Blog di Marco Castellani

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Venticinque anni fa

L’oscurità dello spazio profondo e l’orizzonte terrestre, sullo sfondo della foto. Davanti, i moduli Unity costruiti in Russia (sinistra) e negli Stati Uniti (destra), dopo poco dopo aver lasciato la stiva di Endeavour. Era il dicembre del 1998. Era l’inizio dell’avventura chiamata Stazione Spaziale Internazionale. Era l’inizio, appunto: tutto il resto si sarebbe assemblato, con il tempo, attorno a questo nucleo essenziale.

L’inizio della Stazione Spaziale Internazionale
Crediti: NASA

I componenti dell’attuale stazione spaziale sono stati costruiti in vari paesi del mondo, con ogni pezzo che viene portato nello spazio e collegato agli altri da complessi sistemi di robotica e dall’abnegazione di umani protetti da tute spaziali: una testimonianza di un affiatato lavoro di squadra e di una grande coordinazione tra persone e tecnologie di varie culture.

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Dalle bombe alle urne

Allora, cerco di mettere insieme le cose, per come le vedo e le capisco io. Il primo dato che rilevo è che una questione di interesse primario, come la guerra in Ucraina – ovvero in Europa – che considero un tema prioritario (sopratutto adesso che si fa più insistente lo spettro del ricorso alle armi nucleari) sia rimasto assolutamente nello sfondo, in questa affrettata campagna elettorale. 

A mio avviso invece la questione è così importante che dovrebbe essere centrale nel dibattito politico attuale, e soprattutto in vista delle elezioni. Non basta più l’informazione di propaganda dei telegiornali, è necessaria una riflessione personale. Condivido con lo scrittore Enrico Macioci il senso della gravità di questo momento, una gravità che passa stranamente sotto silenzio, mentre grande rilievo viene dato all’aumento delle bollette o della benzina (evitando al contempo una seria riflessione sulle origini di tali aumenti).

Il baratro ci sta davanti. E’ così profondo, e così senza ritorno, che non servirebbe nemmeno avere delle ragioni valide e sensate (che pure ci sono, e in abbondanza) per smettere di scivolare verso il suo bordo; il rischio stesso di cascarci dentro basta e avanza a stoppare ogni tattica, ogni ragionamento, ogni ipotesi, ogni ideologia e, dirò di più, persino ogni ideale. E’ in gioco, per la prima volta dal Neolitico, il destino della nostra specie. Non ti metti a filosofare mentre il conto alla rovescia di una bomba ti rintocca sotto le chiappe, giusto? Se mi sbaglio, sarò il più felice degli uomini. Se non mi sbaglio, non ci saranno più classifiche di felicità, né d’altro.

Non dovrebbe essere necessario dirlo, ma sono ovviamente contrario all’invasione Russa dell’Ucraina, sensa tentennamenti. Pare legittimo ritenere che la NATO abbia in effetti “abbaiato alle porte della Russia”, se mi è lecito estrapolare una frase del Pontefice che certo – per essere onesti – andrebbe letta nel contesto di un discorso più ampio e non banalizzata.

Questo abbaiare non muta il mio giudizio chiaro e contrario all’invasione militare. Stabilito questo, vado oltre.

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Una nuova politica?

Io di politica non ci capisco nulla, questa va acquisita come tacita premessa ad ogni considerazione che azzardo sul tema. Ciò detto, mi sembra di assistere, in questi giorni, al consueto teatrino elettorale di sempre, in uno scenario dove quello che colpisce per la sua mancanza, è una sostanziale novità.

Viviamo un tempo accelerato – del cosmo e della storia – ma certe macchine e certe procedure paiono splendidamente inossidabili, in spregio dell’Universo che si muove, che si mostra in modi inediti proprio in questi tempi, che ci chiama ad un nuovo modo di esistere, di pensare, di soffrire ed amare.

In tutto questo, quali sono i temi “forti” di questa campagna elettorale? Se da una parte si pone l’accento su lavoro ed ambiente e diritti (come esattamente nell’ultima tornata elettorale, nel 2018), dall’altra si ritorna a mettere in circolo le consuete parole d’ordina sulla sicurezza, sulla “minaccia” dei migranti, sulla difesa del territorio e dei confini, eccetera. Insomma, niente di veramente nuovo, niente di diverso da prima. Tutto elegantemente svincolato da una seria analisi empirica di quel che si è fatto o non fatto.

