una visione sincera di sé, fuori da ogni infingimento. Solo una presa di coscienza integrale di quello che si é, senza scandalo e senza belle intenzioni, può mettere in moto. Ma certo, non basta.

Due cose fondamentali che mi arrivano dal libro, devo ancora dire. Due cose rendono infatti possibile questo cammino, rendono praticabile, lavorabile, questo percorso.

Una è il valore dell’amicizia (che letteralmente, può salvare la vita). Davide è l’amico poeta che concretamente fornisce l’appoggio per Daniele, gli rende concreta la possibilità di un percorso di uscita da una condizione insostenibile, orientata alla vittoria del nulla, all’autodistruzione. L’amicizia entra in campo come opposizione profonda e radicata, a questa deriva. Come offerta di una relazione che sfida il nulla, ne smentisce la suggestione, lo sfianca. Ma questo è il primo passo. E non è tanto il fatto concreto, l’opportunità specifica (l’offerta di un lavoro presso l’Ospedale Bambino Gesù, in questo caso), ma il fatto profondissimo che scende nel cuore, di sentirsi guardati, sentirsi amati. Essere guardato infatti è il primissimo passo, che consente a Daniele di ripensarsi come esistente, e di poter scommettere su una positività del reale, che pure a volte sembra drammaticamente nascondersi.

L’altro è la percezione di evidenza, appunto, di questa positività, che non rimane appesa ad una teoria o ad uno sforzo volontaristico perché si riesca a vedere, ma si palesa lei stessa, in una inedita ed inattesa  bellezza.  Qui arriviamo al punto, all’architrave del libro. Non sono discorsi, non sono prediche, non sono elencazioni di valori morali che potranno salvare Daniele, che potranno salvare ciascuno di noi. E’ piuttosto la percezione potente della bellezza, come uno squarcio di luce che entra fino nelle circostanze più penose, vi entra e le illumina di una nuova possibilità.

L’episodio della suora che viene sorpresa mentre sorride e scherza con un bambino orribilmente (per Daniele, per tutti noi) malformato, è il vero punto di deflagrazione interna, di uno scoppio sotterraneo ma devastante, potentissimo, ingestibile. L’evidenza di una bellezza che muove la anziana suora a comportarsi in questo modo, è in un certo senso terribile. Nel senso che non ti lascia in pace, non ti dà tregua, ti accende dentro l’esigenza di spiegarti, di rispondere a quello che hai visto. Di fartene un modello, diremmo noi scienziati. Ma nessuno modello riduzionista riesce a tenere, nessuna ipotesi a decostruire rimane salda, quando chi vive è costretto, è ricondotto, ad ammettere la verità, l’accento di verità – e quindi di bellezza – di quanto ha visto, con i suoi occhi.

Vivendo nella carne, appunto. Non sono discorsi, ideologie, strategie ed utopie a sollevare Daniele, a sollevare ognuno di noi dai suoi stati più bassi, da donargli nuova libertà nelle sue dipendenze. E’ il tocco concretissimo del reale che lo viene a trovare, con quell’evidenza lancinante di un altro fattore che a questo punto entra, deve entrare, nella sua e nostra concezione del mondo, dei rapporti tra le persone, del destino ultimo del cosmo fin nelle sue più lontane stelle. Si tratta di non abiurare mai più a questa concretezza: «Noi non vogliamo Cristo solo, vogliamo anche gli alberi, la donna, tutte le creature!» diceva don Giussani.

Ed è davvero una occasione concretissima che fornisce a Daniele quel punto di appoggio che rende di nuovo la sua vita plastica, modificabile, lavorabile. E che insieme gli insinua quel gusto necessario per intraprendere l’opera, che è fatica e sacrificio, come per tutti noi, in qualsiasi condizione ci troviamo.

In quel gusto di costruzione i nostri limiti non sono più scogli insuperabili, si ammorbidiscono essi stessi, e si crea piano piano la sensazione di poter scorgere un percorso, che non censura, non dimentica nulla, non insiste sulla debolezza ma scommette sul potere della vita, su questa luce che affiora sul volto di una suora di più di ottant’anni che abbraccia e sorride a ciò di cui noi siamo spaventati. Da lì si inizia a vedere la realtà con occhi nuovi, e a questa nuova visione la realtà risponde, in un percorso che – non a caso – apre a Daniele la strada per realizzare la propria vocazione, donando la risposta operativa alla domanda più profonda, io perché sono qui? che è sotto alla domanda pressante perché questo dolore? che accompagna tante pagine del libro.

