Le faccio un misto? Grazie, no.

Crescendo, cambio. Credo capiti a tutti. A me capita per certo. Anche nelle scelte che potremmo dire più spicciole, registro un cambiamento di attitudini. Non solo davanti ai grandi temi della vita, mi sento un po’ diverso rispetto a prima. Ad esempio, se considero il mio rapporto con la tecnologia, noto alcune differenze sensibili, rispetto anche a poco tempo fa.

Credo che se uno cambia, cambia un po’ in tutto. Vuole fare tutto in modo nuovo, esplora diverse possibilità, si fa domande che prima non si faceva, sulle cose che utilizza, sul modo in cui lo fa. Questo, è il modo migliore per me, adesso? Forse sono stanco delle mie modalità ormai supercollaudate di fare le cose, e desidero forse provare altro?

Io lavoro da diverso tempo in ambiente misto, ovvero uso un iMac (uno a casa e uno al lavoro), ho un portatile Windows, ho un Chromebook. Come sistema operativo mobile (smartphone e tablet) uso dispositivi Android. Questa varietà è stata una scelta deliberata, del mio me stesso di qualche tempo fa.

Da curioso della tecnologia, l’idea era di mettere il naso in tanti framework diversi, per imparare qualcosa da ognuno. Perché mai togliersi il piacere di studiare Windows 11, come pure investigare in profondità macOS Sonoma? Basta utilizzare strumenti con Windows assieme a dispositivi Apple, ecco lì che il gioco è fatto. Si prende il meglio di tutti e due gli ambienti. A questo poi associamo quanto sarebbe divertente esplorare ChromeOS, il sistema operativo di Google, perché no? Sempre tutto intrigante. Eppure.

Eppure? C’è questo, che niente viene gratis (no, alla fine non è vero, ma la frase ci stava bene). Perché uno scopre che tutta questa esposizione alla varietà viene necessariamente a scapito della profondità. E questo è un problema, tanto più quanto i sistemi operativi si fanno articolati e complessi.

In altre parole, lascia stare il fatto che tutti sanno usare Windows nella maniera “basica”. Lanciare un programma, perfino istallarlo, è piuttosto facile (averlo reso facile e disponibile alle masse è un grande merito del sistema operativo di Microsoft). Lo stesso anche per il Mac (e ormai anche per Linux, anche se lì rimangono ampie possibilità, volendo, di complicarsi la vita oppure, diciamo, di rendersela più interessante). Lascia stare questo, questo infatti è assodato. Ma se vuoi usare il sistema al meglio, ti tocca imparare una serie di scorciatoie, combinazione di tasti per arrivare rapidamente ad un risultato, automazioni, e via di questo passo. Per gestire bene molte applicazioni allo stesso tempo, devi padroneggiare il sistema a finestre che ti trovi davanti. E non sono mica tutti uguali, i sistemi a finestre. Certe combinazioni per massimizzare la finestra, minimizzarla, affiancarla alle altre in quel determinato desktop virtuale, sono uniche del tal sistema operativo. Se vuoi essere veloce ed efficiente nel tuo lavoro, devi impararle.

Poi le applicazioni. Non tutte le applicazioni esistono per tutti i sistemi operativi, dunque magari succede che ti abitui ad un certo flusso di lavoro (tipo cosa uso per portare a termine cosa) e poi ti sposti nell’altro ambiente – passando magari dal fisso al portatile e scopri che una delle applicazioni che usavi dove sei partito, qui non c’è. Certo la suite Office esiste su Windows e su Mac, siamo d’accordo. Ma se voglio usare (anche) altro? Metto tutti i miei testi (che vanno solitamente su Stardust e EduINAF) su Ulysses? Ma su Windows non c’è. E nemmeno su Android. Uso Paint per elaborare rapidamente una immagine, magari con l’aiuto della famosa Intelligenza Artificiale (certo, per quel che vale)? Va bene, ma considera pure che sul Mac non c’è.