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Godere delle differenze

Tutto fuorché immediato, bisogna dire. Siamo ormai molto abituati a temere le differenze, a difenderci, a prendere le distanze, a rannicchiarci nella nostra “bolla”.

Ormai va così. Da tempo. Ma solo con l’emergenza COVID è diventato veramente chiaro, si è palesato con trasparenza sconvolgente. Adesso è davvero sotto i nostri occhi.

Le architetture informatiche ci permettono qualcosa che ci è sempre stato impossibile, a questo livello. Possiamo ormai soggiornare nella nostra “bolla” e compiacerci in essa, trovare quella risonanza che ci è necessaria quasi come una droga, uno stimolante quotidiano. Quella, esattamente, che tampona la nostra essenziale, costitutiva insicurezza. Ci blindiamo progressivamente in un ambito dove non abbiamo più sorprese, dove dimoriamo al riparo dalle contraddizioni, dove otteniamo solo conferme.

Uscire dalla bolla, almeno ogni tanto?
Più gli algoritmi si perfezionano, più diventa difficile… 

Che io stia dimorando dentro una realtà modificata lo comprendo ancora facilmente se sbuco fuori un attimo dalla mia bolla: sì, quella che ho costituito pian piano, scegliendo chi seguire e abbandonando senza troppi problemi, chi la pensa in modo diverso da me. Molto praticamente, se cerco un argomento e leggo i messaggi relativi (cioè non solo quelli di chi seguo) mi ritrovo di colpo dentro un panorama parecchio diverso. Un botto di gente che la pensa diversamente da me, spunta fuori all’improvviso. Ma come, non eravamo tutti d’accordo su una serie di temi fondamentali comprendenti la vita, l’universo e tutto quanto? E questi qui da dove spuntano, adesso? No, adesso capisco. Il fatto è che ho messo il naso fuori dalla mia bolla. E là fuori c’è tutto un mondo di gente che ha opinioni diverse, a vario grado. Potrei dire elegantemente che questo mi fa piacere, che posso crescere e confrontarmi, educarmi nel rispetto, e cose di questo genere (avete capito il filone narrativo).Queste sono le bolle informatiche (o anche dette più pomposamente bolle di filtraggio) così tipiche della nostra epoca. Ma è chiaro, fa piacere a tutti. Io vi sono dentro, con tutte le scarpe. Prendiamo Twitter, ad esempio. Più lo uso e più mi compiaccio di quanto le mie idee siano condivise, siano anche degli altri, di come si sia praticamente tutti d’accordo. Ma tutti chi? Istintivamente risponderei, tutti quelli che hanno capito.

Ma chi prendo in giro? Non è affatto così.

A me, a livello immediato, incontrare opinioni differenti reca solo fastidio. Come fa questo a non avere ancora capito? Le cose stanno in ben altro modo! Così mi viene da pensare. Morale, non è per niente facile apprezzare davvero le differenze. Anzi. E tantomeno riuscire davvero a goderne.

Pensiamo solo a tutte le polemiche sul Green Pass, fiorite in queste settimane. Non barate: non vi siete polarizzati sempre di più anche voi, in misura proporzionale al tempo passato sui social? E del resto, avete tutte le ragioni, per comportarvi così (e io pure, ovviamente). Il fatto è che questi qui non vogliono proprio capire, allora devo dirlo ancora più chiaro, devo abbandonare le sfumature per cantargliela chiaro e tondo, capiranno finalmente che questo Green Pass è.. (a questo punto potete mettere, a seconda del vostro orientamento, frasi come “una misura totalmente anticostituzionale e liberticida” oppure “l’unico sistema per uscire da questa pandemia, evitando altre chiusure” e variazioni su questi due temi).

