La casa degli sguardi

A volte ci sono dei suggerimenti a cui sei grato, semplicemente grato. Perché poi non sono semplici suggerimenti, sono delle proposte per incrementare la vita, per aumentarla. Sono spunti che ti aiutano ad essere vivo, un po’ di più. 
Spesso infatti ci diciamo, anche noi fisici ed astrofisici, che tutto è relazione, ma poi ci dimentichiamo che questo ha grandi e profonde ricadute anche nella nostra vita ordinaria. Proprio gli incontri e le connessioni, infatti, rendono questa vita più fonda, più imprevedibile, più meritevole d’essere vissuta. Un po’ più inattesa e lieta, in generale. 

Lo spunto di incontro con questo libro, e con Daniele Mencarelli, che ne è autore (che incontro personalmente al meeting), è quello di un ambiente e  di amici di cui ti fidi. Un suggerimento di lettura che non riesci a buttar via facilmente.

Certo, magari ti chiedi, perché proprio questo libro? Capisci la proposizione dei testi di Giussani (che peraltro, l’hai capito ormai, sono fonte inesauribile di sorpresa), capisci tanto altro (come i classici della narrativa, tesori luminosi dei quali sei grato, ma che in verità ti sorprendono meno, a livello di proposta), nei libri consigliati, ma questo in particolare ti incuriosisce. Un libro di narrativa contemporanea? Deve esserci sotto qualcosa, non può essere semplicemente come tanti altri, un prodotto per l’estate, uno dei tanti lanci editoriali che strizzano l’occhio ad argomenti facili, a narrazioni di poco impegno. Deve esserci una storia umana, sotto.

Quando chi ti propone qualcosa è per te autorevole, sei persuaso (lo sei, anche se ancora non comprendi) che quel che ti indica è di valore.

Il libro l’ho terminato pochi giorni fa, e sono grato, come dicevo, semplicemente grato. E’ una storia umana che tocca il cuore in modo profondo, perché Daniele racconta senza infingimenti, senza veli letterari. Mette giù la realtà così com’è, senza proporsi di abbellirla. All’inizio ti spiazza, totalmente. I suoi problemi di dipendenze, i rapporti con i genitori, soprattutto il nulla che attanaglia, non lascia respiro. Il senso del tempo che porta via tutto, da cui non si può scappare – se non apparentemente, con uno stordimento dei sensi, con una smemoratezza chimica od alcolica, che però riporta invariabilmente al punto iniziale. Ed anzi, nel tempo, accresce il disagio, la confusione. E allarga drammaticamente la confusione, lo stordimento, il cupio dissolvi, proprio alle persone a cui più si tiene.

E’ una situazione drammatica, quella da cui parte il libro. Tutto questo è raccontato così, in modo diretto. Senza abbellimenti, senza scansare gli aspetti più penosi e dolorosi.  E nel contempo, senza usare una sola parola più di quelle necessarie.

Lo confesso. Io ci credo che Daniele è un poeta. Non ho ancora letto molto di lui, a parte questo libro, ma ci credo totalmente. Perché solo un poeta ha questo profondo rispetto per le parole, per quello che dicono, che indicano. Solo un poeta le usa con verità ma con misura, senza indugiare negli effetti di coloriture eccessive o senza farsi tentare da sbiadimenti moralistici. Le usa per la profondità che loro hanno, insomma le rispetta, come già si diceva. Una per una.

Solo un poeta, insomma,  parla con questa verità.

La storia che racconta Daniele, scopertamente e dichiaratamente autobiografica, è come una salita dantesca dalle tenebre alla luce, una storia della quale preferisco lasciarne fuori i dettagli per non guastare a nessuno l’esperienza della lettura. La cosa che mi preme notare, è che il passaggio avviene in modo graduale, non trascurando niente, non censurando nulla. Parte anzi da una visione sincera di sé, fuori da ogni infingimento. Solo una presa di coscienza integrale di quello che si é, senza scandalo e senza belle intenzioni, può mettere in moto. Ma certo, non basta.

Due cose fondamentali che mi arrivano dal libro, devo ancora dire. Due cose rendono infatti possibile questo cammino, rendono praticabile, lavorabile, questo percorso.

Una è il valore dell’amicizia (che letteralmente, può salvare la vita). Davide è l’amico poeta che concretamente fornisce l’appoggio per Daniele, gli rende concreta la possibilità di un percorso di uscita da una condizione insostenibile, orientata alla vittoria del nulla, all’autodistruzione. L’amicizia entra in campo come opposizione profonda e radicata, a questa deriva. Come offerta di una relazione che sfida il nulla, ne smentisce la suggestione, lo sfianca. Ma questo è il primo passo. E non è tanto il fatto concreto, l’opportunità specifica (l’offerta di un lavoro presso l’Ospedale Bambino Gesù, in questo caso), ma il fatto profondissimo che scende nel cuore, di sentirsi guardati, sentirsi amati. Essere guardato infatti è il primissimo passo, che consente a Daniele di ripensarsi come esistente, e di poter scommettere su una positività del reale, che pure a volte sembra drammaticamente nascondersi.

L’altro è la percezione di evidenza, appunto, di questa positività, che non rimane appesa ad una teoria o ad uno sforzo volontaristico perché si riesca a vedere, ma si palesa lei stessa, in una inedita ed inattesa  bellezza.  Qui arriviamo al punto, all’architrave del libro. Non sono discorsi, non sono prediche, non sono elencazioni di valori morali che potranno salvare Daniele, che potranno salvare ciascuno di noi. E’ piuttosto la percezione potente della bellezza, come uno squarcio di luce che entra fino nelle circostanze più penose, vi entra e le illumina di una nuova possibilità.

L’episodio della suora che viene sorpresa mentre sorride e scherza con un bambino orribilmente (per Daniele, per tutti noi) malformato, è il vero punto di deflagrazione interna, di uno scoppio sotterraneo ma devastante, potentissimo, ingestibile. L’evidenza di una bellezza che muove la anziana suora a comportarsi in questo modo, è in un certo senso terribile. Nel senso che non ti lascia in pace, non ti dà tregua, ti accende dentro l’esigenza di spiegarti, di rispondere a quello che hai visto. Di fartene un modello, diremmo noi scienziati. Ma nessuno modello riduzionista riesce a tenere, nessuna ipotesi a decostruire rimane salda, quando chi vive è costretto, è ricondotto, ad ammettere la verità, l’accento di verità – e quindi di bellezza – di quanto ha visto, con i suoi occhi.

Vivendo nella carne, appunto. Non sono discorsi, ideologie, strategie ed utopie a sollevare Daniele, a sollevare ognuno di noi dai suoi stati più bassi, da donargli nuova libertà nelle sue dipendenze. E’ il tocco concretissimo del reale che lo viene a trovare, con quell’evidenza lancinante di un altro fattore che a questo punto entra, deve entrare, nella sua e nostra concezione del mondo, dei rapporti tra le persone, del destino ultimo del cosmo fin nelle sue più lontane stelle. Si tratta di non abiurare mai più a questa concretezza: «Noi non vogliamo Cristo solo, vogliamo anche gli alberi, la donna, tutte le creature!» diceva don Giussani.

