A volte sono le cose più minute che ti fermano. Anche un titolo. Sopratutto un titolo. Di solito dall’impasse non si esce pensando. Non si sbuca fuori a botte di riflessioni.
Come in tutto, del resto.
Più uno pensa ad un dato problema più ci si incarta dentro, usualmente: vi si incellofana ben bene. Le situazioni si stratificano, si crostificano, si congelano. Più uno pensa più perpetua la condizione presente, impedendo ad altre forze di entrare in campo. Forze che possono agire più efficacemente profittando del nostro abbandono. Abbandono: non certo nel nostro affannoso disaminare tutti i lati di una situazione, i pro e contro di una decisione.
Lasciare andare, lasciare scorrere. Permettere che qualcos’altro entri in campo. Togliersi dal posto di guida, mettersi a guardare la propria vita dal lato passeggero. Smettere di cercare di guidare, per un po’. Non ti impicciare più della tua vita che non sono affari tuoi cantava De Gregori molti anni fa, con felice intuizione
Sento che questo è vero anche ed in particolare per loro, per le cose dell’anima.
Tutte le volte che facciamo progetti per allontanarci dai disagi, puntualmente li rinforziamo. Pensare a una vita futura migliore di quella che stiamo vivendo, ci rende più incerti, fragili, impotenti. Si possono passare anni a compiangersi, a dirsi che il benessere verrà solo quando le cose cambieranno, quando le persone intorno a noi ci tratteranno meglio. Niente di più falso! Non è l’esterno a farci star male, ma il fatto che non ci affidiamo al nostro interno, che sa benissimo cosa fare per noi stessi e dove condurci.– Raffaele Morelli
Così le cose si sistemano e si allineano quando uno finalmente, stremato, lascia. Quando molla. Quando fa un passo indietro, e lascia agire, non pensa più di fare, stabilire, sistemare. Allora, solo allora l’imprevisto può entrare in campo.
E la vita ne sa più di noi, questo ce lo dimentichiamo sempre. La sorpresa viene oltre noi, in qualcosa che non abbiamo pensato. Nella forma che non abbiamo pensato.
Anche nelle piccole cose, lo vedo.Piccole: come in un titolo. Come nel titolo della raccolta di poesie e racconti che inizio ora a pubblicare su Wattpad. Stavolta voglio fare così: prima di tutto pubblicare piano piano le storie e le poesie online (alternate in capitoli pari e dispari), poi eventualmente ragionare sulla pubblicazione in volume.
Questo perché Wattpad mi intriga sufficientemente da suggerirmi questo approccio. E perché mi piace sperimentare, lo ammetto.
Ma il titolo. Appunto. Qualcosa a a che vedere con un parco, che è il vero centro gravitazionale di queste storie, e di queste poesie. Ma non mi soddisfaceva niente, niente di quello che pensavo. Forse appunto perché pensavo. Perché razionalizzavo. Perché – ultimamente – mi sforzavo.
Fino a che, l’altro giorno, accade. Sono nel letto. Mi giro, guardo il comodino. Vi sono appoggiati molti libri, che usualmente sopravvivono in uno splendido spreco di entropia: in breve, si va da Jung a Leopardi passando per le lezioni di fisica di Feymann. Lo stato dei libri varia a seconda dei carotaggi effettuati dagli umani (principalmente, da me). Come in un magna, vengono a volte in superficie strati rimasti per diverse ere geologiche a grandi profondità, e parimenti affondano elementi abituati da tempo alla superficie.
Ecco, poche ore prima c’era stato un tentativo (intrinsecamente semi-disperato, vista l’entità dello sforzo richiesto) di rimettere un po’ di ordine, che aveva provocavo qualche assestamento. Appunto.
Dicevamo. Mi giro, guardo il comodino. Ora c’è il libretto di poesie di una amica, Carla Cenci. Che ha guadagnato la superficie da poco, appunto. E che adesso mi guarda (intendo, il libro). Mi aspetta. Mi vuole dire qualcosa (ma io ancora non lo so). Lo guardo pigramente. Senza volere, mi faccio invadere passivamente dal titolo, Lo scombinio di un giorno molto verde.
… di un giorno molto verde….
Ecco. Un giorno molto verde.
Ma sì. Un giorno molto verde!
D’improvviso ogni cosa trova posto. E come è già accaduto per In pieno volo, il titolo stesso si sistema sul materiale scritto, lo vivifica, lo rende più appetibile, mi fa venire voglia di tornarci a lavorare. DI sistemarlo davvero.
Tutti segni che è quello giusto.