Edito un video con iMovie? E se voglio finire il lavoro sul portatile? Ah no, lì non c’è iMovie, lì trovo Climpchamp.

Oppure (e non è detto affatto che sia meglio), l’applicazione esiste, ma è diversa. Cioè, è lei ma non è lei. Un caso eclatante è iA Writer, l’applicazione con la quale scrivo praticamente tutti i post (e anche altro, come poesie e racconti, o come un romanzo). Esiste sul Mac e c’è per Windows, ma le applicazioni sono significativamente differenti. Puoi fare cose da una parte, che dall’altra non puoi fare. Del tipo, vuoi cercare del testo tra tutti i tuoi files dell’archivio? Lo puoi fare dal Mac, non dal PC Windows. Vuoi un indice autogenerato che si possa fruire già dall’anteprima del file, visibile nella libreria? Su Windows c’è, sul Mac invece no.

Già tutto questo mi porta a pensare che, abbandonate le passate velleità di conoscenza enciclopedica, in futuro puntare su una certa omogeneità di ambiente potrebbe essere una gran buona idea.

Ma la faccenda si fa decisamente più pregnante quando si prendono in considerazione anche i sistemi mobili. Quando è iniziato questo blog, la cosa tutto sommato non era così importante. Adesso, con il moltiplicarsi di applicazioni mobili per cui diverso lavoro si può svolgere da smartphone, è diventato importante che computer e smartphone si parlino efficacemente. Ma questo (state tranquilli) sarà oggetto di una mia prossima ruminazione.

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Debian, l’italiano e l’intelligenza (artificiale)

Premetto che non sto per scrivere niente di esagerato sull’intelligenza artificiale, o almeno lo spero. Sono totalmente con Faggin quando avverte che c’è in essa, ben poco di “intelligente”. Sono marchingegni ben studiati, che possono indubbiamente essere utili (e di questo parlerò) ma niente di più (ed è già tantissimo).

E comunque – per una persona come me che ha visto Internet nascere (e arrivare negli istituti di ricerca prima ancora che la gente sapesse che c’era questa grossa cosa nuova), anzi che ha trascorso su questo pianeta molti anni prima che Internet vedesse la luce – osservare queste ultime evoluzioni è qualcosa che colpisce. Veramente stiamo entrando in un’altra epoca. E questo, non tanto perché abbiamo creato qualcosa dotato di una intelligenza propria, perché non assolutamente così (ancora, ascoltare Faggin per convincersi o leggersi il suo libro, Irriducibile). Quanto piuttosto, per la indubbia comodità di un nuovo strumento che diverrà – ci scommetto – sempre più parte della vita quotidiana. Fino ad apparirci indispensabile, se per alcuni non lo è già.

Tutto comincia con la posta (come sovente accade)

Collettivamente, siamo in un periodo di riflessione profonda sui vantaggi e sui problemi dell’intelligenza artificiale. E non potrebbe essere che così, in questa fase. Tra un poco la useremo e basta, dimenticandoci allegramente di tutto il contesto filosofico che ora è invece in primo piano. D’altronde accade sempre così, è successo con i lettori walkman1, con i primi videogiochi, con i telefoni cellulari, con la televisione a colori, praticamente con tutto.

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Installare linux? Microsoft ti spiega come

Non è notizia recente, d’altra parte qui non rincorro le notizie fresche fresche, ci sono siti ben più agguerriti che lo fanno benissimo. A me piace prendere tempo e riflettere, ruminare su alcune cose che hanno un risvolto tecnologico (mai soltanto tecnologico, beninteso).

E una cosa interessante – per chi ha vissuto il tempo delle lotte furibonde tra sistemi operativi, ovvero (soprattutto) tra fanatici di Linux e seguaci ortodossissimi di Windows – è questa alleanza relativamente nuova tra Microsoft e il mondo Open Source. Da tempo ormai, Windows permette di istallare Linux nativamente, con il Windows Subistem for Linux, in modo da creare un ambiente in cui usare applicazioni Windows (anche grafiche) e Linux al medesimo tempo e anche scambiarsi dati tra i due ambienti, con pochissimi problemi.