Ed è davvero una occasione concretissima che fornisce a Daniele quel punto di appoggio che rende di nuovo la sua vita plastica, modificabile, lavorabile. E che insieme gli insinua quel gusto necessario per intraprendere l’opera, che è fatica e sacrificio, come per tutti noi, in qualsiasi condizione ci troviamo.

In quel gusto di costruzione i nostri limiti non sono più scogli insuperabili, si ammorbidiscono essi stessi, e si crea piano piano la sensazione di poter scorgere un percorso, che non censura, non dimentica nulla, non insiste sulla debolezza ma scommette sul potere della vita, su questa luce che affiora sul volto di una suora di più di ottant’anni che abbraccia e sorride a ciò di cui noi siamo spaventati. Da lì si inizia a vedere la realtà con occhi nuovi, e a questa nuova visione la realtà risponde, in un percorso che – non a caso – apre a Daniele la strada per realizzare la propria vocazione, donando la risposta operativa alla domanda più profonda, io perché sono qui? che è sotto alla domanda pressante perché questo dolore? che accompagna tante pagine del libro.

C’è bisogno di vedere, di vedere accadere cose così, di leggere libri così, per non squalificare la nostra vita giocandocela in modo opaco o spento. E per ritornare a domandare davvero, a domandare la gioia piena: perché domandarla non è sconveniente, non è fuori luogo, ma è proprio questa domanda (a volte sussurrata, a volte urlata) il luogo dove poter dimorare, dove poter tornare a dimorare.

Non bisogna nemmeno essere capaci di sorridere, se talvolta non ne siamo capaci. Piuttosto, occorre avere occhi aperti per vedere il sorriso aprirsi sincero sul volto di un’altro quando – per fortuna o piuttosto per grazia – ancora accade, davanti a noi.  

Loading

I Beatles, e quell’odore della carta

Sono un po’ esitante, perché in un certo senso già capisco che questo post si muove un po’ in senso contrario a quanto abbiamo più volte scritto su queste colonne (improprio, ma mi piace scrivere su queste colonne..), in diverse occasioni, in merito al raffronto tra lettura su carta e lettura digitale. 
Perché nonostante tutto, io rimango un grande fautore della lettura digitale. E’ qualcosa di bellissimo mettere nello zainetto un Kindle e con questo semplice gesto, portarsi appresso una buona frazione della propria biblioteca di casa. Centinaia di libri, tutti a disposizione. Dove puoi peraltro cercare come non hai mai osato fare (tipo, una specifica parola in tutti i tuoi libri… sfido a farlo con il cartaceo, sarebbe un lavoro enorme anche per una squadra di persone). E poi…
No, ma ritorno al tema. Qui voglio dirlo, ammettere una certa peculiarità del libro di carta. Quello che compri in libreria e sfogli, per capirci. 
Non è che mi sono riconvertito al cartaceo così, per approfondita riflessione. Non è così.
Soltanto, che oggi mi trovato al centro di Roma, per alcune incombenze, svolte le quali mi sono concesso una passeggiatina (avevo con me l’ombrello, dunque non sarebbe piovuto), fino alla Galleria Colonna (ora, Galleria Alberto Sordi). Lì sono stato attratto da Feltrinelli, come una mosca dal miele (non c’è verso). Vabbè che da quando ho il Kindle, uso la libreria solo come un elenco di suggerimenti… Comunque entro, gironzolo un po’, respirando l’aria dei libri, che è sempre buona. Arrivo al terzo piano, in realtà cercando più la caffetteria che altro, ma mi imbatto in una piccola sezione di libri riguardanti la musica. 
Questa non si può trascurare. 
Dopo un po’ – trovo tanti bei libri che regolarmente scarto perché costano troppo per le mie tasche – proprio quando stavo cercando un libricino (non troppo costoso) da portarmi via, magari trascinarlo in caffetteria e farci colazione insieme, trovo questo: un libricino (non troppo costoso) da portare via, da farci colazione e magari portarlo anche a casa. Ovvero,  abbastanza quello che stavo cercando. 
A questo punto, faccio una verifica sul cellulare, sperando che non ci sia su Amazon. Invece c’è. Allora, in seconda battuta, spero che non ci sia per Kindle, eccheccavolo, quando ne voglio uno (anche famoso) non c’è mai, questo invece chi lo conosce (senza offesa) e invece …
Invece c’è. Maledizione. E risparmierei, non molto devo dire, comunque lo farei. 
Delusione. A questo punto la procedura di lavoro è delineata: dovrei lasciarlo lì, uscire dalla libreria (con o senza stop nella caffetteria) e poi comprarmelo per il Kindle mentre torno a casa, tramite lo smartphone. Tornando insomma a mani vuote, almeno nel senso più fisico della questione.
Però, però vediamo… (occhio, qui inizia la parlamentazione interna)… magari lo posso almeno portare con me a far colazione, poi si vedrà… Lo posso sempre rimettere a posto, dopo. Chi mi dice nulla? 
Esatto, questo si può fare, non è una violazione di nessuna mia regola interiore, non è scorretto, Marco daje, prendi ‘sto libro dallo scaffale, deciditi. Prima di notte, insomma. 
Lo prendo, allora? OK,lo prendo. 
Arrivo alla caffetteria, che poi è proprio lì dietro, stesso piano, pochi metri distante dalla sezione musica. Ordino cappuccino e brioche e mi siedo, in compagnia del libro. Almeno questo tempo lo passiamo insieme tu ed io (gli dico, lui peraltro rimane abbastanza muto, pur essendo un libro di argomento musicale).
Beatles e cappuccino. Un connubio di grande impatto psichedelico.
Iniziamo a fare conoscenza, allora. E devo dire che qui il mio convincimento digitale inizia ad andare in crisi. Per le informazioni che arrivano con questo libro cartaceo, essenzialmente. Che non mi arrivano con la versione Kindle. Ma non intendo qui il solito profumo della carta (che poi tutto ‘sto profumo non mi pare che ce l’abbia). Intendo cosa più banali, terra terra. 
La grandezza del libro, intanto. Il suo peso. Il grado di rigidità della copertina in cartoncino. Lo spessore delle pagine. E poi, sfogliando, la scelta del carattere tipografico (abbastanza grande che riesco a leggere senza occhiali, bene). Il tipo di carta, la sua specifica porosità. Poi qui di sono i disegni. Ecco, come sono intersecati allo scritto, in che pagine, che impressione globale mi danno. 
Sul Kindle tutto è ottimizzato, sapientemente ottimizzato: ma è sempre quello. Il tipo di carattere, la dimensione del libro, il peso ovviamente, insomma un libro è sempre uguale all’altro tranne che per quel che c’è scritto. Qui un libro vero è già diverso dall’altro a prescindere da quel che c’è scritto. 

