Blog di Marco Castellani

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Toy Story 4, l’inesausta dinamica del dono

Giunti alla quarta tappa dell’avventura “cosmica” di Toy Story, mi sento di dire che il pericolo della stanchezza o della routine, sia stato egregiamente scongiurato. Se la chiamo cosmica, è solo perché  il meccanismo narrativo di Toy Story, fin dalla prima rivoluzionaria puntata, è imperniato su una idea semplice ma straordinaria, estremamente feconda. Quale poi sia, la sapete: in breve, i giocattoli sono vivi e hanno affetti, relazioni, connessioni come gli umani. Ma  sono anche attenti a non farsi  scoprire: in presenza di una persona, loro simulano il comportamento atteso da un giocattolo (inerte). Potremmo dire, in termini fisici: ad ogni misura restituiscono lo stesso profilo (che è quello che più ci aspettiamo).

Ma cosa avviene nel tempo che trascorre tra le misure? Cosa accade quando nessuno guarda? Questo non possiamo dirlo. In generale, non potremo mai dirlo. La realtà nella sua essenza si cela dietro un velo, e quel che ricostruiamo unendo le misure – come nel gioco ben noto di collegare i puntini – è sempre altamente arbitrario. Il modello non è mai il reale, e questo è un bene, perché il reale può essere sempre qualcosa di più.

Toy Story, fin dal primo episodio, ci propone un messaggio decisamente interessante, perché parla ad una parte del cuore sempre in ascolto, sempre in attesa: ci suggerisce che l’inferenza tutta positivistica di voler ridurre il mondo a qualcosa di già visto, già compreso è ultimamente e felicemente fallimentare, perché esiste un mondo, un universo, che fuoriesce con allegria dall’ansia di catalogare e comprendere “razionalmente” le cose. Un ambiente che straripa, brulica di invenzione e relazione. 
Woody con il nostro nuovo amico, Forky… (Crediti: sito ufficiale
Così, si capisce che una stanza di giochi non è appena una stanza di giochi: è di fatto anche la sede privilegiata per  mille emozioni, relazioni, rapporti affettivi, intrecci e soprattutto storie, mille storie che si generano continuamente, che rendono questi oggetti tutt’altro che inerti. Del resto i bambini già lo sanno, i giocattoli vivono. I rapporti con le cose sono più imprevedibili e profondi, più poliedrici e fecondi, rispetto all’approccio utilitaristico e consumistico di molta parte del nostro pensiero “moderno”.

E’ in fondo la riscoperta di un universo poetico, l’esplorazione di una nuova (e antichissima) dinamica dello stare nel mondo.


E ad essere precisi, ci lancia un secondo importante messaggio, strettamente connesso al primo: questo mondo non visto, è un mondo buono, positivo. Un mondo che opera per il bene. Difatti – e anche in questa occasione viene ribadito in modo molto chiaro – lo scopo ultimo di ogni giocattolo, la sua ragione di “vita”, è il benessere e la felicità del bambino cui appartiene. Nell’aderire intimamente a questo obiettivo – e nel conseguente sentirsi parte di una relazione di affetto – è la felicità stessa del giocattolo, il suo sentirsi realizzato.

Ci sono – è vero – conflitti e situazioni di tensione anche in questo mondo “parallelo”, non visto. Ma si risolvono sempre in bene e soprattutto, proprio in questo quarto pannello, si addolciscono ulteriormente, visto e considerato che (tranquilli, sarò generico per non rovinarvi del tutto la visione) non esiste nemmeno un vero cattivo, questa volta. 

E’ chiaro che nessuno si aspetta, tornando a casa dopo aver visto il film, che i giocattoli nella stanza dei propri bimbi si animino davvero. Eppure questa proposta, questo suggerimento di riformulazione del patto con il reale (ovvero, ammettere la possibilità che ci sia qualcosa che non controllo, che mi supera, che opera per il bene) rimane piacevolmente attaccato addosso, come una polverina magica che – a lasciarla depositare – inizia quel sano lavoro di contrasto e di scioglimento di un cinismo che troppo spesso ci lasciamo aderire addosso, quasi fosse l’inevitabile scotto del diventare adulti.