Come recita la pagina di spiegazione,

il sottosistema Windows per Linux (WSL) è una funzionalità di Windows che consente di eseguire un ambiente Linux nel computer Windows, senza la necessità di una macchina virtuale separata o di un doppio avvio. WSL è progettato per offrire un’esperienza facile e produttiva per gli sviluppatori che vogliono usare sia Windows che Linux contemporaneamente

Che le cose prima non stessero affatto così, beh è nella memoria di molti di noi. Ma per i più giovani possiamo notare come alcuni segnali rimangano a testimonianza di un’epoca ormai (felicemente) tramontata, quella cioè delle opposte e sfegatate tifoserie. Quelle dove – tanto per cambiare – al posto della coesistenza pacifica c’era l’idea di guerra intrapresa per liberare il mondo da questo o quel sistema operativo. L’altro era il male, in pratica. Vi ricorda qualcosa questo atteggiamento? Purtroppo, temo di sì.

Linux o Window (o altro), il vostro computer sarà ormai inutile senza un collegamento a rete…

Meno male che le cose cambiano. A volte, piano piano, cambiano anche in meglio. Ora c’è addirittura una pagina di Microsoft dove si spiega come istallare Linux. Vero, si sconsiglia di sostituire del tutto Windows con Linux con una bare metal installation, ma questo ci può stare: strumenti come la virtualizzazione o appunto il già citato sottosistema Linux permettono di evitare partizionamenti del disco rigido che possono sempre rivelarsi distruttivi, sopratutto se non si prendono le adeguate misure di precauzione.

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Dentro anche Facebook. Fuori gli altri…

Dico la verità, anche se dico qualcosa che il me stesso di qualche tempo fa (i.e., linuxaro puro e purista), avrebbe accolto con estrema preoccupazione e marcata disapprovazione. Mi sono divertito l’altra sera assistendo su  Engadget alla “diretta” della WWDC 2012 di Apple. 
Chiaro che queste cose sono parte di un apparato mediatico e anche propagandistico che mira ad ottenere attenzione e suscitare entusiasmi, a volte irragionevoli. Chiarissimo. Però io mi sono ugualmente entusiasmato interessato seguendo la descrizione del nuovo sistema operativo “mobile” di Apple, il tanto atteso iOS6. Tra le più o meno importanti migliorie annunciate, mi colpisce l’integrazione di Facebook dentro il sistema operativo stesso: più o meno quanto accaduto tempo fa con Twitter.
Più che per il fatto tecnico, mi colpisce per l’indicazione che questo porta sullo sviluppo del fenomeno dei social network: come sancisse una conferma, una presa d’atto, delle tendenze più recenti. Direi che siamo alla fase della potatura, del consolidamento, dopo il periodo florido e sperimentale che ha visto diverse strategie competere, con i rispettivi siti e le relative filosofie d’uso.
Diciamolo pure, avere Twitter e Facebook integrati in un sistema operativo mobile diffusissimo è più che sancire chi sono i vincitori. E’ stabilire una differenza sostanziale e definitiva tra chi ha vinto e chi no. Se diventa così facile, usando una qualsiasi applicazione, inserire contenuti nella propria timeline in Facebook o Twitter, è più che certo che il 99% delle persone si appoggerà esattamente a tali social network. Rinforzandone ulteriormente il predominio, in una tipico circolo virtuoso (per i due network, vizioso per gli esclusi). 
Aggiungiamo anche che uno dei pregi maggiori di Facebook è abbastanza poco collegato ai suoi pregi tecnici, ma alla sua enorme base di utenti. “Quasi quasi me ne vado da Facebook, perché ormai ci stanno tutti…” ponderava tempo fa la mia figlia maggiore, e ribatteva il secondogenito “Ma è proprio perché ci stanno tutti che ha senso esserci”. Non mi sento di dargli torto — se ci trovi il collega di lavoro, lo scrittore che ti piace, l’insegnante di ginnastica, l’amico delle scuole elementari che non vedi da una vita, la ragazza carina che ti piace (dove piace è da assumere in senso diverso rispetto al caso dello scrittore…), penso sia abbastanza accademico mettersi a cercare un altro network.
Insomma come spesso capita, dopo una fase di c’è posto per tutti sono usciti i veri vincitori. Non sono necessariamente i migliori, ma sono quelli che meglio di altri hanno anche saputo leggere i mutamenti rapidi del web e adeguarsi di conseguenza. Twitter in questo ha fatto scuola, innanzitutto con il meccanismo delle risposte, prima adottato informalmente dagli utenti poi incorporato a pieno titolo nell’architettura del sistema. Ma anche Facebook con lo sviluppo della bacheca che l’ha portata da porzione del tutto marginale del concept a vero punto focale. 
Insomma per vincere bisogna avere una buona idea, in partenza. E saperla anche cambiare in fretta. 