Il punto interessante (per cui vi ho portato fin qui), è che quel che c’è scritto si imbeve del contesto, e ne riceve un profumo e una consistenza particolari. Quel che c’è scritto si contamina con il suo contenitore, e si realizza una unione particolare, non riproducibile in modo digitale. Una cosa non del tutto logica, leggermente psichedelica, per restare in tema Beatles.
Prendiamo una frase più o meno a caso. Ecco, prendiamo da pagina 18.

Da tutto il mondo ci si sarebbe recati tra i palazzi e le strane nebbiose della capitale inglese e a respirare la nuova aria che cominciava a circolare e ad avvolgere la vita delle nuove generazioni, influenzandone il modo di vivere, il modo di pensare, i rapporti sociali, le relazioni interpersonali, insomma ridefinendo un intero stile di vita. 

Ora, che io lo leggo sul libro, alla pagina che sta a sinistra, dove devo esercitare pressione perché il libro ancora abbastanza nuovo, non si richiuda, che lo leggo con questi caratteri tipografici, che intanto avverto l peso della parte destra che è ancora preponderante, il che a sua volta mi dice che ho appena iniziato (lo dice in modo analogico, ma lo dice), e me lo dice insieme allo sforzo moderato ma percepibile del pollice della mano sinistra, almeno fino a che non mi decido e come facevo un tempo “convinco” il libro (che ancora nutre indecisi rimpianti per il suo stato di previa verginità non essendosi ancora mai relazionato con un vero fruitore)  ad essere letto e a non richiudersi subito, passando energicamente la mano sul libro tenuto aperto, lungo la sua costola… 
Insomma, tutte queste metainformazioni mi arrivano allo stesso momento dei concetti della frase, e formano un tutt’uno alla mia percezione. Io leggo da tutto il mondo… e mentre penso ai Beatles questo concetto si arricchisce del colore leggermente giallino della carta, dei rapporti di peso che sento sulla mano, del contatto con questo oggetto. E questo influenza il mio modo di sentire, per parafrasare il brano citato, lo fa indubbiamente.

Ma tutto questo è avvenuto dopo, dopo aver superato lo scoglio, aver rischiato su questa domanda: lo compro o non lo compro, questo libro?

C’è voluta una scusa, per zittire il mio Catilina interno molto occupato a dirmi guarda Marco, guarda che la versione Kindle ti costa di meno… resisti alla tentazione di non uscire a mani vuote, non ti fare abbindolare… insomma ragiona, che ti costa rimettere questo libro sullo scaffale? Fai la cosa furba, falla… 

Non sapevo cosa rispondere. Alla fine mi è arrivata un’idea, forse non robustissima, ma è stata sufficiente. E le figure, i disegni, gentile signor censore? Lei ha ragione in generale, ma … sappiamo tutti che i libri con figure rendono meglio su carta…

Non mi soffermo sulla robustezza di tale considerazione. Dirò solo, che grazie a quella sono riuscito. 


E stavolta, credo stavolta la cosa furba l’ho fatta, ma non quella che pensa lui.
Sono uscito, con il mio libro del Beatles, ancora in mano.
Un po’ come ai vecchi tempi, un po’ come allora.
I Beatles, secondo me, sono d’accordo: e questo già chiude ogni questione.

Loading

La vera stella che vuoi essere

Assai volentieri ospitiamo la presentazione integrale della professoressa Carla Ribichini (I.C. Comprensivo “Marcello Corradini”, Roma), contenuta nel volume di racconti per ragazzi “Anita e le stelle” (Arsenio Edizioni, Euro 14) in uscita in questi giorni, già disponibile su Ibs.it.
 

«A volte  mi  sento  brillare  come  una  stella  che  non  vive  in  cielo,  vive sulla  terra  e  brilla  anche  di  giorno.  È  facile  sentirsi  una  stella,  basta amare  la  vita  e  sentire  dentro  la  vera  stella  che  vuoi  essere.  Dentro tutti  siamo  stelle.»  

 
Così  Davide,  in  modo  semplice  e  commovente,  racconta  la  sua  esperienza  dopo  la  lettura  del  racconto  di  Marco  Castellani La bambina e il quasar
 
Gli  alunni  della  scuola  media  “P.M.  Corradini”  di  Roma  hanno partecipato  al  progetto  Educare  narrando… tra  Scienza e Poesia e hanno  compreso  che  raccontare  una  storia  non  è  pratica  oziosa,  ma strumento  per  educare  e  risvegliare  i  cuori.  Lasciar  parlare  la  voce delle  storie  è  importante  perché  le  storie  mettono  in  movimento  la vita  interiore,  soprattutto  quando  è  denutrita,  spaventata  e  messa  alle strette,  come  spesso  lo  è  la  vita  dei  nostri  giovani. 
 
 
Unire  lo  studio  metodico  e  rigoroso  dello  scienziato  allo  stupore e  alla  meraviglia  del  poeta  è  l’azione  coraggiosa  di  Marco  Castellani. I  momenti fondamentali  del  suo  prezioso  lavoro:  ricerca  e  conoscenza, restituzione  e  servizio,  sono  stati  per  noi  strumenti  di  apprendimenti significativi.  La  sua  passione  per  l’universo  e  il  suo  amore  per  l’uomo che  lo  abita  lo  hanno  spinto  a  donarci  una  scienza  nuova.  Lo  scienziato  illuminato  sa  che  la  conoscenza  da  sola  non  basta,  ed  ecco  allora  che,  tra  le  righe  dei  suoi  racconti,  si  affaccia  una  scienza  che  si rende  disponibile  e  comprensibile  e  si  mette  a  disposizione  di  tutti  attraverso  emozioni  e  ritmi  narrativi.  

L’autore,  scienziato  e  poeta,  ha voluto  divulgare  la  scienza  in  modo  nuovo,  l’ha  liberata  dalle  sue  catene.  Una  scienza  non  più  prigioniera,  ma  dettata  dal  cuore  ha  reso comprensibili  i  concetti  più  astratti  e  complessi;  l’intimo  colloquio  che l’autore  è  riuscito  a  stabilire  tra  scienza  e  poesia  è  stato  la  chiave  segreta  per  conoscere  il  mistero  della  vita.  
 