Ed ecco tutta la scomoda verità. Ci piace scontrarci, definirci per opposizione, denigrare quelli che non la pensano come noi. E non basta dirlo, non basta accorgersene, per uscirne fuori. Lo vedo su me stesso. Anche io che adesso scrivo queste righe, se poi rientro su Facebook, mi polarizzo subito. Ah ma come fa questo qui a sostenere queste assurdità sul Green Pass? Non vuole proprio capire o è in malafede, ora glielo spiego bene io, lo asfalto con in bel commento così lo lascio senza parole…

Io sono così. Non so voi. E se a volte non lo scrivo, quel commento, è perché sono anche permaloso e mi innervosisco se mi rispondono (di solito infatti non accade che l’antagonista rimanga senza parole o rinunci alla possibilità di usarle), non certo perché nel frattempo io sia salito ad un livello di conoscenza superiore.

Insomma tutto tranne che godere delle differenze. Ma poi, goderne davvero, ma come si può sostenere? Chi lo dice? Le differenze al massimo si possono tollerare (e per un tempo limitato), che altro di più?

Il fatto è che non siamo, fatemi dire così, “abbastanza buddisti”. Nel senso di aver assimilato certi concetti benefici, cari alla tradizione orientale. Non gestiamo bene l’incertezza, ad esempio. Dice Pema Chodron, nel suo Vivi nella bellezza, che

la causa della nostra sofferenza non è l’impermanenza in sé, e neppure la consapevolezza che siamo destinati a morire: è invece la resistenza che opponiamo alla fondamentale incertezza della nostra situazione.

E per contrasto, diventiamo interiormente fondamentalisti (evidentissimo nelle discussioni su Facebook, come sanno i monaci più tecnologici).

La radice di queste tendenze fondamentaliste e dogmatiche è il fatto di avere un’identità fissa, il concetto fisso che abbiamo di noi stessi come buoni o cattivi, degni o indegni, questo o quello. Un’identità fissa ci costringe a darci da fare per cercare di risistemare la realtà, che naturalmente non può essere sempre conforme alla nostra visione.

Tanati, eh? E la monaca buddista poi rincara la dose, poco più avanti (i monaci buddisti – ed anche quelli cattolici – essendo gente che perlopiù prende la vita molto sul serio, sanno anche dirti le cose in faccia se serve)

Spesso consideriamo le persone che non ci piacciono come nemici, ma di fatto costoro sono estremamente importanti per noi: sono i nostri più grandi maestri, messaggeri speciali che appaiono proprio nel momento in cui ne abbiamo bisogno per mettere in discussione la nostra identità fissa.

Dobbiamo avere una idea su tutto, non sopportiamo di non sapere, e di ammetterlo (sia chiaro, se dico queste cose con grande facilità, è solo perché mi basta dare uno sguardo veloce dentro me stesso).

Dovremmo fare come gli alberi, per esempio. O come un cane, un gatto. Imparare da loro. Che non fanno – anche se cani e gatti sono pur sempre animali – i leoni da tastiera, impelagandosi in discussioni eterne sul Green Pass, riverberando così nella polemica più rutilante il proprio vuoto interiore. Dice Chandra Candiani, nel suo ultimo (bellissimo) libro Questo immenso non sapere, che

gli animali e gli alberi insegnano a non sapere, a tollerare di stare al mondo senza l’ossessione di capire. La loro assenza di controllo mi pare renda il loro mondo non più minuscolo, ma anzi vastissimo, misterioso.

E non è che tutta questa saggezza la portiamo con noi quando ci sfoghiamo su Facebook o quando prendiamo in giro qualcuno su Twitter (io almeno, non proprio).

Ma arrivare a godere delle differenze? Dicevo, chi usa temerariamente questo termine, godere, alquanto impegnativo?

Leggevo sulla rivista Tracce di settembre, una bella intervista a Timothy Radcliffe, scrittore e teologo domenicano. Ad un certo punto lui dice, testualmente (i grassetti sono miei)

La nostra società ha generalmente paura della differenza. Gli algoritmi di Google ci indirizzano verso persone con cui concordiamo, e questo può rinchiuderci in silos, in bolle. Godere della differenza è l’essenza del cattolicesimo. Abbiamo quattro Vangeli nel Nuovo Testamento, e non coincidono su tutto! Il dialogo tra loro ci spinge verso una maggiore comprensione. Di fronte alle differenze nella società e nella Chiesa non si rimane neutrali, né si accettano alla pari tutti i punti di vista. Sarebbe una posizione noiosa e vuota. Al contrario io credo che coloro con cui sono in disaccordo abbiano qualche verità da insegnarmi che potrebbe spalancare la mia mente.