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Legger libri, senza carta

In questo broglio di appunti informatici mi sono spesso messo a riflettere sulla lettura di testi in formato digitale. E’ evidente che il massimo confort di lettura, va da sè, si ottiene con dispositivi appositi come il kindle di Amazon, o gli altri analoghi, ovvero dispositivi dotati di inchiostro elettronico senza retroilluminazione, che oltre a consumare molto poco non stancano la vista, e sono davvero gli ideali sostituti del libro cartaceo.
Comunque sia, non è infrequente trovarsi a leggere testi anche su altri dispositivi, come i tablet oppure anche gli smartphone. Vi sono diversi programmi per leggere, anche veri e propri libri. Anche uno smartphone non è poi tanto male per leggere magari mentre si è in fila all’ufficio postale o nello studio del dottore (con un occhio sempre attento a non farsi passare davanti…). Un buon ecosistema di lettura oramai permette di leggere passando da un dispositivo all’altro senza disagio, ricominciando ogni volta dal punto esatto in cui si era lasciato il testo.
Così posso leggere un libro sul Kindle vero e proprio, per poi trovarmi a continuarlo sull’apposita applicazione per il mio android (avete indovinato? Sono in fila alle poste!), poi magari proseguire sull’iPad o sul MacBook (nella pausa pranzo), e la sera proseguire sul Kindle come nulla fosse.
Libri
I libri “di carta” sono belli, ma tendono ad occupare spazio….

Che si capisce da questo? Ok, che il testo che sto leggendo mi interessa molto… 🙂 No dài, a parte questo. Che ormai una simile esperienza è un requisito troppo attraente per potervi rinunciare.
Su questo campo il principe indiscusso è appunto Amazon. Oltre il Kindle vero e proprio (ormai sotto i cento euro, è diventato davvero un oggetto accessibile) esiste una applicazione Kindle praticamente per tutto, iPad, iPod, iPhone, Android, PC Windows, computer Mac… esiste perfino una web application da far girare nel browser.
(Eh? No, linux purtroppo no. Evidentemente non ha quota di mercato che interessi ad Amazon.)
Così ti porti dietro i tuoi libri veramente ovunque. Difficilmente potresti portarti appresso una libreria cartacea equivalente, senza grandissimi sforzi e senza che la gente dubiti seriamente della tua sanità mentale. Ora invece te la trovi in tasca, la tua libreria. Se poi la gente dubita ancora della tua sanità mentale, sarà che hai altri problemi, ma non è il caso di discuterne qui, probabilmente…
Le applicazioni Kindle ti permettono anche di mettere segnalibri, di inserire note, di evidenziare dei passaggi (cosa che mi piace da matti, e uso parimenti da matti). C’è anche una spruzzatina di socialità, perché se vuoi puoi vedere i passaggi più sottolineati dagli altri, del libro che stai leggendo. O far leggere agli altri (che poi, gli altri siamo noi, come cantava una vecchia canzone…) i tuoi passaggi preferiti dei libri che stai leggendo (via Twitter e Facebook, gli immarcescibili network sociali).
Personalmente la trovo una cosa rivoluzionaria. Già mi pare una seccante scocciatura non disporre di un testo che ho comprato solo perché l’ho lasciato a casa (mia, o di un amico, o di una ragazza, di un cognato…). Un testo comprato, mi dico, dovrebbe abitare nella nuvola ed essere scaricabile e fruibile da uno dei miei dispositivi elettronici, ovunque io sia. 
Certo, la sensazione del libro cartaceo… un po’ come la nostalgia, lasciamelo dire, dei buon fruscìo dei cari dischi in vinile…