C’è bisogno di vedere, di vedere accadere cose così, di leggere libri così, per non squalificare la nostra vita giocandocela in modo opaco o spento. E per ritornare a domandare davvero, a domandare la gioia piena: perché domandarla non è sconveniente, non è fuori luogo, ma è proprio questa domanda (a volte sussurrata, a volte urlata) il luogo dove poter dimorare, dove poter tornare a dimorare.

Non bisogna nemmeno essere capaci di sorridere, se talvolta non ne siamo capaci. Piuttosto, occorre avere occhi aperti per vedere il sorriso aprirsi sincero sul volto di un’altro quando – per fortuna o piuttosto per grazia – ancora accade, davanti a noi.  

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Nominare le cose

La poesia è bella, è importante, mi dico, soprattutto per questo. La poesia prende sul serio le parole, le prende sul serio e le ama una per una. Il poeta smonta e rimonta un verso, ed è attento ad ogni singola parola. La rispetta, la onora. Anche una congiunzione, addirittura un carattere sospensivo, una virgola. Ecco, anche questa. Muovere un virgola in un verso a volte è cambiare tutto.
Il poeta ascolta le parole e ne estrae il succo, le mette insieme alle altre e controlla la miscela, gestisce l’alchimia. O almeno prova a farlo, perché poi la vera poesia, sfugge sempre di mano, esonda dai calcoli ordinari, acchiappa quell’aggancio di infinito che ha appena sfiorato e ci fa dimora, ci fa casa. Da lì si comunica anche ad altri, perché è irresistibilmente missionaria. E si realizza la magia, la rinnovata fratellanza tra gli uomini, legati dal comune anelito del cuore. 
Viviamo in una epoca diametralmente opposta alla poesia. La quantità di parole scritte è altissima (sui social, sulle reti di messaggistica), ma una gran parte di queste è utilizzata al minimo potenziale, è svilita, è prostituita. La parola così depotenziata è volgare, sempre volgare. E’ questa, a ben vedere, la vera pornografia. Perché è la più perniciosa: induce un pensiero parimenti depotenziato, servile, non libero. La vera poesia è liberante, non sopporta costrizioni ideologiche o morali, non le sopporta affatto.

Nacque il tuo nome da ciò che fissavi è il titolo del meeting di Rimini di quest’anno, ed è soprattutto un verso di una poesia di Giovanni Paolo II. Il segnale che raccolgo è positivo, confortante. In tempi di slogan e pensiero semplice, dove i cinguettii informatici di illustri ministri fanno a gara in inciviltà e nel rilancio del pensiero pigro, mettere un verso di una poesia a titolo di qualcosa, è andare in salutare controtendenza.

Come dice assai bene l‘articolo di Fabrizio Sinisi,  Tornare a nominare le cose, riscoprirne il nome, è un modo di sancire un nuovo inizio: è come nascere di nuovo. E cosa chiede il mondo d’oggi più di ogni cosa, se non il dono di poter rinascere? 

Abbiamo bisogno di un nuovo inizio, ne abbiamo sempre più bisogno. Ne abbiamo bisogno a livello personale e a livello sociale, in maniera inscindibile. Abbiamo bisogno di riprendere a sperare, di comprendere che erigere muri (dentro e fuori di noi), chiudere gli accessi (personali e nazionali), serrare i confini (di ogni tipo), non è la risposta alla sete di sicurezza, che è solo un ingabbiamento ulteriore nelle nostre paure e nella nostra solitudine. E chi fomenta tutto questo, giocando sporco sulle nostre paure e le nostre fragilità, non sta facendo un buon servizio, ai singoli e alla società.

La poesia è un superamento allegro e curioso, di ogni recinto… 

Abbiamo bisogno di un riscatto, di una ripresa. Diceva Don Giussani, alcuni anni fa, che abbiamo una sola legge: riprendere, ricominciare, risorgere. La poesia ci aiuta in questo, solo che le diamo udienza. Se accogliamo il suo modo di parlare al cuore, il nostro cuore si riapre, si allarga di nuovo. Possiamo ascoltare, di nuovo, il canto del mondo. E noi, di nuovo, respiriamo.

Ritorna bella e invitante, seducente e accogliente, la prospettiva di guarire, di ritrovare un modo e un mondo di rapporti più sereni, distesi, pieni ed appaganti. Ed il cielo ritorna a vivere dentro di noi, come recita il titolo della mostra su Etty Hillesum al meeting (e questa, a Dio piacendo, dovrò proprio contemplarla nella mia visita).

Etty non ha scritto poesie, che io sappia, ma il suo diario è un’opera incredibilmente poetica, e profetica anche. E’ un punto di partenza prezioso per ogni progetto di umanità nuova, che non eriga a sistema le sue paure, non le congeli dentro la vergogna di controversi decreti di sicurezza, ma le attraversi costantemente, slanciandosi verso l’ideale e la sua scintillante bellezza.

