Blog di Marco Castellani

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Ragionamento

Siamo strani, siamo umani. Siamo universi sempre diversi. Un approccio logico-razionale tra due persone, comunque, porta rapidamente ad un attrito, una frizione, una consunzione, come due ingranaggi che girano a regime diverso e si volessero mettere in connessione. Tale approccio porta in realtà allo stesso stress delle strutture anche nel rapporto di una persona con sé stessa, come sappiamo. Siamo, mi pare, in una epoca di ipertrofia della logica, che viene applicata spesso fuori dal suo specifico campo d’azione. 
Sarà perché la logica è in un certo senso, falsamente rassicurante. Ci fa sentire padroni della situazione, ci fa sentire in pieno controllo. E’ una cosa che possiamo dominare, e sembra lì apposta, per fare chiarezza. Tipo, enucleare i termini di un problema, descriverne i contorni, per poi operare in maniera logica e razionale, verso una soluzione (o mitigazione del problema). Dividere, sezionare, scansionare, enucleare all’infinito, per comprendere, o per risolvere. 

E’ un abbaglio della ragione, fondamentalmente. Una sua hybris, abbastanza perniciosa. Nella sua ansia risolutiva, si scorda di tutto un mondo attorno, che però non può essere escluso senza alterare e avvelenare il contesto, il campo da gioco. Si scorda – per dire – dell’esistenza delle stelle. 

Ci siamo molto abituati a diffidare di tutto tranne che del ragionamento, che invece a volte è proprio l’ultima cosa alla quale ricorrere per affrontare i problemi. Avete presente quella sensazione che tanto più ragioniamo su una certa circostanza, tanto più ci impantaniamo?

Forse perché il ragionamento ci illude di tenere presente tutto, e ponderare tutto. Mentre in realtà ha fatto fuori dal suo stesso moto iniziale quella salutare pratica di affidamento ad una forza più grande e benevolente, che spesso – a parole – diciamo pure di considerare, o di onorare (chiamatela Dio, o Essere, o Vita, o in qualsiasi modo vi risuoni di più). O più semplicemente,  se volete, a qualcosa che non cade nella nostra orbita di analisi, al momento.

Alla base del ragionamento c’è infatti un assioma, un postulato, quello segretamente prometeico che dice “bene, ora vediamo come io posso risolvere questo problema”. Come tale esclude appunto un qualsiasi affidamento a qualcosa che sia esorbitante dalla mia cognizione razionale. Ed esclude dunque qualsiasi sorpresa.  Come dire, “poche chiacchiere, quando si arriva veramente ai problemi, me la devo vedere da solo”. 

Dunque in un certo senso, un approccio totalmente razionalistico ad un dato problema è prima di tutto e subito una mozione di sfiducia. 

Come appunta  Etty Hillesum nel suo Diario,

Dammi pace e fiducia. Fà che ogni mia giornata sia qualcosa di più che le mille preoccupazioni per la sopravvivenza quotidiana. E tutte le nostre ansie per il cibo, i vestiti, il freddo, la salute, non sono altrettante mozioni di sfiducia nei tuoi confronti, mio Dio? 

Certo non è facile, lasciarsi andare, provare ad affidarsi, mollare la presa (per me, ad esempio, è francamente difficilissimo). Ma non per questo dobbiamo desistere, anzi forse dobbiamo lavorare di più e con più allegra determinazione a lasciare, ad abbandonarci ad un flusso più grande e più saggio di noi. 
Certo, non ci riusciamo subito. 
Ma fare delle prove di abbandono, magari anche spezzare la catena perversa di ragionamenti, la proliferazione di pensieri, con qualche minuto di meditazione, o di lettura profonda? Perché no? O comunque, appena, sapere che a volte la soluzione non viene dai pensieri – per quanto la mente ci suggerisca di pensare più a fondo se non troviamo soluzione. Paradossalmente, una buona cosa potrebbe essere quella di accogliere la situazione presente, rinunciando – almeno per un po’ – alla idea, alla pretesa di cambiarla, o di cambiarci. Onorare la situazione presente, accettandola
Senza tanti ragionamenti. 