I  racconti  sono  stati  una  finestra  aperta  sul  cielo.  La  curiosità  e  lo  stupore  della  protagonista  e la  sua  forte  determinazione  alla  conoscenza,  hanno  aperto  un  varco e  spalancato  le  porte  dell’universo;  la  classe  si  è  trasformata  in  un vero  e  proprio  osservatorio  e  i  ragazzi,  che  generalmente  hanno  lo sguardo  rivolto  a  terra,  hanno  alzato  gli  occhi  e,  con  il  naso  in  su,  si sono  divertiti  a  contare  le  centinaia  di  migliaia  di  stelle,  hanno  assaporato  l’armonia  perfetta  che  anima  il  cosmo.  E  il  cosmo,  prima  lontano  ed  oscuro,  a  poco  a  poco,  si  è  fatto  loro  più  vicino,  i  corpi  celesti  sono  entrati  nello  spazio  del  loro  cuore  cambiando  il  loro  universo interiore:  tutti  hanno  conosciuto  il  cielo  sopra  e  dentro  di  loro  e  fatto esperienza  del  legame  profondo  che  c’è  tra  gli  uomini  e  le  stelle. 
 
Così  raccontano  Marika  e  Aurora 

«In  un  punto  sparso  dell’universo  ci  siamo  io  e  le  mie  possibilità:  ogni  mia  molecola  è  unica,  capiente  di  speranza  e  saggezza,  voglio  incamminarmi,  fare  un  passo in  avanti  e  trovare  la  mia  luce.  Vari  stadi  di  conoscenza  evoluta  mi attendono  e  le  stelle  aspettano  il  mio  arrivo.»  (Marika) 

«Sono  una  piccola  stella  che  brilla,  silenziosa  e  tranquilla,  sempre in  evoluzione.  L’essere  umano  è  rinchiuso  nella  parte  più  buia  e  triste di  sé.  Credo  che  tutti  noi  siamo  stelle  e  dobbiamo  evolverci,  uscire  da quella  profonda  oscurità  e  affrontare  la  vita  nella  luce.»  (Aurora) 

La  lettura  è  stata  un’avventura  affascinante,  ha  permesso  ai  ragazzi  di  diventare  un  po’  esploratori,  un  po’  scienziati,  un  po’  poeti  e conoscere  le  meraviglie  della  scienza.  L’autore,  con  umiltà,  ha  guidato  tutti  a  scoprire  la  bellezza  che  dorme  nascosta  nell’universo  e, in  modo  delicato  e  discreto,  ci  ha  coinvolti  per  proteggere  e  salvare la  nostra  dimora  planetaria.  I  ragazzi  si  sono  sentiti  chiamati  a  fare la  loro  parte,  hanno  lavorato  con  la  serietà  di  veri  scienziati,  hanno imparato  a  guardare  il  cielo  e  hanno  sentito  il  desiderio  di  portare  la sua  luce,  il  suo  raccoglimento  e  il  suo  silenzio  sulla  terra  bisognosa. Queste  sono  le  loro  sincere  e  commoventi  promesse:  

«Le  corde  dell’Universo  mi  avvolgono  e  mi  trascinano  in  un  insolito  viaggio. Vedo  sfumature  di  energia  potente  che  galleggiano  sulle  onde  del mare  infinito.  Le  stanze  dell’Universo  sono  aperte  e  il  ragazzo  che non vuole  sprofondare  in  un  buco  nero  guarda  oltre,  ascolta  il  silenzio delle  stelle  e  della  loro  pazienza.  Sa  trovare  la  giusta  direzione, mantenere  le  promesse  e  migliorare.»  (Marika) 

«Ogni  volta  che  appoggio  la  testa  sul  cuscino,  in  quell’istante prima  di  addormentarmi,  vedo  in  uno  specchio  la  mia  immagine  rifratta  che  si  tramuta  prima  in  acqua  e  ancora  in  aria  e  quell’aria  arriva  nel  lontano  universo.  Da  lì  osservo  il  mondo  e  mi  sento  libera: sono  un  piccolo  anello  di  una  grande  catena,  sono  un  piccolo  strumento  di  un’infinita  orchestra  e  di  un’infinita  armonia.  Come  ragazza dell’universo  prometto  che  sarò  forte  e  tenace  e  lo  salverò.»  (Monica) 

«Prometto  di  trasformare  il  male  delle  persone  in  amore,  di  piantare  il  seme  della  conoscenza,  di  lasciar  giocare  la  mente  con  le stelle  e  di  correre  con  le  comete.  Come  un  vecchio  saggio  prometto di  ascoltare  il  silenzio  siderale  dell’universo»  (Tiziano). 

L’uomo  ha un assoluto  e  urgente  bisogno  di  essere  introdotto  alla Scienza  e  comprendere  il  mondo  in  cui  vive,  da  sempre  si  è  sentito misteriosamente  attratto  dalla  potentissima  energia  che  continuamente  piove  dal  cielo,  da  sempre  ha  percepito  una  forza  primordiale strettamente  connaturata  con  la  sua  vita;  eppure,  di  fronte  all’immensità  del  creato,  ha  provato  paura  e  solitudine;  avvicinarsi  all’astrofisica  e  conoscere  l’universo  è  per  lui  un’esperienza  importante e  necessaria. 
 
L’astrofisico  Marco  Castellani  ci  ha  dato  l’opportunità  di  interagire  con  la  Scienza  e,  con  la  leggerezza  del  poeta,  ci  ha  permesso  di ascoltare  la  voce  dell’universo;  in  modo  stimolante  e  coinvolgente,  ci ha  ricordato  che  l’universo  ha  bisogno  di  ognuno  di  noi,  della  nostra consapevolezza  e  del  nostro  lavoro;  i  suoi  racconti  sono  stati  un  sofisticato  e  potente  telescopio  grazie  al  quale  abbiamo  compiuto  un vero  e  proprio  viaggio  planetario. 
 
Alla  fine  del  viaggio  le  distanze  si  sono  sorprendentemente  annullate:  scienza  e  poesia,  cielo  e  terra,  abissi  e  altitudini,  esseri  umani e  stelle,  tutto  strettamente  connesso,  legato  e  unito.  Ci  siamo  sentiti finalmente  meno  soli,  abbiamo  subito  il  fascino  delle  stelle  e  capito di  essere  a  casa,  innamorati  del  nostro  immenso  cielo,  quello  sopra di  noi  e  quello  dentro  di  noi. 

«Ho  visto  pianeti  conosciuti, 
narrati  con  amore 
ho  ascoltato  le  loro  storie, 
assaporato  le  loro  verità 
mi  sono  accorta  di  essere  tutt’uno  con  l’universo 
e  che  l’universo  è  in  me.» (Daniela)

Loading

Roma, somiglia anche a me

Roma mi somiglia Roma mi somiglia by Serena Maffia
My rating: 4 of 5 stars

Mi è piaciuto. La poesia della Maffia è sanguigna, pulsionale, apparentemente delicata con degli affondi inattesi, luminosi, completamente carnali. Roma è diffusa in tutta questa raccolta poetica, che gioca con i mille ritmi del cuore, e l’innamoramento è sempre del corpo e della città, di un corpo e una citta, definita, determinata, storica e luminosa. Non c’è separazione tra privato e sociale, tra spazi intimi e angoli e piazze cittadine, c’è appena un comune sentire, un soffio di sottile gioia che comprende e non separa, mette insieme e lascia fiorire. Poesia leggera, che non pretende e non spaventa, e per questo, poesia (di nuovo) possibile compagna di vita.