Da qui ho preso il termine godere che ho messo fin nel titolo di questo post. Mi colpisce molto l’ardire che ha, nel non fermarsi al sopportare o apprezzare le differenze, ma si butta sul godere.

Quindi, è una cosa anche cattolica, diciamo. Possiamo allora tranquillamente affermare che non solo non siamo “abbastanza buddisti”, ma nemmeno “abbastanza cattolici”.

Insomma le grandi tradizioni – quelle che sopravvivono ai secoli – ce lo dicono molto chiaramente, ce lo dicono in faccia. Ora sta a noi operare per usare ciò che accade per ammorbidirci (che non vuol dire affatto sbiadirsi in un buonismo insapore e sempre a buon mercato, ma fare un lavoro su di sé) o per radicalizzarci.

Chiariamo. Non è questione di essere migliori o – per carità! – più saggi (mai più saggezza, mai più, cantava lucidamente Ivano Fossati), ma della possibilità di diventare un poco più felici e consapevoli. Una cosa – questa – che ci può interessare davvero. E che rimane interessante anche per loro, per le persone fuori dalla nostra bolla.

Cioè, tradotto, per quelli che sbagliano, state pensando, vero? Eh sì, bisogna anche avere pazienza. Prima di tutto verso sé stessi. D’altronde, godere delle differenze non è,credo, un tutto e subito. Ma un lavoro da artigiani, in cui perfezionarsi poco a poco.

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Scorrimento verticale

Dalla scienza possiamo certamente imparare, e anche ben oltre la sua area di azioni, la sua ampiezza legittima di intervento. Imparare cioè, non solo come si comporta il mondo fisico, ma fare nostra l’attitudine che la scienza stessa richiede, per il processo di scoperta. In realtà (mio umile parere) è ciò che la fa davvero interessante. E non solo per gli scienziati o gli appassionati, ma per tutti.

Per professione indago il cielo secondo il metodo scientifico, che molti secoli fa un certo Galileo Galilei mise a punto, consegnandoci uno strumento formidabile, flessibile abbastanza da costituire un ottimo framework per gli scienziati attuali. Che ancora (nonostante tutti gli sforzi) migliore non ce n’è. E sì, dichiararsi “astrofisico” fa ancora effetto, nonostante tutto. Insomma, esiste una magia della volta celeste, magia che viene percepita da donne e uomini anche lontanissimi dalle questioni di scienza. Un tesoro di potenziale attenzione e passione che non va assolutamente disperso. Va amorevolmente custodito e incentivato, quando possibile.

Tornando al tema: una cosa nella quale lo studio delle stelle mi sfida continuamente, è la gestione della complessità. Mi pare qualcosa di molto moderno, molto contemporaneo. Credo vi sia qui un vero messaggio che noi scienziati dobbiamo prima far nostro, sopportando tutta la fatica del caso (siamo donne e uomini anche noi, con la nostra buona parte di inerzia mentale), per poi lasciar fluire fuori. Semplicemente, è un messaggio troppo importante perché rimanga confinato in un ambito ristretto.

A Galileo “bastava” puntare il cannocchiale al cielo, 
registrando quanto vedeva… 

L’astrofisica (come molte altre discipline) è davvero costretta ad abbracciarla questa scomoda complessità, a farci casa. Penso al caso di Gaia, tanto per rimanere su qualcosa a me familiare. Un telescopio (bel progetto dell’Agenzia Spaziale Europea) in orbita alta – a un milione e mezzo di chilometri da Terra – che ci ha già permesso di costruire un catalogo di quasi due miliardi di stelle (impresa senza precedenti). In fondo è l’analogo moderno di quello che ha fatto Galileo, puntando il cannocchiale verso la volta celeste. La prosecuzione esatta del suo stesso lavoro, per quanto la tecnica rende oggi possibile. Non c’è alcuno scarto, è un cammino naturale che da Galileo porta a Gaia. Ma se per Galileo (con il dovuto rispetto) le cose erano abbastanza semplici, per Gaia appaiono un tantino più complesse.