Carla non se ne avrà a male se le rubo tre quarti del suo titolo. Il fatto è che si adatta perfettamente. Sai quando provi mille vestiti e non te ne va bene uno? Troppo lungo, troppo stretto, basta, sono stufa, andiamo via… Poi qualcuno dice no aspetta prova questo E tu provi sfiduciata e stanca, proprio per dare fiducia alla tua amica e … BAM!
E’ perfetto.
Perfetto.
Come cucito intorno a te, su misura, proprio.
Allora il titolo è così, a posto. E’ un giorno, un giorno appena. Infatti. Vissuto attraverso tante storie, tanti scampoli di storie, che avvengono nelle case, negli ambienti che circondano il parco. Che si nutrono del suo verde, che vi si appoggiano. Che – inconsapevolmente – lo respirano.
E’ quel verde, scandito alle varie ore del giorno dai versi, che si introducono tra i vari racconti, quel verde. E’ lui il protagonista. Quel verde che dà un respiro in più, assicura un punto di fuga, una possibilità di respiro più ampio, più fondo. Una ultima cordiale amicizia, tra uomini. Che vivono. Che vivono perché – con tutta la loro sfavillante fragilità – la vivono.
E’ un progetto antico e nuovo.
Antico nella sua iniziale concezione. Nel tempo, arricchito, maturato. E’ passato un romanzo, delle poesie. Intanto ha respirato: ha respirato la stessa pazienza del parco, affondato nella terra il suo seme perché crescesse. E l’ora della sua maturazione si avvicinava. Ve lo dico: ogni volta che passavo nel parco – quasi ogni volta- mi tornava alla mente. Quando passavo vicino a quell balcone, che per me è quello di Carla (quadro secondo) sempre mi veniva in mente. Mi veniva in mente del progetto da terminare, da finire.
Ora viene piano piano alla luce, finalmente. E perciò stesso è nuovo.
Appena questo, la cronaca di un giorno molto verde.
E’ la sera di martedì 26, sono al Meeting. Dopo l’incontro tanto atteso – Davide Rondoni che legge le poesie di Mario Luzi – ancora piacevolmentecontaminato dalla bellezza intravista, ascoltata, respirata, raggiungo gli amici al ristorante. Si sono fermati lì a parlare, c’è anche una coppia di tedeschi. Il marito molto gentile si alza per pagarmi da bere, quando arrivo. Qualcuno lo dice, Ma lo sai che Marco scrive poesie? E poi la domanda si gira direttamente a me, la domanda prevedibile, ragionevole, conseguente, Ci fai leggere qualcosa?
Al di là del momento di imbarazzo (accipicchia: ho appena regalato l’ultima copia che mi ero portato dietro del mio libretto In pieno volo) questo mi fa pensare. Avere qualcosa di proprio, da mostrare, se serve. Avere qualcosa di proprio – soprattutto – da portare con sé. Se uno scrive le poesie è per questo, perché si installino come un ammortizzatore, tra te e il reale. Per levigare gli spigoli, per digerire le circostanze. Dopotutto non è troppo male portarsele appresso, queste poesie.
Ma nemmeno sul telefonino? Insiste l’amico, giustamente. No, veramente… e intanto penso che qualche modo tortuoso pur ci sarebbe: dopotutto le cose stanno su Dropbox, ma dovrei arrivare alla cartella giusta, vedere se riesco ad aprire il file pdf o World dall’iPhone, cercare poi una certa poesia dentro il documento… non certo una cosa immediata.
Corro il rischio che quando sono finalmente pronto se ne sono già andati tutti (e io perdo anche il passaggio in macchina verso l’albergo, cosa assolutamente disdicevole).
Vabbé: albergo a parte.
C’è qualcosa di più.
Perché in fondo scrivere, cos’è? E’ cercare di generare quelle parole (e sequenze di parole) che cerchi, e che non trovi altrove – o non trovi esattamente come cerchi. E quindi averne compagnia, con tutta le imperfezioni possibili, non è troppo sbagliato.
Le poesie soprattutto: quelle ti fanno davvero compagnia, ti lasciano sempre addosso – a rileggerle – un po’ di quel tentativo di dolce interpretazione del reale, che hai messo in atto quando le hai scritte. Così ne puoi spremere sempre un po’ di succo. E ti riscaldi nei passaggi che trovi riusciti, e non puoi evitare una punta di dolore per le parti che a tuo avviso sono ancora, in qualche modo, incompiute. Ma sempre ti coinvolgono.
Oppure può capitare, appunto, di avere una richiesta da soddisfare. E anche questo è onestà: rispondere di come si è. Sei scrittore se scrivi. E se sei scrittore è normale che ti chiedano. Rispondere alla vocazione, accoglierla: in fondo non ci è chiesto che questo. E non serve alcuna coerenza, alcuno sforzo sovrumano.
Serve solo questo, di volersi bene. Almeno un po’.