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Autunno (appunti dalla camminata)

Me ne accorgo, me ne accorgo subito. Qualcosa della qualità dell’aria, si potrebbe dire. Non so bene cosa, ma qualcosa. Qualcosa nella vibrazione delle cose, nel modo specifico particolare di vibrazione delle cose.
Nel modo diverso del loro riposo, anche.
Sono nel parco da due minuti e già lo so. Già lo sento, già lo so. E’ autunno, è già autunno, ed è la cosa più evidente che ci sia. Non so a che agganciare precisamente tale percezione, ma è certa. E più certa di un dato scientifico, di un algoritmo matematico, di un calcolo programmatico.

Autunno è questo desiderio di tiepido ripiegamento, dopo l’espansione estiva. E’ il timido desiderio di un riparo, che torna a farsi vivo, torna a farsi sentire, a richiamare uno spazio, uno spazio-tempo proprio. E’ una rinnovata attenzione alla delicatezza di sé stessi. E’ dirselo, l’un l’altro — l’un l’altra. O uno all’altra, ancora. Copriti, non prendere freddo, mi raccomando è solo il primo passo, appena il primo passo, un piccolo passo fondamentale, per ritrovare quel caldo d’amore che risana dal profondo, che ti lascia in piedi, ti rimette in piedi e ti lascia in piedi.
Puoi camminare, in una struttura d’amore intorno a te.
Se entri in una storia d’amore. Con il terreno, gli animali, le piante, l’aria, le persone, le stelle, con Dio. Nessuna storia conta, nessuna storia vale la pena, se non è una storia d’amore. Ormai sei troppo vecchio per tutto il resto, Marco. Te lo puoi dire, sei troppo vecchio per tutto ciò che non è una storia d’amore, non riverbera una storia di amore. Andava bene prima, per guardare, esplorare, capire. Per il gusto di dividere, catalogare, esaminare. Eccepire. Ora non più, non più, ora è tempo di scegliere, di scegliere tra l’amore o la delusione, l’amore o la prestazione, l’amore o la tentata perfezione, l’amore o la progressiva consunzione.
Sono contento di poggiare i miei piedi su un pianeta con questa variazione periodica di stagione, un pianeta con questa amabile scansione. Sono contento di avvertire questi segnali misteriosi, quasi arcani, dalla natura. E’ un linguaggio che non si incanala nel procedere discorsivo, al quale siamo così affezionati, tanto che pensiamo che ogni informazione, ogni evidenza, ogni realtà reale sia suscettibile di declinazione discorsiva, argomentativa. No, è qualcosa che è immensamente più diretto, primitivo. Insomma come un odore, un sapore. Si muove su uno strato fondamentale, primordiale. Su questo strato risuona, mi rientra in circolo, mi cattura.
L’altra cosa, i colori. L’autunno esalta i colori, fa brillare quello che c’è, esalta i tuoi stessi colori. Toglie luce, calore, perché i tuoi colori, le tue luci vengano fuori. Arretra per darti spazio. Ma lo spazio di te che rientri in te stesso, non della tua proiezione esuberante o esitante dell’estate (la stagione luminosa e dichiarativa). Quello spazio. Quello spazio si apre, e puoi entrarci e puoi trovarti comodo.
Puoi metterti di nuovo quella maglia, saggiando la consistenza del tessuto, riscoprendo il piacere di altri strati che coprano delicatamente la tua pelle, che la adornino, la adombrino e la adornino, sottilmente. Scopri una parte di te che non è più nella proposizione secca ed esplicita del tuo stampo, della tua forma nello spazio, del tuo corpo. D’estate togli, esponi. D’autunno ricopri, nascondi, ma non troppo. Togli appena dallo sguardo diretto e unidimensionale, così troppo povero rispetto al cuore. Ed è di nuovo un gioco sottile di immaginazione, di ricostruzione dietro un rimando di sguardi, di quel che c’è e non si vede e riposa nell’ombra e nell’ombra trattiene i suoi stessi umori e magari ti attraversa la mente tra un modo d’istinto e una rinnovata dolcezza percettiva.
L’autunno è la diminuzione di segnale, il buio che riprende spazio, arriva più presto. Autunno è la stagione della poesia, è abbassare i volumi di tutti i telecomandi, perché ciò che è in penombra, quasi nascosto, possa esaltarsi, possa venir fuori, possa finalmente mostrarsi. Autunno è anche tristezza, a volte, ma è più d’ogni cosa una onda di delicatezza che arriva come un balsamo, e ti parla, ti chiama, ti dice di tornare, di ricominciare a tornare, a fare quel ricominciamento, quel ritorno di cui sei colmo di nostalgia, quel ritorno nell’universo specifico di ciò che è tuo, più tuo di te stesso.
Ciò che proprio non puoi perdere.