Il percorso alquanto complesso che deve attraversare una singola “misura” di Gaia, dall’osservazione in avanti,  prima di poter entrare nell’archivio. Crediti: ESA website


Così stanno le cose. Esiste ormai una complessità irriducibile che va inevitabilmente affrontata, per estrarre un solo dato scientificamente valido. Una complessità che si articola ad ogni livello: da quello dello strumento di indagine utilizzato a quello intrinseco del campo che si vuole indagare. Del resto leggiamo la natura ad un livello sempre più elevato di finezza, e questo è sempre più sfidante, tanto a livello teorico quanto a livello tecnico. Praticare la vera scienza (non la pseudoscienza e i suoi derivati) rappresenta – oggi più che mai – un allenamento preziosissimo a gestire il pensiero complesso.

Questo mi sembra di capire: l’Universo risulta tanto complesso quanto noi “sopportiamo” che sia, momento per momento. Dal cielo delle stelle fisse, dal modello stazionario in avanti, fino ad affacciarsi alla prospettiva tipica della nostra epoca, di un cosmo in espansione accelerata in cui avvengono continuamente ogni sorta di fenomeni di differente energie e su diverse scale spaziali, con una varietà che davvero pare non avere fine. Progettare e realizzare strumenti di indagine più evoluti equivale – di fatto – ad abilitarsi a ricevere un segnale più sofisticato dal cosmo, che verifica o smentisce le teorie attuali e allo stesso tempo invita a salire ad un livello più alto di complessità, ad intraprendere un dialogo con il mondo naturale su un parametro nuovo di finezza, potremmo dire. E non c’è indicazione, per ora, che questa progressione continua, questo dialogo su livelli sempre più fini, possa avere un termine, possa trovare un confine.

Cavoli. Il pensiero complesso è una sfida continua. Qualcosa che non è facile da sostenere per molto tempo, per chiunque. La tentazione di individuare scorciatoie interpretative – tanto di un fenomeno fisico quanto di una problematica sociale – è sempre in agguato. Le pseudoscienze spesso si sviluppano proprio dietro un’idea interpretativa molto semplice, che rassicura e fornisce un apparente riparo contro un grado di complessità che spaventa, in quanto difficile da padroneggiare.

Perché il punto è questo: si tratta di praticare un atto di umiltà, introdursi in un mondo che non possiamo dominare nemmeno in senso dialettico, su cui non possiamo esercitare alcun tipo di potenza o prepotenza. Un mondo che non ci appartiene, ma esonda continuamente dalla nostra misura, ci indica sempre altro, ci spinge a decentrarci continuamente (in analogia stretta a come siamo decentrati cosmologicamente). E questo non sempre fa piacere, non appare normalmente agevole.

Nel dialogo su temi sociali e politici adottiamo spesso degli schemi interpretativi, dei filtri che semplificano il reale e sembrano (finalmente) ordinarlo secondo parametri che possiamo ben controllare. Anche qui, infatti, la complessità ci spaventa. Accidenti, non sappiamo proprio come affrontarla. Ci piacerebbe trovare uno schema che – come un grande magnete in un campo di limatura di ferro – orienti tutto verso una certa polarità, ci dia la confortante sensazione di avere la chiave di interpretazione di quello che accade. Ed anche – perché no – il brivido sottile di “avere capito cosa c’è sotto”, che risulta enormemente gratificante per l’ego.

Peccato che tutto questo avvenga ad un prezzo. Ed è che la ipersemplificazione del reale porta spesso a costruire tesi che rischiano – a dispetto della loro attraente sobrietà concettuale – di non essere affatto incisive sul mondo. Poiché infatti risentono di una forte attitudine ideologica, non sono abbastanza docili ai fatti, alla loro continua mutevolezza, alla loro connaturata impermanenza.

Qualche piccolo esempio. Uno schema (che andava di moda alcuni anni fa, più che ora) è interpretare il conflitto sociale come semplice lotta tra le classi, porta ad una indebita semplificazione riducendo drammaticamente i parametri in esame, fornendo magari risposte per ogni occasione, ma risposte “di plastica” che inevitabilmente risentono della povertà dell’analisi, e come tali si dimostrano insufficienti per ogni azione pratica, anche infarcita di abnegazione e buona volontà.