Perciò ho iniziato a riversare sul mio account Wattpad le mie poesie pubblicate: parto dal libretto “Anni diVersi”, perché è stato pubblicato ormai alcuni anni fa, e mi fa piacere ripercorrere ora quellepoesie, riguardarle e comprendere cosa è cambiato, cosa invece è rimasto come struttura costante immodificabile, come architettura portante della mia espressività.
Vabbé ma Wattpad cosa c’entra?
Senza andare sul tecnico (che c’è l’altro blog per questo) direi che questo Wattpad – che io ho scoperto da pochissimo, ma lui esiste da tempo – ha qualcosa, ha una fisionomia che mi piace abbastanza. Si può usare facilmente sia dal computer che da un tablet o perfino da un telefonino; c’è l’applicazione gratuita e funziona piuttosto bene, in verità. Riversando i testi su quella piattaforma, potrò disporne ovunque abbia la connessione.
Mi piace anche che ogni composizione si possa votare e commentare. Un pizzico di interattività non fa male. Mi piace che uno possa “seguire” il mio profilo ed essere avvisato ogni volta che aggiungo del materiale (sì, può accadere che uno sia così disturbato da voler fare ciò). Ho riversato su Wattpad anche le mie piccole storie su Giada, che a dire la verità sono ferme da un po’. Non mi dispiacerebbe proprio avere dei suggerimenti, delle indicazioni sui temi attorno a cui sviluppare le prossime puntate. Perché Wattpad, tra l’altro, si presta benissimo ad una pubblicazione periodica di una serie di episodi.
Beh, una cosa per volta. Anche diventare popolare su Wattpad (sì, sì, mi piacerebbe, non posso negarlo) non è cosa di un minuto. Per intanto, sto mettendo riparo al Ci fai leggere qualcosa… Siccome non giro mai senza qualcosa di elettronico appresso (lo so è quasi una patologia, ma ognuno ha le sue, del resto) siete avvisati che – da ora – se chiedete di sentire qualcosa di mio, potrete ascoltarlo davvero…
Ci voleva probabilmente questo. Rimanere fermi in autostrada. Un suocero, un cane, la moglie, due figlie (non in ordine di importanza). Tra Valle del Salto e Tornimparte, per la precisione. Nemmeno questo, nemmeno riuscire ad arrivare al casello, portarsi fuori dall’autostrada.
Per la cronaca, alla partenza tutto a posto. Però l’aghetto della temperatura dell’acqua, dopo un po’, inizia a muoversi spiacevolmente verso le alte temperature. Strano. Sarà il traffico. Allontanandosi da Roma le macchine si sgranano, si cammina più spediti. Bene. Mi aspetto che la temperatura si riallinei a valori più tranquillizzanti. E invece no. Che strano. Mi fermo e rabbocco acqua. Il benzinaio mi rassicura, mi dice di farla raffreddare un po’ e ripartire. Così va tranquillo fin dove deve arrivare.
Prendete nota. Non è sempre bene fidarsi di chi ti rassicura.
Infatti si riparte ma è soltanto, come si suol dire, l’inizio della fine. La situazione precipita, l’acqua bolle come in un pentolone per la pasta (ma la pasta non c’è, il sugo nemmeno), la spia dell’olio si accende pure lei, tanto per fare compagnia e partecipare alla festa.
Ok, calma. Tra poco siamo al casello. Si esce, ci si ferma, e si ragiona sul da farsi. Dieci chilometri, cinque… l’acqua scalda sempre più. Sudo freddo. Siamo al collasso. Un beeeep beeeep mai sentito prima a bordo, segnala che l’automobile – o la sua parte elettronica – giudica inaccettabile proseguire in queste condizioni, e spegne tutto.
Faccio appena in tempo a mettermi in corsia d’emergenza.
Vi risparmio il seguito. Carro attrezzi, officina, prospettiva di costi esorbitanti, rientro tramite pronto (e generoso) soccorso del cognato. D’altra parte, è una cosa che capita a molti. Peraltro, non è questo che mi preme di raccontare.
E’ quello che è capitato dopo. Il giorno dopo.
E’ domenica. Mi ritrovo inaspettatamente a casa (quando avrei dovuto essere in montagna). Mi ritrovo inaspettatamente senza un programma di cose da fare. Se il mio umore già il giorno prima non era dei migliori (per varie vicende), quel giorno è a pezzi. Quello che mi preoccupa di più è che non ho nemmeno un fondo di voglia di reagire. Sai quando ti ritrovi a pensare ci mancava solo questa e se uno ti dicesse ma che altro c’è che va male? tu sei pieno di eccezioni e rimproveri verso questo e quello ma in fondo sai che è il tuo atteggiamento che è sbagliato. Dopotutto il guasto ad una macchina non è la fine del mondo. E non si è fatto male nessuno.