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Pensieri (che ne so io di un campo di grano?)

Pensare è un’attività favolosa, senza confronto. Una meraviglia quotidiana a cui siamo fin troppo abituati. Ma bisogna anche utilizzarla bene, questa meraviglia. A volte il pensiero lo uso indebitamente, fuori dal suo ambito. La cosa più incredibile è che non mi accorgo nemmeno di farlo.

Così affondare nei pensieri per risolvere qualcosa è l’errore più grave che posso fare. 

Perché – detto in termini diretti – il pensiero può violentare la realtà. Ecco il grande pericolo. Può fare questo. Disperdere la sua incredibile e multiforme complessità forzandone i tratti dentro uno schema necessariamente povero e precostituito. Povero perché non ammette l’imprevisto, non tollera minimamente di essere sorpreso. Nel suo delirio di onnipotenza (nel nostro), vogliamo tenere in controllo ogni fattore, ogni variabile. Non lasciamo spazio a quello che esce dal nostro quadro.
Può far tutto questo, e a noi sembra niente. Davvero, sembra niente ma è tutto.
Ci pensavo qualche giorno fa, guardando dalla finestrina delle rampa delle scale. Prendiamo un albero. Ecco, sì. Anche quell’albero là, quello là davanti a me. E’ così evidente – se solo mi fermo un poco a guardare, sì a guardare prima di pensare – che il mio modello di realtà è inadeguato. Che pretendo di controllare qualcosa la cui giocosa complessità mi sfugge in ogni direzione. 
Che ne sai tu di un campo di grano? Ma davvero…

Le foglie, i rami. La complessità impressionante che governa tutto questo. Non posso circoscrivere nemmeno con precisione tutte le informazioni che definirebbero una singola foglia. Non dico una foglia in generale (terribile problema della generalizzazione!), intendo una di quelle foglie che sto guardando. Ognuna diversa, unica. 

Ho fatto un piccolo gioco. Ogni piano che scendevo, mi fermavo alla corrispondente finestrina. Guardavo l’albero. Da ogni piano era una prospettiva diversa, ogni finestra apriva su una visione diversa dello stesso oggetto, nel suo rapporto con le cose circostanti.

Una bella lezione.

E io che cerco ancora di cavarmela dicendomi di aver visto un albero. Che drastica semplificazione ho apportato, alla complessità del reale! Così funziona, di solito: io mi faccio velocemente un modello del mondo, nella fretta di iniziare ad intervenire. Ecco che ho già sostituito alla quieta contemplazione, la fretta di raccogliere i dati sufficienti a manipolare il reale.
Il pensiero va bene per costruire, edificare. Se ho un problema scientifico certamente devo ragionare, fare ipotesi, elaborare teorie. Ma stare a ragionare intorno ad una situazione, è totalmente inutile. Peggio, è usare uno strumento inadeguato. Come voler misurare la temperatura con un metro. Vuol dire non rendere omaggio alla complessità mirabolante di quello che esiste, di cui riesco a trattenere solo una piccolissima parte. Tutto il contrario di quello che dovrei fare, di quello che mi farebbe davvero respirare, arrendermi. 
I mistici, i poeti, lo hanno sempre saputo. Shakespeare ha ragione. Vi sono più cose in cielo e in terra che nella nostra filosofia.
Così mi ripeto che non è il metodo giusto, non è la scelta corretta. Se già un albero è così complesso, così intrinsecamente inconoscibile nella sua totalità di esistenza, come sarà ancora più complessa una qualsiasi situazione umana. 
Come sarà complesso, un amore. Un’amicizia, un rapporto.

