Blog di Marco Castellani

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Vivere, amare (ovvero, cattedrali in crollo)

A volte è difficile rimanere su Facebook, girare per Internet, senza avvertire quasi un senso di nausea. In queste occasioni, soprattutto. Perché un fatto doloroso, penoso come l’incendio di Notre Dame viene interpretato e tirato in mille direzioni diverse, in diecimila percorsi, più o meno opinabili. 
Che uno avrebbe giusto voglia di dire basta! Stiamo ai fatti, per carità.

E’ difficile stare alla realtà: appunto, stare ai fatti. Ma è un esercizio necessario. Io credo che i semplici fatti sono questi, che niente su questa terra è eterno. Noi lo sappiamo, certamente lo sappiamo a livello teorico. Ma a volte, nella vita pratica, facciamo finta che non sia vero. 
Così si mostrava, quando la guardavo a dicembre dell’anno scorso
Siamo cioè noi stessi che ci muoviamo come fossimo eterni, che avessimo sempre molto, molto tempo da spendere. Da investire in cose inessenziali, cose transitorie, cose di passaggio. Tempo quasi infinito, per intrattenerci in cose che noi stessi, noi per primi, non reputiamo fondanti, non reputiamo essenziali per la nostra vita. Distrazioni, appunto.
Io avverto invece questo sentimento, quando accadono queste cose. E’ come se suonasse una sveglia, si alzasse un richiamo. Un richiamo potente a tornare all’unica cosa degna, a vivere la tua vita. Non si parla di essere (più o meno) buoni, di essere (più o meno) cattivi. Non è questo, non è il vero punto. Il richiamo è a vivere la tua vita fino in fondo, a viverla cercando il significato. Di questo, si tratta, non di meno.
La cattedrale è un simbolo religioso, certamente. Per questo vorrei ricordare la frase di Luigi Giussani, per me una delle più belle in assoluto:

L’unica condizione per essere sempre e veramente religiosi è vivere sempre intensamente il reale.

Se proprio vogliamo leggerci un messaggio, il messaggio secondo me è questo, il tuo tempo non è eterno. Tutto si muove, vedi, tutto si modifica. In questo tempo non eterno, stai facendo quello per cui sei nato? Stai provando a cercare e realizzare la tua vocazione? 
Che contiene quest’altra domanda, quest’altra fondamentale domanda: ci credi che sei qui per un compito, un compito che nella sua precisa e compiuta definizione, puoi svolgere esattamente te, soltanto te? 
Questo è vivere intensamente, appena questo. Rispondere a questa domanda, dentro di sé, in un senso o nell’altro, attiva delle forze misteriose nell’universo, allinea o disallinea con i campi di forza di quasar lontanissimi. E’ qualcosa che ha a che fare con l’armonia dell’universo, il suo significato operativo, il suo tesoro di bellezza pratica ed esistenziale. 
Bellezza di cui ogni bellezza, inclusa la cattedrale di Notre Dame, è grato riverbero.
Il resto sono piccoli passatempi, cose inessenziali. Cose buone per chi, semmai, potrebbe pensare di vivere un tempo indefinito. 
Se proprio vogliamo vedere un segno, in questo incendio, in questo crollo, allora vediamolo come una spinta a vivere la nostra vita, a diventare noi stessi. A rischiarci in quell’opera unica che è la nostra vita. 
Che è un altro modo di dire, imparare ad amare. Noi stessi, e quindi gli altri. 
Il resto, sono chiacchiere che alla fine stancano.
E di discorsi, ne abbiamo abbastanza, come ci dice un anticlericale come Peguy,

Ce ne han dette tante, o Regina degli apostoli, 
Abbiamo perso il gusto per i discorsi 
Non abbiamo più altari se non i vostri
Non sappiamo nient’altro che una preghiera semplice.

Preghiamo dunque che ci venga donato, ogni giorno, il coraggio di vivere, di amare.

Di vivere davvero. 
Di amare, davvero.

Di cosa altro dovremmo mai occuparci?