View all my reviews

Ecco, ogni tanto ci penso. Lasciare traccia di quanto si legge, anche questo è un compito. Qualcosa che aiuta a fare un cammino, ad uscire dalla distrazione, dalla omologazione. Che è la stessa cosa. Il cammino che abbiamo davanti è di esprimere la nostra personalità, di macchiare il mondo di noi stessi, dei nostri personalissimi umori, odori. Siamo unici, e ogni tragitto di letture – anche – ci rimette davanti alla nostra unicità.  Come reagiamo a quanto troviamo scritto, come interagiamo con le parole pensate, dette, scritte da altri? 
E la poesia, specialmente la poesia, non è alla fine una semplice faccenda di interazione, di intersezione, tra chi scrive e chi legge? Ogni libro di poesia che trovo, che apro, non è per me la possibilità di arricchire la parola scritta, facendola vibrare dei miei stessi personali autostati, impregnandola di vita, della mia vita? La poesia grande, quella vera, assorbe la vita degli altri, è aperta ad ogni vita, la fa risuonare e la esalta. La mia vita passa dentro i versi di qualcun’altra, do qualcun’altro, e mi ritorna più colorata. 
Come Roma. Lei, lei davvero si fa teatro attivo delle emozioni di chi la percorre; le assorbe, le custodisce, le impreziosisce delicatamente e le ritorna più dense, arricchite di una qualità speciale. Personale, soprattutto. Roma non ha tempo da sprecare (e nemmeno tu, nemmeno io), per rimanere anonima, spersonalizzata, disincarnata o astratta. No, per niente. Invedce, Roma avvia un dialogo speciale ed unico con ognuno. Così che lo posso dire, alla fine. O già all’inizio, già al primo scorcio di infinito domestico. Roma mi somiglia, infatti. 
Somiglia anche a me. 

Loading

Una scuola che guarisce

Il post sul blog della scuola recita proprio così, c’è una scuola che diventa ogni giorno poesia. Ed è forse la cosa più bella, e al contempo più concreta, più solida, più antiretorica che si possa affermare, sull’educazion. Perché la poesia ha questo in comune con ciò che ci appare normalmente “con i piedi per terra”, cioè con la scienza: è estremamente concreta. In fondo, poeti e scienziati fanno lo stesso mestiere, è ormai assodato. Sarà forse per questo, mi chiedo, che c’è chi prova a farli… entrambi? 

L’incontro con le seconde classi dell’I.C. Corradini di Roma, sul mio libro Imparare a guarire, non è niente di improvvisato o estemporaneo, ma è il coronamento di un lavoro veramente bello che hanno fatto gli insegnanti – la professoressa Carla Ribichini e le sue colleghe – in un arco ormai di diversi mesi, direi con allegra costanza. Lavoro molto radicato e concreto, che abbiamo riportato in varie sedi, tra cui il blog della sezione educativa dell’Istituto Nazionale di Astrofisica.

Lo penso, questo lavoro, come qualcosa che cresce, che irrobustisce, che accende una piccola ma consistente luce di speranza: per questo ha valore, direi oltre le nostre piccole persone. Per questo è importante. Per questo, ancora, sconfessa e fa esplodere – direi dall’interno – tante analisi anche giustificate, ma in fondo (mi pare) inutilmente e pericolosamente rinunciatarie, che vengono fatte quotidianamente sullo stato dell’educazione in Italia. 

C’è davvero una scuola diversa, una scuola visionaria e bella, che rispetta ed onora le emozioni e per questo cerca di farle crescere e germogliare su un terreno sano, colorato, morbido. Cerca di aiutare i ragazzi a guarire, a fiorire nella loro splendida unicità. Non certo massificando, omologando, preparando al mondo del consumo: no, niente di tutto questo. Lo fa, piuttosto, entrando a piccoli passi nella diversità meravigliosa di ognuno di loro, custodendola e onorandola con intelligente amorevolezza, accompagnandola con delicata sensibilità: premessa indispensabile perché possa fiorire, nel tempo, al suo tempo. 
Per questo ci si serve utilmente anche della poesia, delle poesie. Il mio sincero riconoscimento va dunque ai professori dell’Istituto Corradini che hanno visto nel mio recente libro uno strumento di lavoro, leggendovi delle potenzialità d’utilizzo che io stesso non avevo affatto messo a fuoco con tale limpidezza. Per questo,  ci siamo ritrovati, mercoledì 31 di ottobre, insieme ai ragazzi, agli insegnanti e ai genitori interessati, per celebrare insieme questo lavoro che è intrinsecamente poetico, in radice.

Si tratta, in fondo, di imparare a guarire tutti insieme, facendo appoggio sul nostro stare insieme – non in senso volontaristico, ma per esercitarci in una mutua comprensione, una feconda reciproca  compassione. Con noi, per radicarci al compito ed insieme al territorio (siamo ai bordi di Roma, al confine dell’Impero), graditissimi ospiti alcune persone dell’associazione Frascati Poesia tra cui Rita Seccareccia.

Ed è stata, veramente, una celebrazione, o se volete, una festa. Questo è il carattere, sempre perso ma sempre da ricercare, dell’uomo nascente, che è magari debolissimo in tutto ma forte in questo desiderio di luce, pace ed integrità. Forte, in questo inesausto anelito di rinascere fuori da ogni menzogna e ogni roboante retorica, per un pensiero nuovo che sia, innanzitutto, un respiro profondo, un respiro fiorito, che lo redime perpetuamente e redime perpetuamente ogni cosa intorno. Già credere in questa possibilità, crederci davvero, è invitare l’universo ad ordinarsi in tale senso:  è una cosa attiva e rivoluzionaria insieme. 
L’incontro si è svolto tra lettura delle poesie del libro, impreziosite dalle emozioni e dalle impressioni che avevano suscitato nei ragazzi, e musiche e danza, in un alternarsi lieto che chiama molto concretamente all’unità di ogni espressione artistica. Soprattutto, vivendo questo evento, mi era chiaro il potere di guarigione, la carica terapeutica di tutto quanto stava avvenendo. In queste occasioni mi diviene proprio lampante. Ero in un posto, in un angolo di spaziotempo, dove i ragazzi possono – insieme agli adulti – depositare amorevolmente i propri crucci, le proprie tensioni di persone in crescita, e celebrare il dono di essere vivi, in fondo. Farlo in modo consapevole, non distratto come ci propone la società del consumo. Farlo in modo vivo da donne e uomini vivi, quali siamo. Questo angolo di spaziotempo diventava così improvvisamente e dolcemente il centro, il luogo dove le cose vengono in luce, vengono (ri)create, diventano nuove.
Per questo la poesia. di tutto questo la parola, in Questo Universo, è un vettore, un enzima formidabile. Infatti questo Universo ama farsi raccontare, e molti doni si ricevono – io penso – per questa nostra disponibilità al racconto, alla parola.