L’altro giorno passavo in auto vicino ad un piccolo parco urbano. Mi è venuto da pensare, ma anche se io circoscrivessi appena un metro quadro di questo parco, mi mettessi a studiarlo, analizzarlo, misurarlo… potrei mai dire di conoscerlo? Riuscirei a darmi ragione del numero e della posizione dei fili d’erba, del loro colore, del loro modo di muoversi al vento, delle interazioni reciproche? Che ne so di questo metro quadro, in realtà? Che ne so dei rapporti di questo piccolo pezzo di realtà con il resto del reale? Riecheggiando Battisti/Mogol, mi chiedo, ma che ne so io di un campo di grano, veramente?

Eccoci. Di fronte all’albero, di fronte al prato, io allora mi devo arrendere. Devo deporre le armi, le mie pretese razionalistiche occidentali postmoderne di conoscenza aggressiva e invasiva. Non è facile per me, non è facile per niente. Sono troppo abituato ad un sistema di rapporto diverso con la realtà. Un sistema malato, perché genera disagio. Un sistema cui mi sono abituato e mi hanno abituato, certo con le migliori intenzioni. Ci ho messo tanto per capirlo, ma ora mi sembra di essere finalmente sulla strada per iniziare a comprenderlo.

Perché non è facile? Non è facile perché per farlo devo convertirmi ad un alto sistema di rapporti. Non posso farlo dall’interno da un sistema di pensiero aggressivo e ultimamente disperante. Non posso prenderla come una ennesima acquisizione, un’ulteriore annessione. No, devo cambiare io.

Così di fronte ad una difficoltà, ad un problema – quanto può essere più complesso di un albero, di un prato, di una foglia! – Io devo fare lo stesso, mi devo arrendere. Così lascio fare a forze che mi trascendono e possono lavorare al problema molto meglio di me. Ammetto finalmente che non posso reggere il mondo sulle mie spalle, non posso tenerlo su io: ecco le assurde pretese dell’ego! L’ego non ammette niente che lo trascenda, in ultima analisi, e non si fida di nessuno. Bisogna arrivare a scontrarsi con il fallimento del suo modello, per iniziare a vedere una nuova luce.

Questo è veramente un punto decisivo, del mio lavoro personale. Il mio pensiero lavora sul già visto, non ammette la novità. Il mio ego vuole avere tutto sotto controllo, vuole che il mondo vada come dico io.  Non è facile per niente mollare le redini, eppure ad un certo punto diventa necessario. Se voglio guadagnare una pienezza di vita più grande, è realmente necessario.

Perché io, di un campo di grano, non so proprio nulla…

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La corsa e la croce

No. Non ce la faccio nemmeno io a non scrivere, a non scrivere sul blog. Non raccontare i fatti miei, in un certo senso. Perché così raccontando, mettendo i pensieri in fila secondo le regole ordinate del linguaggio scritto, anche le cose nella mia mente si mettono a posto, si ordinano. Anche se magari non riesco a metterle in relazione in maniera soddisfacente, averle fatte passare per la scrittura crea un filo rosso che segue paziente anche le curve più ardite, le deviazioni più ostiche. Smussa anche un po’ gli spigoli, diciamo la verità.

Per inciso, non riesco a trovare motivazione per scrivere più pregnante di questa.