D’accordo. Ma sono a terra, comunque. A torto o ragione è così. Lungi dal volare alto, sono a terra.
Volare alto. Volare.
Got to get your finest out …
Mi ricordo che c’è un progetto pronto al 99% dentro al MacBook. Al 99%, proprio il momento in cui è più difficile completare, c’è sempre il demonietto bizzarro che ti dice ma non ti esporre, non vale la pena, perché rischiare, se poi non piace…
Chi scrive lo sa. Chi è artista in qualsiasi modo lo sa. La maledetta paura di esporsi, di svelarsi, di sentirsi dire appena un non mi piace.
Che poi è strano. Almeno per me. Mille mi piace molto non riescono a temperare lo sbigottimento doloroso che provo davanti ad un solo non mi piace. Orgoglio? Probabilmente. Sta di fatto, come ho detto anche alla psicologa varie volte, i complimenti li prendo e metto via, li depotenzio abilmente, con qualche pretesto (mi vuole bene, lo dice per compiacermi, etc…), le critiche – legittimissime, per carità – mi colpiscono e mi affondano come quei cacciatorpedinieri a battaglia navale: non so se avete presente, una volte indovinate due caselle, il resto è inesorabile, come l’inabissarsi.
Ma sto divagando. C’è quel progetto fermo in dirittura d’arrivo. Mancherebbe pochissimo, verificare il file, la copertina, fare il volume e farsi mandare la prova di stampa. Ci siamo, Marco, ci siamo. Non puoi mollare ora. Non puoi abbandonare. E’ solo orgoglio, abbandonare.
Riconoscere i limiti di ciò che facciamo, senza abbandonare stizziti il gioco, significa maturare. Questa è la vera umiltà: tornare ogni giorno sull’opera, perfezionarla, invece di disperarsi perché non è già perfetta.
Marco Guzzi
Allora, inizio.
Mi rimetto all’opera. Dove manca la convinzione, c’è la paura. La paura del senso di nonsenso che arriverebbe inesorabilmente nel rinunciare. Che poi va così. Superata la paura, fatto quel fatidico salto, poi le cose si riallineano. Stai facendo quello che ti piace, Marco, quello a cui ti senti chiamato, e questo sistema tante cose. Sì, perché non ti opponi al flusso, non fai inutile resistenza.
Smetti di pensare, di sollevare eccezioni. Fai quello che devi. E la ricompensa psicologica è immediata.
Ti senti meglio. Davvero meglio (e non hai assunto psicofarmaci, come valore aggiunto).
Non sei più in panne. Puoi ripartire. Piano, senza strappi, senza esagerare. Ma riparti.
Vedi, stai viaggiando. Piano piano potrai pensare anche di alzarti in volo. In pieno volo.
E ti accorgi che lavori tutta la mattinata. E non ti pesa. Così il volume di poesia è pronto. Fatto, sistemato il testo. Trovata la copertina. Ordinato.
La domenica è salva, io mi sento un po’ meglio.
La verità è così sfacciatamente semplice, che io non la voglio mai vedere (perché ci sguazziamo così bene nelle complicazioni?). Se non scrivo non sto bene. Punto. Lo so e non lo voglio sapere. Fosse per me, per la mia endemica insicurezza, scriverei solo dopo avere avuto certificazioni in carta bollata che sono proprio bravo. Non procederei senza le debite autorizzazioni, gli indispensabili permessi. Con il nulla osta di un qualche autorevole comitato.
Ma è così, c’è poco da ricamare. Non posso decidere. Devo saltare.
Così per quella domenica è come se fossi passato vicino ad un abisso di desolazione, e l’avessi scansato per un pelo. Non male come risultato.
E non è tutto qui. Perché dopo qualche giorno, quando inaspettato arriva il pacchettino con il libro, è una soddisfazione profonda dolce e indescrivibile. Toccarlo, aprirlo, leggere. Vedere che sono riuscito a dire quello che volevo dire, riconoscere che (almeno in qualche parte) sì, ci sono riuscito. Quello che rischiava di rimanere per sempre dentro di me è affiorato, ha preso dimora sulla pagina. E non ha perso i suoi colori, ancora li trattiene.
Questo è commovente, è delizioso, è un bagno di fiducia. Questo fa gioire il cuore.
Così ora è a voi, se vorrete. Io sono sollevato. E’ come se avessi fatto una strada difficilissima e avessi corso il rischio di fermarmi mille volte. Con tutte le spie accese. E il motore in panne, che sbuffa e fuma. Ma è anche come se, quasi miracolosamente, fossi riuscito a ripartire. Prima a camminare, poi a correre. A volte, per qualche attimo almeno, a spiccare il volo. A trovarmi, appunto, in pieno volo.