Blog di Marco Castellani

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La difficile situazione in Ucraina

Di qualche giorno fa, la dichiarazione dell’Istituto Nazionale di Astrofisica, sulla situazione in Ucraina.

L’Istituto Nazionale di Astrofisica esprime la massima solidarietà alla popolazione e alla comunità scientifica dell’Ucraina ora sottoposta a una situazione molto difficile. Siamo a disposizione nell’ambito delle iniziative del Governo nel supportare azioni concrete di aiuto per i nostri colleghi ucraini con cui collaboriamo da anni. La scienza deve essere portatrice di valori universali di pace; in questo senso la comunità Inaf auspica che la ragione prevalga sulla sopraffazione, e che non si debbano interrompere le molte collaborazioni scientifiche frutto di tanti anni di rapporti positivi.

Riparto da qui, per capire chi sono, cosa sono, in questa contingenza. Riparto da ciò che mi definisce (qui, in ambito professionale). Prendo sul serio questa dichiarazione. Tra il fiume di parole di questi giorni (fate caso come, nel flusso verbale mediatico, l’affluente COVID abbia speditamente ceduto il passo a quello riguardante la situazione in Ucraina), scelgo quelle verso cui ho una appartenenza da giocarmi. Devo farlo, in ambito personale, come in ambito professionale. Che poi, lo sappiamo, è tutto collegato.

Una veduta della città di Kiev, in Ucraina

Si parla nel comunicato, di scienza come portatrice di valori universali di pace. Questo lo credo, questo lo scrivo e cerco di fare amicizia con questo concetto, nella vita quotidiana, per come posso. Penso ora anche al convegno internazionale La Scienza per la Pace che si è tenuto in Abruzzo quest’estate, a cui ho partecipato con interesse.

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Scienza e pace

No, non è una variazione estemporanea del titolo del ben noto romanzo di Tolstoy, Guerra e PaceE’ piuttosto una articolazione che – io penso – è più che mai urgente ripercorrere e rinforzare. Soprattutto adesso, soprattutto all’indomani dei fatti di Parigi, così tragici e apparentemente assurdi che fanno preferire un silenzio doloroso ai peraltro sempre più inutili esercizi retorica. 

Non è quindi di questi fatti che vorrei parlare qui. Piuttosto, vorrei esprimere come e in che modo io mi senta interrogato dalle provocazioni che provengono da questo travagliato periodo. E intendo, io come scienziato. 

Fare scienza davvero è un atto di pace?

Fare scienza davvero è un atto di pace? E’ lecito chiederlo, è lecito lavorare per una ipotesi di risposta. Come qui.

Se una cosa si può dire, difatti, è che l’urgenza attuale, la domanda di un senso, sempre più lancinante ed improrogabile,  porta ogni persona – inevitabilmente – ad interrogarsi su come può il suo esistere, il suo lavoro, la sua opera, aiutare a ricercare e ritrovare un orizzonte di positività su cui semplicemente poter esistere, fare progetti. Vivere.

Per uno scienziato può voler dire scendere alle radici della sua attività, capire che quello che fa in laboratorio, o davanti al computer, non rimane confinato in un ambito ristretto, ma in qualche modo è connesso all’universo intero. Come del resto ogni altra attività.

E la scienza, vorrei dire la scienza praticata, è fondamentalmente pace. Certo, lo so anche io che la scienza ha prodotto cose come la bomba atomica. E’ innegabile. Ma rimango convinto che l’attività scientifica, sopratutto per come si qualifica al giorno d’oggi, è una pratica intrinsecamente portatrice di pace.

Vorrei spiegarmi.

La scienza oggi è inevitabilmente transazionaletransculturale. La scienza vera, cioè quella che ha fatto la scelta di campo di appoggiarsi a metodi di controllo e di verifica, che procede secondo la falsificabilità popperiana delle sue teorie, è così. Non è un pensiero, o una aspirazione. Lo vedo ormai da anni, nella pratica quotidiana.

Non è che la scienza sia fatta da persone migliori. Sono persone come tutte, se ci fosse bisogno di specificarlo, con le loro meschinità e le loro miserie. Sono persone come me che sto scrivendo, come te che leggi.

Il punto è un altro. E’ l’oggetto in se stesso – la ricerca scientifica – che detta il metodo. Ed è un metodo che incoraggia intrinsecamente la collaborazione internazionale, che spinge a non fermarsi su valutazioni di differenza di razza, di etnia, di religione, di visione della vita.  Chi è innamorato della scienza, a chi è appassionato, se ti incontra, interessa se quello che hai da dire lo aiuta a meglio comprendere un problema. Se puoi portare un contributo, indipendentemente dal colore della tua pelle. O da dove vieni.

La rete informale di ricercatori di uno stesso ambito, è sovente molto larga e molto efficiente (io lo tocco con mano nel progetto ESA-GAIA, in cui lavoro, ma gli esempi non mancano di certo). Copre un gran numero di nazioni di orientamenti più diversi. Predilige la tranquillità politica e la pace. E non per farsi bello davanti al mondo: piuttosto, perché così  può – pragmaticamente – operare meglio e più fruttuosamente. E questo è sempre più vero più passa il tempo, perché i grandi progetti attuali (satelliti astronomici, esperimenti di fisica teorica, etc…) coinvolgono tipicamente un esteso numero di persone e sono collaborazioni tra una notevole molteplicità di stati sovrani. E possono essere condotti a termine solo se queste persone collaborano efficacemente tra loro.