Allora, domenica scorsa, prima che piovesse (e anche durante la pioggia, a dire il vero) sono andato a correre al parco sotto casa. Finalmente ho capito come funziona il cardiofrequenzimentro, sopratutto come si mette la fascia per rilevare le pulsazioni (non sulla panza come una cintura di pantalone – come mi hanno fatto capire – ma ben più alta sul petto) e debitamente accessoriato, sono sceso per l’avventura.
Debitamente accessoriato, stavo dicendo. Infatti. Ormai per me il fatto di correre è stato raggiunto e divorato dalla tecnica moderna, a scapito probabilmente della intrinseca semplicità del gesto (appunto, mettersi a correre). Ecco qui tutto l’apparato:  cardiofrequenzimentro con orologio/rilevatore al polso, poi iPhone ed auricolari per la musica e ovviamente per monitorare percorso e tempi con Endomondo
Eh no, non sono io. Non ancora, almeno …
Comunque, questo è. A volte penso che qualche anno fa era tutto più semplice. Non c’erano applicazioni da aggiornare, stati facebook da inviare, foto da scattare e mandare su Instagram. Non c’era il telefonino, ma un telefono per famiglia, a casa. Insomma non c’eran tante di queste cose. C’era semplicemente da vivere.

Per il resto (scansando discorsi complessi), il fatto di correre è come inserirsi in uno specifico microcosmo, qualcosa di apparentemente lineare e semplice che però – come ci si accorge presto – mappa efficacemente le posizioni e gli atteggiamenti che assumo durante le normali giornate. E – spero – mi può aiutare a correggermi, quando serve. E serve spesso.
Intanto, la motivazione. Correndo lo vedo subito, me ne accorgo istantaneamente. Il penso positivo agisce in maniera diretta ed immediata. Se cedo ad un treno di pensieri negativi, di sconforto, la spinta viene meno, la fatica aumenta. Ecco qua: rallento, non riesco a progredire. Se invece afferro un pensiero di speranza, lo tengo stretto, lo riguardo da varie angolazioni, lo faccio brillare, ne estraggo il succo, mi sento rientrare addosso l’energia, riprendo gusto all’allenamento. Sono anche più attento a quanto succede in me ed intorno a me. E poi magari va così, accarezzo l’idea di fare un po’ di strada in più, magari prendo una pausa camminando per poi fare un’altro tratto. Insomma ci prendo gusto, mi metto un po’ alla prova. Se però, di nuovo, un pensiero di irritazione o di insoddisfazione o una valutazione sconfortata di un problema mi prende, eccomi di nuovo al palo, ecco che perdo la voglia, la motivazione.
E’ vero. E’ verissimo. A parità di circostanze, i pensieri sono determinanti, decidono della qualità del mio allenamento. Decidono della qualità della mia vita. Se acchiappo un’idea interessante, un progetto, qualcosa su cui lavorare astraendomi dalla ruminazione dei miei crucci, riesco letteralmente a fare chilometri in più. Riesco ad affrontare meglio ogni situazione.
Insomma è inutile andare a correre tristi. Tanto dopo cento metri si rientra a casa.

Poi, per me l’altra cosa importante è guardare.Voglio dire, correre va bene, ma dove guardare? Avanti, onde evitare incidenti. Ovvio. Ma come guardare avanti? La cosa non è risolta. Eh no, perché c’è modo e modo. Vi dico subito la cosa migliore per me: guardare alto, in avanti, all’inizio. Per capire la scena, avere un quadro complessivo. 
Però poi no: poi, correndo, no.

Certo mantenere il controllo della zona, ma concentrarsi su quanto vedo vicino a me. Sì vicino. Se mi fisso sul punto di orizzonte mi sconforto perché – ancora – sembra che io non mi muova. Vince la lontananza, la sproporzione. Il senso di distanza. Chi sono io per avere l’ardire di mettermi a correre? Che progressi faccio? Vedi, sono ancora qui, vedi (con treno di pensieri sconfortanti a seguire).