Un altro schema è quello (decisamente di maggiore attualità) che rintraccia nell’azione più o meno occulta di determinati “poteri forti”, votati alla loro autoconservazione e al loro ampliamento, la spiegazione di una larga serie di dinamiche politiche e sociali. In particolare, tutti sappiamo come pullulino interpretazioni “alternative” dell’attuale emergenza sanitaria che più o meno pesantemente attingono alla nozione di Big Farma, come entità sovranazionale capace di stravolgere e determinare le politiche sanitarie, che sarebbero così ultimamente guidate da criteri di profitto e non da considerazioni di salute pubblica.

Certo, nemmeno qui è lecito semplificare. I poteri forti esistono, non è in questione. Agglomerati di interessi si conoscono e si incontrano quasi spontaneamente, individuando strade per custodire e rilanciare gli interessi comuni. Sono uno dei fattori in gioco. Non certo l’unico, però. Ricorrere a questi come “motore ultimo” di tutto quanto accade, è probabilmente semplicistico.

Il tratto caratteristico di questi schemi di massima, mi pare, è la refrattarietà all’analisi paziente dei particolari, alla rilevazione della “grana fine” che ogni porzione di realtà custodisce e può esporre, come dicevamo, se adeguatamente interrogata. Manca la voglia e la pazienza di analizzare diligentemente il mosaico: al contrario, si pretende di giungere subito ad un momento di sintesi, che permetta di descrivere tutto con ridotto contenuto informativo, in un modo che sia facile da assimilare e propagare.

Non mi interessa arrivare ad alcun punto, che non sia questo richiamo a rispettare la complessità di un fenomeno, di un avvenimento, di una emergenza, della gestione di una pandemia (quello che volete). L’informazione complessa spaventa, annoia. Vorremmo avere tutti delle facili chiavi interpretative, ridurre tutto a pochi byte di informazione, perfettamente portatili, perfettamente spendibili sui social. La banalizzazione e l’estremizzazione di un punto di vista lo spogliano della sua intrinseca rete di articolazioni e lo mutano in una piccola capsula, perfettamente rilanciabile e pronto per i vari like, i plausi, le manifestazioni prefabbricate di indignazione, l’esecrazione spicciola manifestata in pochi secondi. Prima di passare ad altro.

Ha ragione Samuele Bersani, siamo ormai tutti campioni nazionali di scorrimento verticale e anche se sappiamo che questo non ci aiuta a capire, alla fine non ci interessa. Ci piace troppo, farci catturare da emozioni semplici, comprensibili, elementari. Facilmente condivisibili, spendibili su Internet.

Sono appena uno scienziato, non mi voglio improvvisare sociologo, predicatore, analista del costume. Come scienziato mi limito a questa “semplice” osservazione: gestire propriamente la complessità, acconsentire a che ogni fenomeno sia interpretabile a prezzo di una fatica nel vagliare il grado di compresenza di differenti narrazioni, non è immediato, non ci viene facile. A me, almeno, non viene per niente facile: d’istinto vorrei ridurre ogni problema alla mia interpretazione, riducendo i gradi di libertà del fenomeno e innalzando alte mure contro ogni diversa visione (perché lo confesso, alla fine tutte queste opinioni differenti dalla mia, mi danno fastidio).

Il fatto è questo: posso certamente farlo, posso anche guadagnare diversi like e perfino prosperare nella mia bolla informatica, ma perdo mordente nel comprendere il reale (e qui praticare un po’ di vera scienza, aiuta a capirlo). Se è questa comprensione che cerco autenticamente, forse devo mettere in conto la fatica di una analisi, che riparta ogni mattina da un onesto lavoro di scavo, di indagine paziente.

Rifuggendo le semplificazioni: comode, ma fallaci.

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Panem et circenses (et Green Pass)

Fa bello iniziare con una citazione latina, anche se l’ho (ri)scoperta adesso: “il popolo due sole cose ansiosamente desidera, pane e giochi circensi” annota assai acutamente il poeta latino Giovenale. E questo direi che c’entra con il Green Pass. Eccome se c’entra.