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Linux a casa? Forse è il caso…

Ho passato anni a provare diverse distribuzioni linux, con grande piacere (e con notevoli frustrazioni, anche). Ultimamente però ho perso decisamente interesse nell’esplorazione dello smisuratamente (ed eccessivamente) vasto parco dei vari sapori di linux. Un po’ perché probabilmente crescendo gli interessi cambiano e si modificano, un po’ però penso sia legato ad un fatto oggettivo… 
Vedo infatti l’universo delle diverse distro sempre più come chiuso nella sua cerchia di appassionati e un tantino autoreferenziale rispetto al mondo ‘reale’ della tecnologia, in particolare alle sue più recenti evoluzioni. Non scorgo – tranne una eccezione – un disegno di largo respiro che abbracci in maniera strategica e pianificata l’evolversi dell’approccio all’informatica e l’arrivo di sempre nuovi modi di fruirla. Piaccia o non piaccia, non trovo nel mondo linux un analogo all’approccio di Apple, o di Microsoft, non riscontro l’attenzione sistematica e strategica verso i nuovi (e non tanto nuovi ormai) indirizzi tecnologici e sociali. Come la sempre maggiore fruizione di internet in mobilità, tanto per fare un esempio.
Certo non si può pretendere da un team di appassionati – anche molto competenti e motivati – una visione aziendale a lungo termine. Ma il tempo di sistemi operativi mantenuti da appassionati, per quanto appaia romantico, si può considerare a mio avviso bello che tramontato (certo, le nicchie rimangono e rimarranno sempre, ma numericamente sono assai poco incidenti).
L’eccezione, si sarà capito, è Ubuntu/Canonical. Ubuntu mi piace, perché è guidata con una strategia, fa scelte anche coraggiose, come lo scarto dal’ambiente desktop Gnome, per l’adozione della nuova interfaccia Unity. Ha una visione, un piano a lungo termine, che tiene conto dell’evoluzione della tecnologia e delle abitudini d’uso (ecco, così mi rimangio un poco quello che ho detto in un post di qualche tempo fa). 
Ubuntu 10.10
Ubuntu è a buon diritto tra le più interessanti distribuzioni linux.. 