Come scrivono bene i ragazzi, con profondissimo intuito, la parola poetica è questo strumento quasi taumaturgico, che compie mille e mille meraviglie, che si pone come ponte sopra il razionalismo esasperato da una parte e le tentazioni dell’irrazionale, dall’altra. Proponendo un percorso sano di ragionevolezza, sano e morbido, sano e sorridente.
Tutto è avvenuto nella tranquilla familiarità di un ambiente che fa dell’accoglienza la sua cifra più evidente, almeno per il sottoscritto. E se queste impressioni che registro sembrano enfatiche, non è per una tensione retorica, ma è perché io al Corradini mi sento a casa, devo dirlo. E non c’è protagonismo o affermazione o esibizione di talento o simili sterili situazioni. Affatto, direi. C’è un senso piacevole di officina, un senso d’essere tutti – appena – lavoranti in quest’opera, che ci sorpassa e ci trascende. 
E ci trascende alla grande, ma con allegria, offrendocene anche a noi, di quell’allegria sottile e profonda – così diversa da quella forzata della civiltà della distrazione – che rimane dentro, rimane sotto, in fondo al cuore, e che lo alimenta, nei giorni dell’autunno dove freddo e pioggia non fanno più dimenticare a lungo che c’è il sole a cui riscaldarci, comunque. 
Sì, c’è il sole di quest’opera comune, che aiuta noi adulti e aiuta i ragazzi, forse appena un po’ (ed è moltissimo) nell’opera di costruzione e di perpetua, rinnovata e rinnovante, guarigione.

Loading

Iniziare a guarire

Le cose vengono un po’ da sole, è noto. O meglio, non sono sotto mai sotto controllo, sotto il tuo controllo. Sarebbe infatti superfluo dire che non avevo idea – non la avevo affatto – che questa onda , questa onda di necessità di guarigione sarebbe risultata così feconda, sarebbe stata intercettata, ripresa, rilanciata, in ambiti importanti, ma differenti da dove queste poesie sono nate.

L’ambito educativo, intendo. La costruzione della nuova umanità se non attraversa una istanza di guarigione, di vera guarigione, è soltanto l’ennesima violenza ideologica. Roba da scappar via, a gambe levate. Non disturbare, non distorcere, non deviare, riportarli a casa, a questo punto. Bring the boys back home, in caso. 

E’ per me già un grande risultato, da guardare con tremore e commozione, quello che è nato dal lavoro sul libro Imparare a guarire (Di Felice Edizioni, 2018), lavoro che nel contesto de La Scuola Visionaria hanno intrapreso i ragazzi dell’I.C. Corradini di Roma. Sotto la guida – che avverto illuminata e docile – della professoressa Carla Ribichini, questi ragazzi hanno iniziato  un po’ di tempo fa a lavorare sulle poesie del volume. Facendole veramente fiorire, oltre ogni mia possibile previsione.

E’ quando ciò che hai scritto, si rende seme di una nuova avventura, indizio di primi passi di una nuova umanità, di una prospettiva di crescere e guarire, ecco: è allora che tutto ciò che puoi fare, che devi fare, è rinunciare all’analisi, metterti da parte, e osservare. Zitto e guarda, insomma. Con gratitudine. 

Osservo allora ciò che nasce, che fiorisce, senza (troppo) interferire. Contento appena di essere un vettore di questa fioritura, un semplice ed umile lavorante in questo campo, sempre da dissodare e da tener pulito. Qualcosa che passa attraverso di te, ma non è tuo, di cui ti rendi strumento ma che non puoi possedere. Non c’è, probabilmente, motivo più grande per essere riconoscente. 
Ripercorro i primi segni di questo lavoro, le prime tracce luminose, con commozione. Leggo quello che hanno scritto i ragazzi, piccole donne e uomini di seconda media, e cerco di farmi da parte,  voglio farmi da parte, lasciando parlare soltanto il loro purissimo desiderio di guarigione. Un desiderio che non può che avere riverberi nella società, nel mondo, dalle cose più vicine, alle stelle. Non è infatti, di per sé, un desiderio contenibile, addomesticabile, non è un desiderio con dei bordi, dei limiti, delle frontiere. 
Così scrive Aurora, schiudendo un tesoro di candore e di sincerità soffusa,

Parte tutto da un semplice presupposto:
perché ci ammaliamo? Perché il nostro ego ci dà questo pensiero fisso:  stare male,  stare male dentro,  pensare di non andare bene, di non essere abbastanza. Stiamo male e non sappiamo guarire, è questo il vero dolore.
Voglio imparare a guarire dentro, a curarmi non con le medicine, anche se ho una mamma farmacista, ma magari con le dolci e morbide parole di una semplice poesia melodiosa.                                                                               
Tutto questo mi insegna a cambiare e a guarire.

Ora, guardiamo, guardiamoci dentro. In poche righe, c’è tutto, c’è veramente tutto. La fotografia della situazione in cui ci troviamo, la condizione umana com’è, fuori da tutti gli orpelli, gli abbellimenti e le maschere. Con una sincerità disarmante. Stiamo male e non sappiamo guarire, è questo il vero dolore. Quante parole inutili, quante ne spendiamo ogni giorno: tutte le parole che non dicono questo! Le parole che non dicono questo sono volgari, perché perdere deliberatamente tempo in chiacchiere è volgare. Meglio allora – chessò – una coraggiosa infrazione, una decisa irriverente trasgressione: perché lì, almeno lì, la ricerca della felicità non è ancora elisa, fermata, abortita. Davanti a parole inutili, no, io non ce la faccio più.

Però non ci si ferma lì, non si ferma lì, lei: c’è la tensione a cambiare, a curarsi non con le medicine, ovvero a non tamponare il disagio appena, ma lavorare in profondità (guarire dentro) per avviare una guarigione reale, non appena farmacologica. Questa guarigione, infatti, si nutre di parole, e queste parole possono certo essere dolci e morbide, parole di una semplice poesia melodiosa. La parola guarisce: questa è l’ipotesi positiva, la partenza di un viaggio. Questa è anche, se ci pensiamo, l’assunto di base di ogni approccio di guarigione, anche sotto l’aspetto direttamente psicoanalitico. Un rapporto terapeutico, proprio nel senso più ortodosso del termine, è fatto di parole. 

E una poesia, guarda caso, è ugualmente fatta di parole.