Perché leggo da molte parti (con il solito bias che fanno molto più rumore quelli che sono in disaccordo con qualcosa, ovviamente) che tale Green Pass sia una operazione sostanzialmente liberticida, imposta dal Governo sopra le nostre libertà costituzionali e via così (sapete già la storia).

Ora qui non vorrei indulgere in torti e ragioni, non vorrei nemmeno impelagarmi in temi “alti” come le connessioni della libertà individuale con il senso del bene comune – se poi sia veramente il bene – e simili narrazioni. Anche perché sono ampiamente dibattute sulla Grande Rete, con tanto di autorevoli prese di posizione.

Qui, voglio semplicemente fermarmi ad una domanda. Anche questa la prendo dai latini, sempre per fare bella figura. Cui prodest? A chi giova tutto questo? Chi ha l’ansia di limitare le nostre libertà fondamentali, e che ne ricava facendolo?

L’accesso regolamentato al caffè, sarebbe il problema? O c’è altro? 

Adottiamo questo modello, per assurdo. Facciamo un esperimento scientifico (è il mio mestiere, dopotutto). Un esperimento mentale, magari. Dovremmo dire, sempre per essere raffinati (stavolta passando al tedesco) un gedankenexperiment. Ma fa niente, ci siamo capiti.

E allora insistiamo, a chi giova? Facciamo il caso che io faccia parte di questo complotto orientato a limitare in modo intollerabile le libertà personali, in modo da esercitare un controllo ferreo su quello che accade. Bene (per dire). Ma sarebbe veramente furbo da parte mia, introdurre misure per evitare che la gente se ne vada tranquilla al ristorante? O sarebbe un clamoroso autogol per fare innervosire le persone, senza averne un ritorno consistente? Eh già, perché che ritorno ne ho?

A me conviene ben altro, questa è la verità.

A me conviene che le persone si credano libere semplicemente perché possono scegliere in che ristorante andare, che quotidiano comprare (per avere quasi sempre la stessa narrazione, con sfumature minime), anche libere di fare un viaggio, pur con mille cautele. Ma sì, che si sentano libere di scegliere uno dei mille canali televisivi, splendidamente uguali in fondo (cantavano i Pink Floyd negli anni ’80, I’ve got thirteen channels of shit on the T.V. to choose from, fotografando una situazione che sarebbe solo diventata più estrema con il tempo e l’avanzare della tecnologia) inondati tanto dalla stessa pubblicità assidua e rinormalizzante (che ti ricentra opportunamente e continuamente sullo stesso sistema neoliberista di “valori”, occultando convenientemente ogni altro punto di vista). Se io voglio dominare, attraverso la persuasione continua dell’impero della pubblicità (l’unica cosa che non si è fermata mai durante il COVID) devo insinuare la convinzione che non ci sia alternativa, che ci sia solo un modo di vivere, ed è questo del sistema finanziario capitalistico globale. Che un diverso sistema di valori, in cui l’economia non è la divinità a cui prostrarsi, sia possibile e sia soprattutto più autenticamente umano.

Davanti a tutto questo, come cantava Battiato, ci vuole un’altra vita. Appunto.

Se io dunque ho questo piano, di dominio sulle coscienze per asservirle allo schema neoliberista (in sostanza), in modo che siano facilmente pilotatili e non diano grossi fastidi, non mi conviene certo fare arrabbiare le persone con il Green Pass. Limitare i loro spostamenti non mi porta alcun vantaggio, anzi. Che si credano liberi spostandosi pure dove meglio credono! Che prendano pure questa libertà chilometrica come il vero essere liberi. Ogni sistema di dominio infatti opera prima di tutto una ridefinizione delle parole, e qui un concetto profondo e complesso come libertà diventa quella patinata pubblicitaria di libertà di comprare e fare quel che vuoi. Pane e giochi circensi insomma: e che non si occupino troppo della cosa politica, la lascino ad altri, la lascino a me. Ci penso io a loro, si fidino. Czeslaw Milosz l’aveva detto bene: «Pensi a bere il caffè e a dare la caccia alle farfalle. Chi ama la res publica avrà la mano mozzata».