Come riporta un articolo su techrepublic.com, la prossima versione di Ubuntu si presenta con tre importanti novità:
  • Ubuntu su Android
  • Ubuntu TV
  • Ubuntu su tablet
Concentrandosi solo sull’ultima voce dell’elenco (non che le altre non siano importanti), vedo con molto favore l’arrivo di Ubuntu sui tablet. Potrebbe contribuire a movimentare un po’ il mercato. E’ notevole anche un progetto che abbracci la ampia varietà di devices, dal desktop ai dispositivi mobili. Tuttavia vedo anche, realisticamente, parecchie difficoltà, che dovranno essere superate perché diventi veramente uno strumento di massa.
Una, forse la principale, è il software. Andare su tablet vuol dire, necessariamente, confrontarsi con l’iPad di Apple. Ebbene, le applicazioni per iOS hanno raggiunto un livello tale di sofisticazione, che spesso – dobbiamo dirlo – non sono eguagliate dalle applicazioni anche desktop dell’attuale – pur vastissimo – parco di Ubuntu. Questo deve cambiare, o la gente snobberà il tablet con Ubuntu come ha snobbato i primi netbook con linux (una classica rivoluzione rientrata….). 
Microsoft (con Windows 8 e l’interfaccia Metro) e Apple (che va a grandi passi verso la piena convergenza tra OS X e iOS), hanno strategie ben definite nella definizione di un ecosistema che abbracci ogni tipo di approccio alla tecnologia (computer, tablet, smartphone). Se Canonical vuole essere della partita, deve essere davvero competitiva. Sono finiti i tempi di  “linux è meglio perché non ha virus, perché è libero etc…”
Il mercato è pragmatico: la partita non si giocherà sugli ideali, ma sulla qualità e la quantità di applicazioni. 

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Il problema è il software

Man mano che passa il tempo, rifletto e a volte mi capita di… aggiustare il tiro. Anche e soprattuto in relazione alla tecnologia di uso quotidiano. In realtà devo dire che mi capita abbastanza spesso. Fossi un consulente informatico di una ditta manderei tutti ai pazzi, perché ogni due settimane proporrei e illustrerei dettagli di strategie di sviluppo e adozione software completamente diverse. Forse è per questo che faccio l’astrofisico, invece.
Tanto per spiegare. Perché a breve distanza dal post dove magnificavo Android a scapito di iOS, ora sto per scrivere un altro contributo che va in direzione esattamente opposta (o più propriamente, nella stessa direzione e in verso opposto). Tuttavia, per non contraddirmi completamente e perdere del tutto quel poco di credibilità che ancora potevo avere, cercherò di approcciare la faccenda da una direzione lievemente diversa. Ovvero quella del software.
Ce la farà Google Play ad offrire
una esperienza d’uso completa e coerente
per app, film, libri e musica?

Infatti il problema è il software. E’ chiaro, no? Siate onesti: quante volte avete anche voi lo avete pensato? La mattina, lavandovi i denti davanti allo specchio, pettinandovi, prendendo la giacca (attenzione, non scordate le chiavi della macchina, sono lì sul tavolino all’ingresso) ? Il problema è il software, esatto.

Mi ha fatto riflettere anche un bell’articolo su PC Magazine di aprile. La scelta di un tablet è data in ultima analisi dalle cosiddette killer application che intendiamo farci girare sopra. Dunque la scelta di uno non è quella dell’altro: Franco sceglie un iPad e Carla sceglie un Sony S. Non c’è una cosa migliore in assoluto. Tutto uguale, dunque?

In effetti… c’è un però. Azzardo. L’approccio degli sviluppatori per Android deve ancora maturare: non si può sviluppare per un device da 10” come se fosse un 4” allargato. Altrimenti lo spazio non si usa bene, viene sprecato. Su questo devo dar credito ad Apple. Le applicazioni per iOS – anche quelle cosiddette universali, che funzionano su iPhone e iPad (e iPod touch) – sono di norma ottimizzate egregiamente per trarre il massimo vantaggio dello spazio disponibile (e quasi sempre, anche dell’orientazione del device). 