Forse non è così come quasi sempre ce la raccontiamo, forse c’è qualcosa che regge l’urto del tempo, qualche magia che non scolorisce nel diventare grandi, ci sembra dire l’intero progetto di Toy Story. Ma lo dice sommessamente, come un gioco: questo – a mio avviso – è il vero punto di valore. Non ci impegna con grandi discorsi, perché i grandi discorsi ormai non li sopportiamo più. Piuttosto, ci arriva di lato, sorpassa le nostre difese e ci aggancia a sorpresa, facendoci divertire e dunque predisponendo il terreno all’ascolto di una buona notizia, di qualcosa che si pone fuori dal tessuto percepito della vita ordinaria.

Perfino il tema abusatissimo dell’accoglienza del diverso, di chi sembrerebbe “da buttare” ed anzi inizialmente si vuole esso stesso buttare via, è affrontato in modo simpatico e per nulla retorico, con l’irriverente e scanzonata invenzione di Forky, un pupazzetto creato in quattro e quattr’otto dalla bimba all’asilo con materiale di scarto. E che, in barba a tutte le sue evidenti diversità, viene integrato nel gruppo da subito. Proprio in questa amichevole integrazione, ed in una paziente educazione alla quale viene sottoposto, impara a voler bene e a volersi bene.  

Nel complesso, questa quarta sezione (a questo punto, speriamo non l’ultima) mi sembra scorra bene, rispetti il paradigma di fruizione a vari livelli e dunque si presenti come uno spettacolo sufficientemente elaborato anche per gli adulti, sempre tenendo conto dei vincoli imposti da un approccio che deve coinvolgere persone in un ampio spettro di età. 
Ma se devo dire, di questa quarta parte mi colpisce soprattutto una cosa, l’accento sulla dinamica del dono. Il tema centrale, senza troppo anticipare la trama, mi pare proprio costruito su questa dinamica. E’ lei che vince, alla fine, anche sull’ipotesi iniziale, sulla scommessa di partenza di ottenere con forza quello che poi viene, con una fortunosa catena di eventi che portano anche alla maturazione dei protagonisti, ceduto come un dono. La rinuncia alla forza innesca irresistibilmente una relazione più profonda, tale che si volge verso il movimento del dare quell’esitazione a lasciare qualcosa di sé, che è pur naturalissima negli umani (e quindi, nei giocattoli). Ti consegno questo nella speranza che tu possa essere felice. Quello che di mio ti regalo, ti restituisce “voce” ovvero fa cantare la tua vera essenza, per la quale potrai finalmente essere amata. 
Alla fine della visione, ognuno è rilanciato nel fare i conti con l’ipotesi che la realtà sia più magica di quanto si è abituato a pensare. Per molti bambini, è un assunto normale. Per noi  adulti diventa il termine di una ripresa, di una ipotesi di lavoro (ritornare come bambini, per accedere alla verità delle cose, è un suggerimento autorevole innestato nel profondo della nostra storia). Ognuno è di fronte alla sua libertà, nel dare seguito a questa ipotesi, nel rilanciarla investendo la realtà del necessario lavoro di verifica, o abbandonarla. In ogni caso, la proposta c’è stata, delicata e persuasiva al tempo stesso. 

E forse, mi dico, non si può chiedere molto di più, ad un film.

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Ripartire dalle emozioni

Due cose mi vengono in mente, dopo aver assistito alla proiezione di Inside Out. Due cose diverse ma abbastanza congruenti, assolutamente compatibili. Una più generale, ed è posta alla  radice stessa – mi sembra – del percorso di realtà come Darsi Pace: quel “ripartiamo dalle emozioni” che segna tanto il primo paragrafo dell’omonimo testo di Marco Guzzi, quanto percorre in sottotraccia tutto l’arco di questa deliziosa pellicola. Ecco, ripartiamo dalle emozioni, e ripartiamo da tutte le emozioni. Senza censurare nulla. 
Così mi pare che il messaggio di Inside Out sia duplice, essenzialmente. Non solo ripartire dalle emozioni, ma anche, non escludere niente a priori. Tutto ha la sua funzione: perfino la tristezza. Addirittura la rabbia, serve, è utile. Senza voler svelare nulla, possiamo senz’altro dire che è piuttosto scoperto il ruolo che queste emozioni apparentemente “negative” (dalle quali fuggiamo in ogni modo, appena si può) rivestono nel cooperare affinché la gioia di vivere possa ritornare ad avere dimora stabile nella mente dell’uomo (della piccola Riley, in questo specifico caso). 
Rabbia, disgusto, gioia, paure e tristezza… tutto serve, se ben composto.
E’ vero che le emozioni non sono tutto. D’accordissimo. L’ideale sarebbe un interscambio virtuoso tra ragione ed emozione, un dialogo continuo ed amichevole che informi e guidi la percezione del mondo e le scelte conseguenti. E’ pur vero, però, che veniamo da un lungo periodo in cui, direi tristemente, si è posto molto l’accento sul razionalismo anche in molti processi conoscitivi e segnatamente scolastici. Identificando totalmente l’essere umano con la sua parte logica, raziocinante, spesso (con molte virtuose eccezioni…) trascurando o anche censurando la sua parte emotiva, si è proceduto – spesso senza intenzione – a produrre delle persone fragili, essenzialmente impaurite dal proprio oceano emotivo interiore, rimasto alla mercé di sé stesso, assolutamente ineducato.