Se però correndo mi concentro su quello che avviene intorno a me, se scendo nell’istante presente, allora tutto cambia. Vedo che i miei piedi si muovono, che nonostante tutto le zolle d’erba si avvicendano, il sentiero scorre sotto di me, il micropanorama cambia di continuo. Che sto andando avanti, sto facendo il lavoro. Questo mi consola, mi conforta.

Insomma, come al solito, sono davanti alla mia impazienza: se cerco di evadere dalla situazione presente, dal qui e ora, non c’è niente da fare, mi ammalo. Se mi calo nell’istante, invece, mi permetto di vedere che sono in cammino, che mi modifico. Che posso pian piano convertire il mio modo rigido di pensare, che non devo più tentare di schiacciarmi in un orizzonte ipotetico freddo ed uguale per tutti- Posso allentare la presa, posso concedermi di essere me stesso con il mio specifico modo di correre, di affrontare le cose… posso guarire.

Perché nessuno è come me. Nessuno. Quando mi rilasso su questo punto, sto meglio. Capisco un po’ meglio cosa ci sto a fare qui. Mi permetto, mi dò il permesso, di non essere già come vorrei essere, mi permetto di avere paure, insicurezze, sensi di colpa. Paradossalmente, accettando tutto questo, accettandomi come sono adesso, sto subito meglio. E corro più sereno. E vivo più sereno.
Mi colpisce ogni volta che sento questo, mi accorgo che riscopro qualcosa che la saggezza delle filosofie e delle religioni conosce bene da millenni. E che il cristianesimo dice molto bene (se noi lo vogliamo ascoltare). Così fatemelo dire in termini scopertamente  cristiani, senza giri di parole, senza traduzioni nel linguaggio psicologico (pure se ha una portata psicologica poderosa):  accettando la croce si arriva alla gioia – quella profonda, la gioia profonda e tranquilla, la più bella e interessante.

Non cercando di scansarla. Accettandola, la croce.

Questo mi dice anche tutta la mia esperienza maturata fino ad ora. Non che io non sia testardo e normalmente agisca in maniera diversa, tentando di evitare ogni fatica, ogni difficoltà. Soprattutto, sognando circostanze magiche che mi permettano di evitare di lavorare su me stesso.

Quindi?

Questo posso fare. Adesso. Ora. Accettare la mia croce.

E’ una lotta, mi viene per nulla facile.

Quello che però posso dire, è che tutte le volte che mi sono piegato, ho domato la mia rigidità, ho accettato la croce, non ho mai – dico mai – avuto a pentirmene.

E sì, ho anche corso molto meglio… 

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Camminare…


Red Carpet
Inserito originariamente da Rhys Jones Photography

Caro mio, bisogna pur che te lo dica. Sì, bisogna che te lo dica di nuovo, caro me stesso, visto che dici di saperlo già, ma sempre te lo dimentichi.

Ecco qui: non pretendere di risolvere subito tutto, non pensare che tutto debba sempre essere chiaro: cammina anche se il percorso è illuminato a sprazzi…

Camminando, tratta con la massima affabilità il magma di passioni e impulsi che ti si muove dentro.. tratta con affabilità le altre persone, e soprattutto te stesso (che poi le cose sono legate a filo doppio…).

Ragiona: prima era necessario risolvere in maniera fredda, analitica. C’era da farsi una strada, guadagnare un posto nel mondo, acquisire, allargare. Ora è invece assai più necessario accogliere, sostare anche nelle zone d’ombra, pazientare, camminare piano, comunque. Non rigettare niente di se stessi, non porre nessuno “steccato” artificioso, ma accogliere le proprie passioni con affabilità e dolcezza. Baciarle, come dice A. Grun.