Non abbiamo bisogno di tanti discorsi, non c’è bisogno di retorica. Abbiamo bisogno di poesia, che è l’antidoto emozionante ad ogni sclerotizzazione ideologica, è una delle poche risorse per venire a galla dai discorsi, dai discorsi che non servono più.

Come già scriveva Alda Merini, nella lirica Ho bisogno di sentimenti,

Ho bisogno di poesia,
questa magia che brucia la pesantezza delle parole,
che risveglia le emozioni e dà colori nuovi.

Il meeting (se uno non si fa imbrigliare dai discorsi, appunto, e dall’idea che si è fatta di Comunione e Liberazione, ma semplicemente procede ad occhi aperti e cuore allargato) è una splendida occasione di sperimentare una umanità in ricerca, aperta agli stimoli della modernità e affezionata al valore buono delle tradizione, ai valori della cultura e della solidarietà (cosa non troppo banale, di questi tempi). Ed è sempre propositivo, un calderone – anche a volte affastellato, piacevolmente confuso – di proposte perché si comprenda che una vita migliore, più umana, è sempre possibile.

E non si ottiene certo chiudendosi dietro un limite, ma attraversandolo continuamente.

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Ti racconto il mio Sanremo

 … solo un caso: la trasferta è iniziata il 17 gennaio, festa si Sant’ Antonio abate, monaco eremita…

Non sarà un caso se gli accadimenti e i percorsi che ho intrapreso in varie modalità in questi ultimi tempi (il bellissimo Darsi Pace, il lavoro sul cuore con Giulia, l’incontro con suor Sveva eremita, il passaggio alla Pieve di Romena, insieme al richiamo di don Carron e di Papa Francescomi stanno avvicinando a un desiderio di silenzio e di svuotamento. La percezione oggi è quella di camminare su sentieri tortuosi con deviazioni, scale, discese e salite ma che conducono sulll ‘unica strada:  LA STRADA .


cielo mare  a Sanremo 

Sanremo è stata una bella esperienza. Il mio compito era che il lavoro per il programma che seguivo  che non era il festival, venisse seguito e realizzato con meno problemi possibili e nei tempi stabiliti. Non dovevo fare altro che essere accanto al mio collega che più giovane e più bravo di me ha svolto la parte creativa e che si trovava in prima linea a dover relazionarsi e mostrarsi ai committenti. Io ho potuto rimanere un passo indietro, essere “al servizio “, allenandomi nel metter a tacere un certo EGO che spesso fa capolino.

Il tempo di trasferta è un tempo particolare, ma anche privilegiato. Si è lontani dalla normalità della vita, e dagli amici, e dagli affetti quotidiani. Tutto viene sostituito dalla convivenza tra colleghi. Il tempo e l’impegno ruotano intorno al Festival di Sanremoe a tutti gli eventi collegati ad esso.
Ho desiderato da subito che il mio tempo non fosse inutile, disimpegnato o distratto nel turbinio di cene e pranzi a  tema fisso con pochissime eccezioni: lavoro, lavoro, lavoro farcito da pettegolezzi e le solite problematiche aziendali, tutto con un ritmo monotono fino ad arrivare alla nausea.
STARE con le persone anche dentro quella nausea è stata una sfida supportata anche dal pensiero che “L’unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, e anche l’unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di Te in noi stessi, mio Dio. Forse possiamo anche contribuire a disseppellirti dai cuori (devastati) di altri uomini. (…) tocca a noi aiutare te, difendere fino all’ultimo la tua casa in noi.  E.Hillesum
Così non ci sono più spazi o circostanze inutili. Con la preoccupazione di salvare quell’angolo di cuore, ma senza per questo sentirmi “migliore “degli altri, ho partecipato pienamente alla baraonda di queste giornate.
Ma come si fa a conciliare il bisogno di ESSENZIALE che sento come desiderio di pienezza, con il chiacchiericcio, la distrazione e il gigantesco superfluo di parole e cose di cui si viene bombardati senza tregua?
Bisogna nutrirsi!  Così il silenzio, la meditazione imparata con Darsi Pace, la bellezza del mare e del cielo, le biciclettate e miei pranzi solitari davanti al mare, il passaggio quotidiano nella Chiesa dei frati francescani, sono stati il nutrimento per non annegare nel nulla delle troppe cose …
Pur stando con le persone ho vissuto in una solitudine, e, come spesso  ormai mi succede, sentendomi un po’ “strana”. Queste giornate sono state un’attesa continua nel desiderio d’incontrare un’anima …
Regali ne ho avuti tanti: la breve colazione con Paola, in cui scopriamo il comune desiderio di stare “interi e centrati” e non far diventare una parentesi di vita questi giorni, poi la fresca ‘amicizia con i nostri” vicini di casa,  i frati, poi la  conoscenza e l ‘invito a cena di due bellissime famiglie di Sanremo in cui ho respirato la semplicità, l’ accoglienza e la pace dentro l ‘eccezionalità di una vita “normale “ma non facile.
Tra le cose che ascoltavo e mi nutrivano durante le mie biciclettate c è stata anche un’intervista di Simone Cristicchi che riprendeva la parola” essenziale” raccontando di due ragazze del terremoto dell ‘Aquila che hanno capito che per loro l essenziale era possedere solo 2 magliette, poi della felicità sorprendente incontrata nel volto di una monaca di clausura, e del significato della sua canzone….