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Il ritorno

Un viaggio, degli incontri. Una avvenente collaboratrice, un misterioso e autorevole scienziato. La possibilità inattesa di un ritorno a casa, di una discesa a picco nell’istante presente. Luca è ad un punto di svolta, un punto critico: nella vita, nel lavoro e negli affetti. Ora è chiamato ad affrontare i propri fantasmi, per riscoprire un cuore vivo.

“La questione è proprio semplice, Luca”, abbassò gli occhi, e in quel momento mi sembrò seducente come non mai. “Io sono nella mia storia, Luca. Lo sono ora come lo ero quando ci siamo conosciuti, tanti anni fa, quando ero appena una ragazza. Anzi, sono assai più nella mia storia ora di quanto lo potessi essere prima. Nella mia vita c’è una strada. Una possibilità sempre aperta di gioia, di essere abbracciati….”

Il mio primo romanzo è disponibile per l’acquisto su Internet in forma cartacea e digitale. Il primo capitolo è disponibile per la lettura gratuita attraverso il portale Wattpad.
La trama si dipana tra Roma, Monaco di Baviera e Parigi, integrando la suggestione dei diversi luoghi come attore partecipe delle vicende stesse del romanzo.
“Che visione stupenda! Basta guardare, alle volte, mi dissi, guardare fuori, intorno.
Avere occhi per guardare le meraviglie del mondo.“
Il tutto avviene sotto gli occhi del lettore, sempre a stretto contatto con una colonna sonora che si integra organicamente con lo svolgimento, chiamando idealmente chi legge a partecipare anche attraverso la magia del suono, e attinge ad una seri di brani (italiani e stranieri) che copre un ampio intervallo di stili e di epoche.
La playlist (in corso di sistemazione su youtube) comprende i diversi brani della colonna sonora del romanzo, nell’ordine corretto. L’avvicendamento dei brani può sembrare privo di un vero nesso logico, ma (vi garantisco) è pienamente comprensibile attraverso la lettura del romanzo.

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Silenzio (qualcosa riprende a respirare)

Forse la cosa che più è decisiva, per le nostre sorti e per quelle del mondo, è il silenzio. Dopo fatti come questo, dovrebbe esserlo. E’ sconfortante in un certo modo vedere come i social network si animino nei confronti tra teorie avverse e speculari su come sconfiggere il terrorismo, una volta per tutte. 
Se allora scrivo qui è soltanto per approfondire questo silenzio, benché appaia paradossale. Cerco parole che non aggrediscano questo silenzio necessario, ma possano accomodarvisi dentro, trovare spazio nella riflessione. Trovare un nido.
Sgombro il campo da equivoci. Non voglio dire cosa fare. Veramente, il lunedì ci svegliamo tutti allenatori. Questa volta ci siamo destati nientemeno che come esperti di politica internazionale. 
Quello che so come uomo, quello che sperimento, è l’esigenza di un senso più profondo, di una appartenenza più radicale. Per sconfiggere la paura, esattamente. La paura io la riesco a sconfiggere, a mitigare, soltanto in una relazione. Le forze non le trovo da me stesso: le mie sempre emergenti pretese di autonomia mi lasciano appena sensazioni di impotenza e strascichi di angoscia. La relazione con l’altro (affettiva, terapeutica, spirituale) mi rimette in pista, benché acciaccato. Ancora e di nuovo in corsa per una ipotesi di senso, di significato.

Cercare una risposta adeguata alla domanda sul significato della nostra vita è l’unico antidoto alla paura che ci assale guardando la televisione in queste ore, è il fondamento che nessun terrore può distruggere

In questa frase di Juliàn Carròn sento emergere una verità che preme perché io la riconosca. Che io la accolga come ipotesi di lavoro. Nella confusione totale, che ci fa tutti un po’ più infelici e rischia di farci anche diventare più cinici, è quello che sento contenga un punto di partenza reale. Di ripartenza
Da Parigi, Maddalena scrive “Ho bisogno di capire come stare di fronte a questa realtà che mi è data adesso, in questo momento in cui la mia priorità era riposare. Di una cosa sono certa, che questi fatti mi sono dati da guardare ora, proprio a me che pensavo di starmene tranquilla” 