Lavorando nella scienza in maniera seria, si è dunque inevitabilmente forzati a scambi ed interazioni con persone che sono tra loro le più diverse. Si è spesso condotti a seguire congressi e riunioni in diversi paesi. Si impara – per forza, non per virtù – a collaborare con persone bianche, nere, gialle, con il turbante, con il crocifisso o la tonaca, o senza niente di tutto ciò. E’ richiesto appena un acconsentire ad un insieme minimale di regole di convivenza, democrazia e scambio, e tutto il resto viene da sé.

Perché non sembri idealistico, possiamo anche mettere in conto che in questo convivono anche le consuete rivalità tra gruppi concorrenti, le umanissime meschinità e gli altrettanto umani giochi di potere, e quant’altro potete immaginare (a livelli diversi, a seconda delle persone e degli ambienti).

Con tutto questo, l’autentica passione per la scienza, per la comprensione profonda della struttura del mondo, favorisce la pace e la tolleranza – perché è possibile perseguire l’obiettivo soltanto con la pace e la tolleranza.

Facendo scienza davvero, lavoriamo per la pace. Prendendo sul serio il nostro lavoro, scopriamo di fare automaticamente la nostra parte per il buon ordine dell’universo.

Ma questo, capisco, non è limitato appena all’opera dello scienziato. E’ l’opera dell’uomo, nel senso più bello ed autentico del termine.

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Pace

E’ certo una delle cose più desiderabili. Quando mi è venuto in mente di aggiungere questa parola al mio dizionario ho dovuto cercare bene nei post passati, tanto non mi pareva vero di non averla già trattata. 

Ed è così, non l’avevo mai trattata. Almeno, non direttamente. Però sfiorata diverse volte, già avvicinata da diverse angolazioni.
E non è un caso. Perché pazienza, umiltà, ad esempio, orbitano strettamente intorno alla pace. Allora provo a fare un po’ di luce sulla questione, lavorando – come al solito – innanzitutto per me stesso, nella speranza (pacifica) che parte di quello che scrivo possa servire anche ad altri. 
Come posso definire la pace? Ecco, comincerei a dire questo. La pace è una disposizione del cuore che prima di tutto accoglie quello che è. E’ gratificare la realtà di un assenso preventivo, come dire quello che accade, va bene.

peace and daisy
 Immagine di thegoinggreenboutique su Flickr (licenza CC)

E qui siamo già nella piena battaglia, secondo me. Perché la pace implica comunque una battaglia. Se mi guardo, capisco che il mio cuore usualmente ribolle di motivi per cui non vuole essere in pace. In questo favorito anche da una sorta di attitudine sociale, per la quale la pace viene vista come cosa poco interessante, soprattutto in ambito economico e commerciale. Se sono in pace, consumo di meno, spendo di meno. Non è una cosa nuova, ma è il cuore di ogni efficace strategia commerciale: indurre un bisogno. L’idea è che soddisfatto questo “bisogno”, posso avere la pace. Può essere un gadget tecnologico, un detersivo, un deodorante… ma è comunque qualcosa che si pone come importante per il raggiungimento della pace, della felicità.
Questo favorisce la posizione del cuore che non riposa in un centro, ma è continuamente spinto su una frontiera, ad una continua verifica del reale per comprendere cosa poter ottenere di più, cosa poter conquistare. L’orizzonte è ridotto e distorto, quando le uniche cose che si vogliono conquistare sono beni materiali. Perché il cuore umano è molto più ampio.

“…la pace dipende dal fatto che l’uomo ammetta l’impossibilità di darsi la perfezione da se stesso, mentre indomabilmente riconosce il suo debito verso l’Essere.” (Luigi Giussani)


Qui andiamo al nocciolo della questione, che trascende anche ogni considerazione sociale od economica. La pace viene da una intima attitudine verso il mondo, verso il reale.
La pace è un ritorno, in un certo senso. Ritornare alla parte autentica di sé, dopo essere andati lontano. E ora capisco meglio io stesso il titolo del mio romanzo. Quello che volevo dire, soprattutto quello che volevo dirmi. Quello che volevo che si capisse, quello che volevo che io stesso potessi capire. 

La pace è anche un lavoro. E’ entrare nelle proprie paure con l’attitudine ad osservarsi, invece di giudicarsi. Osservarsi amorevolmente, accettare con affabilità anche le proprie zone oscure. E’ un lavoro davvero urgente, scendere dentro se stessi, varcare i propri strati di protezione, amarsi e lasciarsi amare – non per quello che facciamo, nemmeno amati “nonostante” gli errori,  ma per il semplice fatto che ci siamo. Che la bellezza del nostro essere è molto più profonda e splendente degli errori che possiamo fare.

Perché per portare pace al mondo, non possiamo coprire frettolosamente le parti scomode di noi stessi. Dobbiamo accettare di sporcarci le mani, scendere nel buio, nel fango, nello sporco, fino ad accettarle. Fino ad accettare l’impossibilità di darci la perfezione da noi stessi.

Un lavoro delicato da cui è bandita ogni fretta, del quale – pur in mezzo alla fatica – possiamo fin d’ora rallegrarci, perché, nel tempo, ci aspettano sicuri risultati.


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