Avverte Marco Guzzi, in apertura appunto del libro Darsi Pace, come “dal punto di vista emotivo la nostra umanità sembra sempre più fragile e infantile, sembriamo spesso inconsapevolmente posseduti da flussi emotivi, da passioni mai seriamente indagate, come diceva Jung, che possono diventare tempeste collettive quando si scaricano sui teatri ormai planetari della storia.”

Ben venga dunque un richiamo a riprendere familiarità con i nostri stati emotivi. A cercare di riprenderli, riabilitarne la dignità, comprendere come servono alla vita, alla vita vera. Un primo atto di riconciliazione con sé stessi, che è anche inevitabilmente un atto sociale e politico, nel senso che incide radicalmente nella percezione che abbiamo di noi e degli altri, e dunque inevitabilmente sui rapporti più risanati che diveniamo capaci di intrecciare.

Una seconda cosa che mi è tornata in mente, in relazione al film, è un passaggio della bella canzone Fango di Lorenzo Cherubini, “L’unico pericolo che sento veramente, è quello di non riuscire più a sentire niente…” Ecco. Questo nel film è palese, scoperto, manifesto. Il momento più terribile, direi quasi orribile, non è affatto uno di quelli nei quali la simpatica protagonista agisce dominata da una emozione magari “sgradevole” (rabbia, disgusto, paura, tristezza). Assolutamente no. E’ invece quello in cui lei stessa perde il contatto con le sue emozioni. Di qualsiasi tipo possano essere.

Scrive assai lucidamente Claudio Risé, in un articolo su Tempi, che ” …il guaio oggi non è lo strapotere delle emozioni, ma il fatto che non ci siano quasi più. Nessuno che prenda a pugni un tavolo come fa Rabbia (rosso, basso e inquartato, grande casinista), o che sia gioiosamente pazzoide come Gioia, radicalmente pessimista come Paura (che a un certo punto esclama: «Ottimo, oggi non siamo morti»), schifato come Disgusto davanti al broccolo, esausto e contagiosamente melanconico come Tristezza (che quando tocca un bel ricordo, lo rompe). Tutti neutri, beneducati, che non si capisce cosa pensino. Un vero guaio, anche per la psiche. Che senza emozioni si spegne.”

E’ quello il momento davvero pericoloso. E’ lì che si perdono i colori del vivere. Per il resto mi sono accorto che sono uscito con un senso di pace. Come se già riconoscere le emozioni, accettarle, fosse già una azione, una minima azione, terapeutica.

Riconoscere che la salute mentale è anche nel permettere l’avvicendarsi delle emozioni (senza “bloccare” per forza quelle che non ci aggradano) vuol dire essenzialmente volersi bene.  E’ l’inizio di una insurrezione benefica, un cammino nuovo di amicizia con la vita, dopo tanto freddo esercizio di logica. Eccole qui: rabbia, disgusto, tristezza, paura, gioia. Le prime quattro le bandiresti dal tuo orizzonte interno, potendo. Vorresti essere un uomo migliore, una donna perfetta: concederti queste passioni non è bene, non è adulto. Non si fa… Eppure sono proprio loro che  – in uno splendido gioco di squadra – renderanno possibile il ritorno della gioia nella vita di Riley.

Davvero tutto coopera a rendere colorata la vita, a vivere sempre intensamente il reale (per riprendere una bella frase di Luigi Giussani), se davvero niente si censura, nulla si esclude.

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