Niente più fretta, lavoro paziente sul limare i propri difetti, basta un passettino piccolissimo ogni giorno: e questo è assai bello perchè non pone quasi condizioni… si può fare sempre…

Insomma, mai più l’atteggiamento aridamente cartesiano verso il proprio sè: separare “con le pinzette” le emozioni e gli impulsi, uno ad uno, per metterli sotto la fredda luce di un improbabile imparziale esame, per tentare di “risolvere”, “spiegare”, enucleare i fattori uno alla volta… mai più, mai più ! Queste cose sono come i quark: non sono separabili, se non a spese di una smisurata energia … Voglio dire, la dolcezza non è compatibile con la tentazione sottile di questo atteggiamento, i dubbi e i nervosismi aumentano soltanto, ci si rigira nell’aspra irrisoluzione conseguente ad una atteggiamento sbagliato…

Che bella, invece, quella giornata in cui io non ho risolto nemmeno una delle mie incertezze e fatto luce su nessuno dei miei dubbi, ma ho solo imparato ad accogliere queste e quelli con pazienza affabilità e amore verso il tesoro che è la mia vita… in cui allora queste cose non sono più obiezione, ma accolte diventano inaspettatamente “amiche”, in un modo che la realtà stessa si addolcisce appena e più colori filtrano alla mia finestra… davvero che bella giornata..!

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into the woods


into the woods
Inserito originariamente da Sheila in Millstone

Così venendo al lavoro oggi,
traversando gli spazi della natura
del primo autunno

mi viene in mente
e gioco con l’idea,
che trovo confortante,

che il sacrificio in fondo
non è obiezione:
non è obiezione
alla verità della propria situazione,

alla consistenza della vita
che si viene vivendo
nella quale siamo posti.

C’è più spazio anche alla gioia,
allora…

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Solitude at Sunrise


Solitude at Sunrise
Inserito originariamente da SkattyKat

…Nostalgici solo
dell’infinita pazienza…

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E’ che servono le chiavi a mia moglie

Scendo negli spogliatoi della palestra dopo forse una mezz’oretta scarsa da che sono entrato. Mi vede un signore che incontro spesso in palestra e col il quale spesso ci scambiamo dei saluti, e mi chiede se ho già finito per la giornata. “No no devo prendere una cosa…”


Intanto penso la versione lunga della medesima risposta, che è tipo “A mia moglie servono per qualche motivo le chiavi di casa ora, così che ho interrotto gli esercizi e sono sceso a riprendere dal mobiletto dello spogliatoio, dove ho chiuso la mia roba mentre faccio allenamento…”

Subito dopo mi figuro anche una sua probabile risposta di circostanza, magari del tipo che chiamerei da piccola seccatura, tipo Ehh che ci vuoi fare, nemmeno in palestra si può stare tranquilli, le mogli… forse con un sorriso a stemperare e sdrammatizzare ulteriormente questa lievissimo contrattempo…

Poi sono andato a pensare perchè mai la parola “moglie” potesse essere anche per scherzo associata a “seccatura”. Mi ha fatto pensare alla quotidianità di una lunga consuetudine di vita, alla differenza tra la parola “sposa” che è una parola che brilluccica tutta di gioia ed eccitazione e gusto pieno di prossimità e vicinanza, e la parola – appunto – “moglie” che lascia invece trasparire un senso di abitudine, di compromesso, quasi di stanchezza: “ahh che vuoi, sai mia moglie…”, cose di questo tipo qui.

Però non mi sono rassegnato a scivolare nell’uso di questa parola in questo modo. Secondo me quando sta per capitare è il segnale che c’è da lavorarci, da lavorare per soffiare via la polvere: lavoro lento, paziente, senza attesa di risultati repentini, ma fiducioso…

D’altra parte, la luccicanza della parola sposa, in ultima analisi, è pur contenuta nel nucleo della parola moglie, ma come protetta, custodita, da uno strato intermedio semiopaco, senza il quale forse non potrebbe preservarsi nel tempo… strato che contempla anche l’abitudine di un rapporto lungo, che contempla anche le tensioni, le differenze, e la perseveranza paziente nel lavorare per superarle… come se non potesse essere esposta al mondo così direttamente, ma dovesse come scivolare entro uno strato protettivo.

…Non è che semplicemente stà a me lavorare perchè questo strato non diventi una gabbia, magari?

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