Per Android non è ancora proprio così, mi sa.
Detto questo (e fatte salve le riserve su iOS come sistema operativo, presentate nel recente post), mi sto chiedendo quali siano le mie killer applications, ovvero ciò che vorrei portarmi dietro in uno smartphone
E’ una cosa molto personale, ma in questo caso, pur essendo personale, è anche cosa che si può scrivere su un blog. Se devo pensare alle applicazioni più ghiotte per me, ecco quello che mi viene in mente (elenco assolutamente incompleto, badate bene!):
  • DayOne. Colpa sua se ho ripreso gusto a scrivere un diario privato. Colpa sua se mi piace rileggere cosa ho scritto il giorno prima, o la settimana prima o ancora più indietro. E capire meglio il senso di cosa succede e cosa faccio, o lascio succedere quando ci riesco. 
  • MomoNote. Eccellente sistema di etichette, ogni volta che c’è una cosa che mi voglio ricordare la butto dentro. Citazioni, parti di email, brani di libri. Mi servono tanto i buoni spunti, per attraversare le giornate. Qui li ripesco al volo, quando voglio.
  • iA Writer. Ti fa riscoprire il piacere di scrivere. Sopratutto ti fa riscoprire l’attraente semplicità di buttare giù parole. Elegante e minimalista. Io lo trovo ottimo soprattutto per scrivere poesie (in questo si sta candidando a sostituire Google Docs, che era perfetto nell’era informatica precedente, quella che si viveva usando solo il computer). Certo scrivere con lo smartphone non è ideale, ma ho la sensazione che per appuntare qualcosa da rivedere in un secondo tempo, può andar bene.
  • Google Reader & Feedly. Non dimentichiamoci i feed.
  • Gmail (posso fare senza?)
  • Facebook (quasi come sopra)
  • Twitter (quasi come sopra)
  • Foursquare (forse inutile, ma divertente)
  • Kindle app e un lettore di libri in formato epub 
  • Waze per le info sul traffico (occhio a non cercare di usarlo mentre si guida però!)
  • Edge. Quanto mi piace questo giochino elegante e tranquillo…. 😉
  • …. (to be continued) …
DayOne, MomoNote e iA Writer sono solo per iOS (almeno, al momento). Questo è un bel colpo per la mia permanenza nell’ecosistema Android. Poi, avendo un MacBook e un iPad (e un iMac in arrivo) mi tenta l’integrazione in uno stesso ecosistema (certamente chiuso, ma coerente e ben realizzato). Insomma non è così improbabile una futura migrazione.

Per ora, comunque, aspetto con una certa curiosità l’arrivo di Android Ice Cream Sandwitch sul mio Sony-Ericsson Xperia Ray, in modo da poter fare le mie valutazioni. E con pari curiosità, sto a guardare le recentissime mosse di Google per creare un ecosistema finalmente completo e coerente, avviate con l’apertura di  Google Play.

Se penso che in anni passati mi appassionava la sfida linux vs. Windows, oggi guardo alla contesa iOS vs. Android con lo stesso identico interesse. Sono cambiati i tempi, le possibilità offerte dalla tecnologia, o sono cambiato io? O entrambe le cose?

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Quanto serve un iPad?

L’altro giorno al lavoro, nella caffetteria. Mi avvicino al distributore automatico di caffè (niente di che come qualità, ma meglio che niente…); intanto, il mio collega cosmologo, seduto al tavolo con altre persone, si accanisce verbalmente su taluni aspetti delle nuove mode tecnologiche (lo fa, lo fa). Segnatamente stavolta è sotto mira l’iPad.
Ma a che serve un iPad? Ma non serve a niente!
Non dovrei intervenire, lo so. Meglio starne fuori, di solito. Provo solo a dirgli che io un po’ lo uso, ma non serve (cioè non serve dirglielo). E’ troppo serrato sulle sue considerazioni, non ammette ripensamenti, nemmeno parziali. Si sposta repentinamente a descrivere l’ultimo bollettino sulle condizioni dei lavoratori cinesi che producono per le aziende che vendono ad Apple (tema importante ma anche controverso, a quanto leggo). Capisco che non ne posso venire a capo, lascio cadere.

iPad stand
Vi sono in commercio diversi supporti per iPad,
ma questo è sicuramente il più originale 🙂
Non passa molto tempo che vengo attratto da brandelli di conversazione nell’ufficio accanto al mio. Il mio fiuto di vecchio indagatore di gadget tecnologici ha sollevato un allerta: si sta parlando di iPad.
Ora ti vengo a spiegare perché non mi piace l’iPad
Vado a vedere, sono curioso.