Ecco, più che di analisi geopolitiche, ho prima di tutto lo stesso bisogno di questa ragazza, di capire come stare di fronte a questa realtà.
Riconoscere questo bisogno, riconoscere il mio immenso bisogno di tutto, può essere il mio primo passo, perché il senso si riaffacci sull’orizzonte terso delle cose, nella purezza di un desiderio su cui appoggia il mio cuore. Perché io possa tornare a prendermi cura (di me stesso, delle cose nel mondo, delle cose del mondo)La cura è anche riconoscere che il pensiero ragionante che si concepisce autonomo da tutto (quindi solo) non è palcoscenico neutrale, ma è forse già una scelta di campo, come diceva bene un certo Eugenio Montale già nel 1975:
Terminare la vita
tra le stragi e l’orrore 
è potuto accadere per l’abnorme sviluppo del pensiero
poiché il pensiero non è mai buono in sé.
Il pensiero è aberrante per natura. 
Era frenato un tempo da invisibili Numi, 
ora gli idoli sono in carne ed ossa
e hanno appetito.
Noi siamo il loro cibo. 
Il peggio dell’orrore è il suo ridicolo.
Noi crediamo di assistervi imparziali
o plaudenti e ne siamo la materia stessa.
La nostra tomba non sarà certo un’ara
ma il water di chi ha fame ma non testa.

Non si tratta qui certo di darsi croci addosso, ma di capire cosa possiamo fare per essere più felici. Così Marco Guzzi può scrivere quello che noi tutti spesso dolorosamente avvertiamo, nella vita ordinaria…

Siamo una civiltà che non ha più la testa. E da tempo ormai. Sballottata tra orrore e pubblicità..

E vi ritrovo pienamente abitante in queste parole il grido di senso di Maddalena, la domanda accorata di capire come stare di fronte a questa realtà.
E’ qualcosa di sommesso, a cui fare appello ora. E’ un silenzio che ritorna, che può tornare. Perché questo sangue non sia stato versato per nulla – ora lo dico – dobbiamo essere molto fermi e decisi: dobbiamo riprendere la poesia del mondo. E’ una ipotesi di un ritorno ad un modo diverso di guardare, di respirare. Di vivere, di dormire, di amare.
Qualcosa è già in opera, per questo, forse. Non si tratta allora di inventare qualcosa, ma di riconoscerlo già operante. Non dobbiamo essere cinici, ma aprici a qualcosa che forse già si muove. Qualcosa che deve essere poetico e risanante insieme. Risanante perché poetico. Chiude sempre Marco il suo intervento su Darsi Pace, con una frase che mi risuona dentro piacevole e delicata come un verso, un anticipo di questa poesia che deve venire, per la quale posso – forse – lavorare…

Altrove qualcosa di vivo riprende di notte a respirare… 

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Scienza e pace

No, non è una variazione estemporanea del titolo del ben noto romanzo di Tolstoy, Guerra e PaceE’ piuttosto una articolazione che – io penso – è più che mai urgente ripercorrere e rinforzare. Soprattutto adesso, soprattutto all’indomani dei fatti di Parigi, così tragici e apparentemente assurdi che fanno preferire un silenzio doloroso ai peraltro sempre più inutili esercizi retorica. 

Non è quindi di questi fatti che vorrei parlare qui. Piuttosto, vorrei esprimere come e in che modo io mi senta interrogato dalle provocazioni che provengono da questo travagliato periodo. E intendo, io come scienziato. 

Fare scienza davvero è un atto di pace?

Fare scienza davvero è un atto di pace? E’ lecito chiederlo, è lecito lavorare per una ipotesi di risposta. Come qui.

Se una cosa si può dire, difatti, è che l’urgenza attuale, la domanda di un senso, sempre più lancinante ed improrogabile,  porta ogni persona – inevitabilmente – ad interrogarsi su come può il suo esistere, il suo lavoro, la sua opera, aiutare a ricercare e ritrovare un orizzonte di positività su cui semplicemente poter esistere, fare progetti. Vivere.

