Blog di Marco Castellani

Tag: Peter Gabriel

La musica del cosmo

Il testo di una canzone può essere letteratura? Ai tempi delle mie scuole medie (secolo scorso), le parole de La Guerra di Piero del grande Fabrizio De André (a proposito del quale Stefano Sandrelli ha recentemente dialogato con ChatGPT) con stupore le vidi comparire nel mio sussidiario, gomito a gomito con quelle di ben più blasonati poeti.

Immagine di Davide Calandrini – @davidecalandrini 

All’epoca avevo un po’ troppo forte addosso il senso di cultura come roba polverosa ed antica, ma mi parve buffo che una persona che ineriva al mondo vivo della canzone (un mondo che dialogava costantemente con le mie emozioni e i miei sentimenti, come fa anche adesso), potesse guadagnarsi un posto lì. La domanda mi segue fin da allora: ci stava bene quel testo nel sussidiario? Era il suo posto? Non ci provo nemmeno a rispondere: so che la domanda continuerebbe comunque a pungolarmi, di tanto in tanto… [Continua a leggere sul portale EduINAF]

Loading

Il ritmo della Luna

In fin dei conti il problema è questo, soprattutto. Che ci siamo progressivamente affrancati dai ritmi della terra, delle stagioni, del cosmo. Fino a costruirci una vita sintetica e appunto, artificiale, con delle scansioni temporali che sono fuori dal mondo, che ci straniscono e ci affaticano. Perché noi siamo nel mondo, siamo fatti di stelle, intrecciati di materia universale. I cicli del cosmo sono i cicli del nostro corpo, il ciclo stesso della fertilità femminile è in suggestivo accordo con il ciclo di rivoluzione della Luna attorno al nostro pianeta.

Ecco perché capisco bene quanto scrive il musicista Peter Gabriel nelle note che accompagnano l’uscita del brano Panopticom, primo dell’album i/o di prossima pubblicazione (traduco di seguito, in modo libero).

Alcuni brani di quelli di cui sto scrivendo per questa occasione, ruotano intorno all’idea che sembriamo incredibilmente capaci di distruggere il pianeta che ci ha dato alla luce e che se non troviamo il modo di riconnetterci alla natura e al mondo naturale perderemo moltissimo. Un modo semplice di realizzare una maggiore adesione a tutto questo è è guardare il cielo… ed osservare la Luna mi ha sempre portato qui.

Saranno infatti le fasi lunari anche a dare il ritmo alle uscite dei brani di questo nuovo attesissimo album, da parte di un musicista che insieme ai Genesis ha davvero scritto la storia del rock progressivo, per poi intraprendere una carriera solista caratterizzata da una grande originalità espressiva. Nello specifico, verrà resa pubblica una nuova canzone ad ogni plenilunio. Abbiamo già iniziato, appunto, con la canzone Panopticom, che è stata svelata in occasione della luna piena del giorno 6 gennaio 2023.

Per gli affezionati, un motivo ulteriore per attendere quei giorni in cui la Luna è massimamante presente – quasi invadente – nel nostro cielo. Per me astrofisico, estimatore dell’arte di Peter, un espediente che collega efficaciemente due miei universi affettivi, musica ed astronomia.

Loading

Posso grattarvi la schiena?

Oggi è stata la volta di And I’ll Scratch Yours. Che sarebbe, insomma, Vi gratterò la schiena. Ultimo disco di Peter Gabriel, appena uscito.
Cioè.
Come mi faceva notare mio figlio, non è proprio un disco di Peter Gabriel. Il fatto è questo: lui se ne esce con una serie di canzoni nelle quali… non avrebbe proprio fatto nulla! Niente altro che raccogliere e selezionare delle cover per i suoi brani più famosi. Non è da tutti uscire con un album… senza dover avere la preoccupazioni di scrivere una nota.
“Inquietante” fin dalla copertina… 😉
Così anche sul web leggo commenti di gente (giustamente?) un po’ indignata, del resto come accadeva con la prima parte del progetto, quell’iniziale Scratch my Back, quella sbarazzina proposta Grattami la Schiena in cui Peter si esercitava in cover di altri artisti. Gente che diceva e dice (giustamente?) ma quand’è che ti metti a fare nuove canzoni, Peter?
Diciamolo subito. Per me Peter Gabriel è uno che la musica la sa scrivere. E la sa scrivere molto bene. E soprattutto, scrive quella musica che io voglio ascoltare (il resto della musica non mi interessa). E’ uno che mi riesce ad inviare dei segnali davanti ai quali posso andare oltre la semplice percezione estetica di un bello: sono segnali che il mio cuore riconosce e interpreta come particolarmente appropriati e favorevoli a quella comprensione (direi) metafisica del cosmo così sfuggente a parole, così esulante da ogni articolazione verbale, e tuttavia così necessaria. Insomma, il potere dell’arte, possiamo dire. Quelle cose per cui uno – non si sa come – si sente più amico del mondo e di se stesso.
Con tutto ciò ero perplesso anch’io. Ennesima operazione commerciale? Furba trovata di un artista che vive della sua pur meritata fama senza però proporre qualcosa di suo?
L’ascolto dei preview in iTunes mi ha comunque convinto ad acquistarlo. C’era qualcosa… Stamattina l’ho portato alla prova del fuoco, l’ho fatto fluire negli auricolari dell’iPhone mentre correvo al parco. E mi sono deciso. Io amo questo disco. 
Intanto vi sono artisti del calibro di David Birne, Brian Eno, Lou Red, Paul Simon. Ma fosse solo questo, non sarebbe ancora abbastanza. 