E’ con questo cuore gonfio di attesa che quando  ascolto la canzone di  Simone Cristicchi  mi commuovo. Ho la fortuna di poterlo incontrare “dal vivo”, devo attendere che si concluda l ‘inseguimento dei cacciatori di selfie. Supero  mio timore di essere presa come una molestatrice perché io DEVO  parlargli.!  Dopo breve inseguimento lo blocco.

Il mio GRAZIE è venuto fuori come strabordante  e da un bicchiere troppo pieno. Era il riconoscimento di un cuore. Ci siamo  detti delle cose  e riconosciuti in  questa esigenza di  tempi di  silenzio davanti alla bellezza  regalata dal mare.
Era quel ‘anima che attendevo. Così inaspettata!  Improvvisamente ho sentito che il senso del mio essere a Sanremo era lì: un risveglio del cuore , una riprova di essere sulla stessa STRADA. 
Il giorno dopo lui torna nello studio per la trasmissione-talk pomeridiana. Ascolto l’intervista. Uno spazio di verità in cui  Cristicchi racconta come coraggiosamente ha presentato quella canzone, poi accenna alle nostre maschere, agli schiaffi e alle carezze della vita.  Dentro tanto parlottìo televisivo noiosissimo che  seguirà subito dopo con “gli esperti “, le poche parole ascoltate splendono come luce e vanno dritte come una lancia a colpire il cuore della gente. Il pubblico  infatti  applaude spontaneamente con forza.
Si, Simone Cristicchi  solo per questo ha già vinto! Tutto il resto e cosa ne seguirà non ha importanza .
Penso in quel momento al potere del microfono di cui aveva parlato lui stesso . Se la TV produce spazzatura, si mangerà spazzatura, ma se qualcuno risveglia il cuore, la gente se ne accorge, si muove, gioisce e si accende una speranza.
(a me  torna   in mente quando ho iniziato a lavorare in TV, quanto ero idealista  immaginando la possibilità di cambiare un pezzo di mondo.  Risvegliare le menti assopite, risvegliare le coscienze addormentate, aprire il cuore alla creatività e alla bellezza, educare alla solidarietà, credendo che questo fosse la mission del servizio pubblico…) 
 Nel breve colloquio avevo raccontato a Cristicchi che ero stata a Romena e avevo conosciuto don Luigi Verdi. Lui mi dice che, guarda caso, proprio la sera verrà  a trovarlo e m’ invita a passare a passare a salutarlo.
Un altro regalo è stato l’incontro inaspettato con Don luigi Verdi con cui trascorro del tempo prezioso  Parliamo di Dio, del silenzio, della fraternità di Romena, del dolore, della pace, dell ‘armonia, della ricerca, del bisogno di sintesi.
Questo è stato un ulteriore carezza o di Dio, un regalo più grande di ciò che potevo solo immaginare.
Così sazia di tutto ciò che avevo già avuto, non attendo il rientro di Cristicchi dal festival per festeggiare insieme. Il mio senso del dovere mi ha fatto rientrare al mio  lavoro.
Ma anche questo faceva un po’ parte del piano di Dio. Si vorrebbe rimanere lì, stare con chi riconosci come vero, come compagnia, ma non sempre è possibile.
Non possiamo metter le tende, dobbiamo tornare e stare nel mondo, mantenendo quella gioia riassaporata re incontrata per quel poco tempo di verità.
Così me ne torno tra la mia gente, con una letizia rinnovata e visibile. E’ come quando ci si innamora, improvvisamente tutto diventa bello!
Quella sottile tristezza e stanchezza che portavo con me in quelle giornate era scomparse ma ne ho visto  il senso ricordando certe parole di Giussani :
Le due grazie che il Signore dona sono: la tristezza e la stanchezza.
La tristezza perché mi obbliga alla memoria
E la stanchezza mi obbliga alle ragioni del perché faccio le cose.


Ho voluto scrivere per non dimenticarmi delle cose 
belle e inaspettate che accadono.

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