Qui riscopro io stesso, come in filigrana, l’origine profonda del titolo della raccolta, Imparare a guarire. Qui dunque arriva Aurora, giovane donna di seconda media che in tre frasi, in tre frasi appena, giunge sicura al punto d’origine, giunge certa al focus da cui tutto germoglia. Ciò che insegna a cambiare e a guarire, appunto. Mi piace l’accostamento delle parole cambiare e guarire, mi rimanda a quanto scrive Marco Guzzi nella prefazione al mio volume,

Imparare a guarire significa innanzitutto entrare in una dinamica esistenziale di trasformazione continua, significa mettere in discussione le nostre abitudini mentali e comportamentali, significa aprirci ad un radicale ricominciamento

Ci sarebbero molti interventi da citare, e magari si troverà un modo di raccoglierli, esporli, dare loro il rilievo che meritano. Per ora li conservo nel cuore, li riprendo nei momenti di oscurità, tanto possono fare luce, possono riscaldare, risanare. Strumenti di guarigione essi stessi, in pratica.

Riporto qui solo una altra suggestione, quella di Monica

Lo squarcio è una ferita aperta. E’ la fine fredda  delle mie cellule e, allo stesso tempo, uno spettacolare punto da cui ricominciare. Voglio essere come un globulo bianco e avere la forza di continuare, riempire e risanare tutte le ferite della mia pelle mortificata. Guardare oltre la crosta per quanto grande.  Non abbassare il capo, non farlo più!

Pero, che bello. Che bello percorrere, quasi scorrendo il dito, quasi toccandole, ripercorrere la scelta delle parole, soffermarsi, goderne.  La fine è un inizio, endings are just beginnings, penso. La fine fredda delle mie cellule – quella fine che non è più discorso, tempo a parlare trascorso, scende fino dentro le cellule – è al contempo uno spettacolare punto da cui ricominciare.  Cioè la crisi, la ferita aperta, è anche e soprattutto un punto di ricominciamento. Dipende insomma dalla prospettiva con cui guardi, probabilmente dipende da questo, carnalmente ne dipende.

Anche qui alla denuncia della condizione, segue rapida, incisiva, la tensione a progredire, a ricominciare, a risanare. E chiude con una spettacolare apertura verso una insurrezione. Perché poi tutto è uno, tutto converge al punto di guarigione. E ciò che ad oggi non parla di guarigione, non interessa, non interessa proprio più nessuno. La guarigione, che è anche sociale, che diventa irresistibilmente politica. Diventa materia da elaborare per una nuova umanità. 

Non abbassiamo il capo, non lo facciamo più.
Nel percorso di guarigione troviamo una nuova ragione, per essere al mondo,
per essere anche nel mondo. 

Me lo dicono, me lo suggeriscono due piccole donne,
in preannuncio nascosto di apertura, in incipiente,
risonante, tiepida fioritura.

Posso fidarmi, dunque. 

Loading

La via della guarigione

Quando un libro viene pubblicato, ti accorgi presto, che non è un punto di arrivo, ma un punto di inizio. Perché comunque, a questa creatura nuova c’è bisogno – da subito – di volergli bene, di amarlo, di considerarlo non una cosa fatta per cui passare oltre, ma qualcosa da amare, da accudire, custodire. Prima ancora si sperare di piazzarlo qui o là, di vendere, di farlo circolare tra amici, parenti e poi in cerchi più allargati, prima ancora di cercare di compiacere l’editrice, che tutto sommato ha investito soldi su di te, ecco, c’è da fare questo. 

Nessuno si aspetta altro da te che tu ami la tua creatura. La ami così com’è, nella sua luminosa imperfezione (se perfino i capolavori sono imperfetti, chiaramente la perfezione non è la cosa da cercare), la ami come espressione di te stesso, espressione dialogante e come una apertura, una proposta, per chiunque ti incontri. 
La poesia è lo stupore di un nuovo inizio, di un inizio “bambino”, sempre… 
La poesia infatti è una proposta alla libertà di ognuno. La poesia è un grimaldello, anche. Sottilmente ma irresistibilmente antiretorico, è un grimaldello che disarticola ogni struttura di pensiero troppo consolidata, irrigidita, usurata da eccessive ripercorrenze quotidiane. La poesia scardina e liquida queste strutture, ma lo fa in modo accorto, in modalità sempre laterale, non frontale. Lo fa in tono sommesso per cui ti ridona morbidità di pensiero senza quasi che te ne accorgi. La poesia non sopporta i discorsi inutili, lei va al sodo: lustra la parola perché brilli.
Per questo è tragico che non si legga abbastanza poesia. Si leggono romanzi, saggi, dissertazioni (sempre poco). E non si legge abbastanza poesia. Perché c’è un pregiudizio, pesante, all’opera nelle nostre teste. 

Non avevo niente in particolare contro la poesia, però la trovavo decisamente una perdita di tempo. Nei casi migliori era uno svago o un esercizio letterario, in quelli peggiori, i più numerosi, era per me un’irritazione da evitare senza indugio. Poesia uguale debolezza, fuga dal reale, roba da sognatori o da gente complicata.”

Così scriveva Antonietta Valentini, qualche tempo fa, fotografando un atteggiamento molto diffuso (atteggiamento poi da lei stessa superato, come potete leggere). Dobbiamo infatti recuperare la consapevolezza che ci stiamo esattamente giocando l’opposto: la poesia è la possibilità diretta di entrare nel reale con una lucidità e consapevolezza nuova, con la mente spurgata da tanti inquinanti che la parola poetica, ovvero la parola usata in tutta la sua forza, può realizzare. 
Il titolo che ho scelto, Imparare a guarire, esorta consapevolmente ad un uso terapeutico della parola poetica, ben oltre la semplice percezione estetica (ma non troppo, in fondo la miglior cura è il bello). La prima sfida è per me: custodire questo libro, proporlo a chi mi vuole bene, a chi voglio bene, come canale di comunicazione privilegiato e diretto verso il cuore. Usarlo insomma come strumento di cura.
Del resto, è così per tutto. L’importante è esserci, non scappare. Rimanere, in questo. Avere il coraggio di respirare quel che si è scritto, distillato lungamente, in tante revisioni, a cercare la parola giusta, la parola esatta, come un colore, che si depone vicino agli altri per realizzare il quadro, secondo quanto deve essere fatto. 