Per uno scienziato può voler dire scendere alle radici della sua attività, capire che quello che fa in laboratorio, o davanti al computer, non rimane confinato in un ambito ristretto, ma in qualche modo è connesso all’universo intero. Come del resto ogni altra attività.

E la scienza, vorrei dire la scienza praticata, è fondamentalmente pace. Certo, lo so anche io che la scienza ha prodotto cose come la bomba atomica. E’ innegabile. Ma rimango convinto che l’attività scientifica, sopratutto per come si qualifica al giorno d’oggi, è una pratica intrinsecamente portatrice di pace.

Vorrei spiegarmi.

La scienza oggi è inevitabilmente transazionaletransculturale. La scienza vera, cioè quella che ha fatto la scelta di campo di appoggiarsi a metodi di controllo e di verifica, che procede secondo la falsificabilità popperiana delle sue teorie, è così. Non è un pensiero, o una aspirazione. Lo vedo ormai da anni, nella pratica quotidiana.

Non è che la scienza sia fatta da persone migliori. Sono persone come tutte, se ci fosse bisogno di specificarlo, con le loro meschinità e le loro miserie. Sono persone come me che sto scrivendo, come te che leggi.

Il punto è un altro. E’ l’oggetto in se stesso – la ricerca scientifica – che detta il metodo. Ed è un metodo che incoraggia intrinsecamente la collaborazione internazionale, che spinge a non fermarsi su valutazioni di differenza di razza, di etnia, di religione, di visione della vita.  Chi è innamorato della scienza, a chi è appassionato, se ti incontra, interessa se quello che hai da dire lo aiuta a meglio comprendere un problema. Se puoi portare un contributo, indipendentemente dal colore della tua pelle. O da dove vieni.

La rete informale di ricercatori di uno stesso ambito, è sovente molto larga e molto efficiente (io lo tocco con mano nel progetto ESA-GAIA, in cui lavoro, ma gli esempi non mancano di certo). Copre un gran numero di nazioni di orientamenti più diversi. Predilige la tranquillità politica e la pace. E non per farsi bello davanti al mondo: piuttosto, perché così  può – pragmaticamente – operare meglio e più fruttuosamente. E questo è sempre più vero più passa il tempo, perché i grandi progetti attuali (satelliti astronomici, esperimenti di fisica teorica, etc…) coinvolgono tipicamente un esteso numero di persone e sono collaborazioni tra una notevole molteplicità di stati sovrani. E possono essere condotti a termine solo se queste persone collaborano efficacemente tra loro.

Lavorando nella scienza in maniera seria, si è dunque inevitabilmente forzati a scambi ed interazioni con persone che sono tra loro le più diverse. Si è spesso condotti a seguire congressi e riunioni in diversi paesi. Si impara – per forza, non per virtù – a collaborare con persone bianche, nere, gialle, con il turbante, con il crocifisso o la tonaca, o senza niente di tutto ciò. E’ richiesto appena un acconsentire ad un insieme minimale di regole di convivenza, democrazia e scambio, e tutto il resto viene da sé.

Perché non sembri idealistico, possiamo anche mettere in conto che in questo convivono anche le consuete rivalità tra gruppi concorrenti, le umanissime meschinità e gli altrettanto umani giochi di potere, e quant’altro potete immaginare (a livelli diversi, a seconda delle persone e degli ambienti).

Con tutto questo, l’autentica passione per la scienza, per la comprensione profonda della struttura del mondo, favorisce la pace e la tolleranza – perché è possibile perseguire l’obiettivo soltanto con la pace e la tolleranza.

Facendo scienza davvero, lavoriamo per la pace. Prendendo sul serio il nostro lavoro, scopriamo di fare automaticamente la nostra parte per il buon ordine dell’universo.

Ma questo, capisco, non è limitato appena all’opera dello scienziato. E’ l’opera dell’uomo, nel senso più bello ed autentico del termine.

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