Sono due ex direttori di osservatorio a parlare. Insomma mica pizza e fichi, se mi capite. Uno ha appena ricevuto un iPad, l’altro viene a spiegargli perché non gli piace. Non ricordo bene le frasi, ma il senso è il seguente…

Ma l’iPad, ma non sai quello che ci sta dentro! Non puoi vederlo. Invece, guarda, ho preso il Samsung Galaxy (mi pare, ndA), ho scaricato un file manager e l’ho istallato, ed ecco fatto. Vedo i files, le cartelle.
Bella forza. Il fatto che non vedi il filesystem è punto chiave del paradigma di iOS, da quanto posso capire. Piaccia o no. E’ un modo di vedere, prima che una libertà o una limitazione. E’ un’ottica. In quell’ottica lavori con applicazioni e dati, ma non navighi nel filesystem.Non solo non te ne devi occupare, ma per te non esiste. Cartelle e files, non ti devono servire. Se un’applicazione può scambiare dati con un’altra, ti viene segnalato. Ma tu non parti dai dati per andare all’applicazione che li gestisce, devi fare sempre il percorso opposto.
Non so se questo mi piace o no. A giorni alterni penso che sia una trovata geniale o una insopportabile limitazione. Comunque, ecco il mio punto, non si può ridurre il tutto a “perdita di libertà” quando è innanzitutto una proposta di un paradigma differente.
E non è tutto. Non basta non avere un iPad per stare a posto. Per esempio, io mi sono fatto comprare – tempo fa – un Toshiba Folio 100. Android, 100%. Bello, libero, aperto. Se non fosse che Toshiba (di cui non intendo comprare più nemmeno una chiavetta usb) di punto in bianco – non molto dopo la commercializzazione, ha cambiato idea. Sissignore. Ha lanciato un nuovo modello, appena un pizzico diverso dal mio. E questo Folio è rimasto così. Abbandonato, come i suoi acquirenti. Brava Toshiba. Un market proprietario penoso (ed è un complimento). Niente più aggiornamenti, niente di niente. Un dual core fermo ad Android 2.x, in pratica con un sistema operativo da telefonino (e per giunta, vecchio). In garanzia, non te lo cambiano neppure per passare ad un modello superiore (pagando la differenza), ho provato a chiedere. Eppure i soldi erano soldi veri, o no?
Toshiba_folio_100_22
Il “famigerato” Folio 100
di Toshiba

Almeno Apple questo non lo fa. Ti fa spendere, ok, ma una volta che hai speso, non ti molla per terra. 
L’iPod 3 ha ricevuto aggiornamenti fino a che era oggettivamente possibile. E ancora posso caricarci un bel pò di cose, anche se sono anni ormai che ce l’ho. Per quello che è, il suo onesto lavoro lo fa.
Insomma, potrei andare avanti ma avete capito. La cosa è questa. Sto imparando a diffidare sempre di più delle posizioni “massimaliste” (che in passato sono state per larga parte anche mie, beninteso, in particolar modo per quanto riguarda linux: per me, il sistema del pinguino doveva essere necessariamente il migliore e sempre e comunque la scelta più adeguata, anche a prescindere dai fatti).

Dire che l’Ipad non serve a nulla, è un travisamento della realtà (inutile, nel miglior caso) come dire che è una cosa indispensabile. Scagliarsi contro l’impostazione chiusa dei sistemi operativi di Apple è assolutamente inutile ed (anche) irritante, tanto come magnificare oltremisura gli apparecchi della “mela”.

Le posizioni drastiche, ideologiche, sono in fondo trucchi per evitare di pensare, di stare con gli occhi bene aperti, attenti alla realtà. Come dovremmo fare tutti. Momento per momento.

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