Da ieri si può leggere online la bella prefazione di Marco Guzzi al mio volumetto; si può ordinare via ibs.it oppure all’editrice (info@edizionidifelice.it), fino al 20 di settembre ancora senza spese di spedizione. Se lo prendete, vi prego veramente di una cosa: leggete lentamente. Ci vuole spazio, tempo e spazio mentale, per aderire alla tavolozza di colori che ho provato a scegliere. Per non violentarla involontariamente. Non cercate ma fatevi cercare, non affannatevi per raggiungere, ma lasciatevi raggiungere. Siate spettatori passivi, provateci: cambia tutto. 
E’ un regalo di delicatezza che ho provato a fare, e a farmi. Una possibilità di (auto)guarigione, un avvio di guarigione, alimentato dalla morbidezza degli accostamenti delle parole, così come ho potuto, come mi è venuto. Un ritornare bambini senza infantilismo, ma nell’idea evangelica di apertura, di condizione necessaria – sempre da riprendere – per essere nel mondo, vivendolo davvero.
Quel che accadrà per questo libro, lo sanno le stelle. Ma fin d’ora è un canale aperto, una possibilità in più, di affratellamento intorno ai ritmi del cuore. Che sono quelli, sempre finalmente quelli, per tutti. 

Loading

Quei promessi sposi

Ecco, mi è venuto in mente di scrivere, di scrivere qualcosa per ogni libro (più o meno) che finisco. Mi è venuto in mente per fermare qualche impressione, sensazione, della mia lettura. E’ lacerante, a volte, di fronte a certi libri, perché tutto quel che si può dire non si esaurisce certo in un post. A volte, come per quello di cui mi sto per occupare, credo che quello che si può dire non si esaurisce affatto. Dunque non è una descrizione del libro quanto la descrizione (anche questa, gravemente incompleta) di una specifica interazione con esso, che poi sarebbe la mia specifica lettura. Mi servirà per ricollegarmi alle impressioni che ho avuto in chiusura del testo. E forse, chissà, potrà anche servire a qualcun’altro. 
Bene, stamattina ho finito I promessi sposi. E’ un libro, un’opera, per le quale mi sentirei di spendere la parola capolavoro. E la lettura è stata una sorpresa. Ho capito come nella lettura scolastica, molto molto tempo fa, non avevo realmente compreso nulla di veramente importante. Non mi era arrivata la bellezza del testo, quasi per nulla. Ma è un testo bello, bellissimo. Mi arriva questa volta, dopo decenni dalla prima (forzata) frequentazione. Veramente nei classici ci si può dimorare, si può tornare e tornare molte volte. E se sono classici di solito un motivo c’è. Chiuso il testo rimane forte una sensazione di gratitudine per quello che si è vissuto.

Non tanto per la vicenda, ma per come è raccontata. Come per tutta la grande letteratura, del resto. La vicenda è un pretesto (ed è tanto nota che sarebbe anche ridicolo volerla riassumere). Quello che conta, quello che rimane, è la prosa, il tono, le considerazioni dell’autore e più di tutto i rapporti tra le parole, la tensione che si crea per i loro accostamenti, per come sono usate. 
Le parole veramente sono mattoncini che creano un mondo. 
Quello del Manzoni è un mondo che ti rimane addosso come uno strato di protezione buona, di ragionevolezza pacata e disincantata, in fondo, di positività ultima del reale. Una positività che non censura niente, non nasconde niente (i capitoli sulla peste sono di un realismo e di una poesia, insieme, difficilmente imitabili). E per questo, proprio per questo, diventa credibile. Come lo scarto del Manzoni, veramente geniale, da un classico lieto fine, pur nell’approdo sostanzialmente positivo della vicenda di Renzo e Lucia. C’è. rimane, quella tensione del già e non ancora, caratteristica dell’ipotesi cristiana sulla vita, sul mondo. 
Ipotesi cristiana, o meglio pretesa cristiana per dirla con Giussani. Non è questo infatti un libro che si possa facilmente separare dalla fede, a mio avviso Non si può, senza inaridirlo, senza impoverirlo, disseccarlo alla radice, renderlo arido, renderlo – stavolta sì – noioso. Perché la radice è indubbiamente cristiana: è in fondo un inno alla ragionevolezza della ipotesi cristiana, dall’inizio alla fine. In questo riposa, mi pare, il vero motivo della dedizione del Manzoni verso questo racconto.
Il che non vuol dire che sia necessario sentirsi cristiani per leggerlo, affatto. Ma è forse richiesto, per fruirlo fino in fondo, gustarne la bellezza, un atteggiamento appena simpatetico, appena di apertura, verso questa ipotesi, questa possibilità sempre aperta di visione dell’uomo e del mondo. Allora si avverte la bellezza profonda del testo. Aprendosi appena a questa possibilità, qualsiasi sia il proprio tragitto di vita, o le cose che crediamo di credere.
Testo che – possiamo dirlo – è una bomba. Che diverte, istruisce, commuove, rallegra, intriga. Qua e là magari annoia, certo non ha i ritmi dei romanzi moderni. Ci vuole in altre parole una certa determinazione, bisogna mettere in conto, qui e là, una pur minima fatica. Che  però, ed è questa la mia esperienza, viene ripagata abbondantemente, viene ripagata oltre le aspettative. 
E si scoprono delle cose interessanti, anche stilisticamente. Delle cose piuttosto moderne, a dire il vero. Solo un accenno: ho notato con stupore che nelle fasi più concitate, Manzoni passa in modo molto disinvolto dalla narrazione nel passato all’uso dei verbi al tempo presente. Per poi tornare al passato, con la massima naturalezza. E’ come se ti immergesse nel momento, di colpo, rendendolo contemporaneo, e poi ti riportasse, quando è opportuno, a quella distanza di sicurezza che ti consente anche di riflettere, di ruminare, con la dovuta distanza.
Ma le note stilistiche sarebbero molte, e certo da lasciare a chi è ben più esperto del sottoscritto. Per cui non indugerò oltre, su questo. Tornerei piuttosto alla apertura necessaria per fruire appieno del testo, come si è accennato.
Ecco, chi si sente questa anche minima apertura, godrà moltissimo dell’edizione che ho letto anche io, quella edita dalla BUR con una breve ma densissima premessa, preziosa direi, una conversazione tra il poeta Davide Rondoni e Don Luigi Giussani. Poche pagine, ma luminose ed importanti. 
Eppure un’altra cosa che viene a galla pian piano, un’altra semplice bellezza di cui si diventa sempre più grati durante la lettura, è l’apparato di note a cura di Laura Cioni e Silvia Fornasari. Non solo rivelano una comprensione “amorosa” del testo, una condivisione appassionata della coordinate di fondo, ma più volte vi si ritrovano delle vere gemme davanti alle quali  io personalmente mi sono dovuto fermare, a riflettere. Non faticherei a definirle un vero valore aggiunto a questa opera immortale. Insomma, se il libro è un inno alla ragionevolezza del traversare la vita con l’ipotesi cristiana, le note rafforzano ed impreziosiscono questo inno, donando nuovi spunti preziosi alla ruminazione personale. 
E alla fine, un altro motivo di gratitudine che rimane, dopo la lettura di queste pagine. Un testo “antico” che feconda questo apparato di note, è un testo tutt’altro che morto: un testo vivissimo, che opera nel presente e aiuta a comprendere il presente. 
Un vero classico, insomma. 

Loading