La prima impressione è di sorpresa. Le canzoni sono molto diverse dall’originale, sono tutte molto ripensate. Eppure si sente una sorta di rispetto, non sono stravolte. Solo, assumono come un altro colore, risuonano secondo altri rapporti, altre suggestioni. Così pensavo, Peter è come i Beatles (affermazione importante, della quale mi assumo la responsabilità). In qualsiasi salsa lo presenti, è sempre bello. Ne evinco una cosa: il nucleo pulsante, il centro di interesse, è nascosto nella parte più intima della musica, non nell’arrangiamento. Come tale, viene preservato dalle nuove interpretazioni. Brilla, e continua a brillare.
Anzi queste nuove interpretazioni mi destano nuovo interesse. Come se lo stesso nucleo pulsante, illuminato da una luce nuova, potesse finalmente mostrare aspetti diversi, esporre zone finora rimaste in ombra. Facendomi capire che c’è di più, c’è più sugo da estrarre di quanto si poteva pensare nell’ascolto dell’originale.
Come sempre, è correndo che riesco ad ascoltare la musica con maggiore attenzione. Sospetto che sia per quello, che mettendo l’ego da parte – distraendolo con la fatica – io sia libero di attingere con più apertura ad ogni proposta artistica.
C’è come una dominante, nel disco. Mi sembra straordinariamente unitario, come clima musicale, considerato il fatto che è stato realizzato da artisti diversi. I suoni degli strumenti mi arrivano spesso come sgraziati, impastati nei rumori – eppure parlano, parlano di più che se fossero lisci e smussati. Mi fa pensare a com’è la pasta casareccia. E’ ruvida e imperfetta al tatto, ma raccoglie più sugo.
Poi c’è questo. Che dobbiamo entrare nel merito. Lo sappiamo: le canzoni di Peter parlano spesso di una disarmonia, di una distanza, di una estraneità. Come se molte volte dica, beh ragazzi qui c’è qualcosa che non va (perdonate la drastica semplificazione). E il suono di queste canzoni aderisce a questo, fino dalla scelta timbrica. Così ogni aspetto è in relazione all’altro.
Però è quel tipo di attitudine che invece di gravarmi addosso, mi libera. Come uno che abbia l’onestà di dire il suo imbarazzo nella percezione del mondo e dell’uomo così come ce la restituisce l’evo attuale – e fa quello che un artista deve fare: lo esprime.
Ed è per me più liberante più di un disco perfettamente impacchettato e superficialmente sereno (proiezione perfetta dei discorsi da nichilismo divertito di cui parlavo nel post su Lampedusa). Perché pesca nell’ambito delle cose ultime, le più importanti: musica bruckneriana, direi. Non cerca di di-vertirmi, di farmi evadere da me stesso. 
Così è il mistero dell’arte, la vera arte. Il disagio, l’estraneità, la stessa disperazione, vengono innervate di senso e restituite perché noi le si possa meglio elaborare. Consapevoli che ogni percorso di liberazione personale richiede un lavoro, una discesa verso il basso, una accettazione di ogni parte d’ombra.
E l’arte può essere funzionale a questo lavoro. Anzi, la vera arte, lo è sempre stata.

Loading

New Blood, due appunti

Mi sono deciso, alla fine. Sono due giorni che vengo al lavoro ascoltando New Blood, il disco dove Peter Gabriel ha scelto di incidere alcune sue celebri canzoni presentandole in chiave orchestrale.
Davanti a questo progetto sono abbastanza in bilico. Mi piace la musica sinfonica, adoro il tardo romanticismo e sono folle di amore e ammirazione per Gustav Mahler e per Anton Brucker. Per dire, insomma, che l’orchestra non mi spaventa.
Eppure per qualche motivo, rimango un pò interdetto. Faccio due premesse: una è che, nel panorama musicale odierno, ogni nota che esce da un disco come questo è comunque mirabile. La seconda, è che magari con ascolti ripetuti verrò a rivedere alcune mie impressioni (non ne sono certo, ma è possibile).
Certe rivisitazioni mi sembrano più riuscite. Ad esempio, la versione di Digging in the Dirt è proprio bella. L’orchestra ci sta bene, l’arrangiamento è veramente godibile. Non l’avrei detto, visto il tipo di canzone. Anche quel capolavoro sublime che è Darkness ne esce bene, proprio bene.
D’altra parte, Don’t Give Up ha questa Ane Brun alla voce, che (chiedo venia) mi fa gemere di nostalgia per la versione con la mia amata Kate Bush. Forse non ho colto la scelta interpretativa, ma questa voce tremula non mi riesce proprio a conquistare. Insomma, se dici Don’t Give Up, se esorti a non cedere, non è che puoi dirlo (penso io) con una voce che già sembra instabile di per sè. Devi essere esortativo, affermativo, ti ci devi buttare. 
Su Red Rain, lì crollo completamente. A metà brano mi assale una voglia irresistibile di ascoltare la versione originale, con lo stupendo crescendo ritmico di Jerry Marotta. Il problema è che mi manca troppo. Eccola.

Loading

Powered by WordPress & Theme by Anders Norén