Per cui, figurati se ti blocco se vuoi andare a bere un caffè. Anzi, se ti blocco (e non mi conviene) vuol dire proprio che lo faccio perché c’è qualcosa di molto serio, c’è una emergenza a cui devo comunque provvedere, se non sono del tutto privo di scrupoli.

Il pericolo non è il Green Pass. Quello può essere una soluzione più o meno adeguata, più o meno pratica, giustificata dall’emergenza sanitaria, si può discutere.

Ma parlare di dittatura sanitaria a mio avviso è esagerato, è parlare (quindi) per perdere tempo, o per acquisire consenso in una delle tante bolle di Internet. Il pericolo vero è quando la voce di chi ti governa assume toni paternalistici (come è accaduto nei precedenti governi) e falsamente rassicurante. Tipo ci pensiamo noi, vai tranquillo. E’ il governo che si impiccia se il tuo sia più o meno un affetto stabile, che blocca i runner che corrono da soli (tanto per far capire che ti controlla) e chiude un occhio sugli affollamenti al centro di Roma (ben più difficili da gestire anche se ben più pericolose). E’ il governo delle conferenze stampa che partono in ritardo e arrivano a reti inevitabilmente unificate, e tutti a pendere dalle labbra del Presidente del Consiglio, per capire cosa ci permetterà di fare stavolta.

Quello è il vero pericolo, e non molti se ne sono accorti. Il vero pericolo erano certi messaggi paternalistici di prima, non il messaggio (indubbiamente molto duro) di Draghi in conferenza stampa, L’appello a non vaccinarsi è un appello a morire, sostanzialmente. Non ti vaccini, ti ammali, muori. Oppure fai morire Un messaggio destinato anche a ripristinare chiarezza politica, certo. Con un tono perentorio, che non ammicca, non incoraggia derive dubbie, ti riporta secco alla situazione reale (se uno si fida ancora del parere degli scienziati).

Ma gridare al complotto contro la democrazia non è un esercizio di stile che non ha conseguenze, non è un passatempo a costo zero. C’è chi ci può guadagnare. E molto.

Il pericolo infatti è anche che questa levata di scudi ideologica alzi una grande nebbia e sposti le cose sui massimi sistemi (cosa che piace molto in Italia purtroppo), mancando il bersaglio più ragionevole e giusto. Che sarebbe quello di avviare – questi sì – un ragionamento puntuale su come è stata gestita la crisi pandemica fino ad ora, e se davvero c’è chi si è arricchito indebitamente lucrando su questa terribile sofferenza comune. Penso per esempio agli scandali dei banchi a rotelle, dei ventilatori cinesi, delle mascherine senza certificazione e altre cose su cui – mi pare – solo Italia Viva ad Azione, praticamente nel silenzio incredibile degli altri, chiedono chiarezza in modo salubremente ostinato.

Questo è realmente gravissimo, ma a questo quasi nessuno pensa. Ma certo: appare molto più intrigante discutere di libertà violate e magari rispolverare dal fondo di un cassetto quella Costituzione che subito dopo il referendum “di Renzi” era diventata di nuovo, per molti, un libro prestigioso da avere, ma non certo utile per leggervi dentro (che ci leggo a fare, se non devo polemizzare contro nessuno su Facebook?).

Chi ha rubato durante il COVID, chi si è arricchito in modo illecito, intanto ringrazia.

Ma infatti. Niente di meglio di un polverone ideologico, per sfiancare le parti avverse, distraendole dalla concretezza del reale. Ma a questo punto il problema si fa personale. Ognuno di noi deve capire da che parte stare, se usare la ragione o seguire il flusso emotivo.

E non sarà la stessa cosa, nell’applicazione e negli esiti, stiamone certi.

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Poltrona

E’ sempre bene, soprattutto quando si ragiona dell’attualità politica, arrivare quanto prima al nucleo reale della faccenda. Dando spazio a quello che pensano i poeti, per esempio.
Non conosco nulla al mondo che abbia tanto potere quanto la parola. A volte ne scrivo una, e la guardo, fino a quando non comincia a splendere. (Emily Dickinson)
Ora che un nuovo governo inizia la sua attività, è più che mai importante capire con che parole poter fare amicizia, in che narrazione dimorare. Certo, in politica si danno sempre molte narrazioni, diverse fin dall’inizio, per la tavolozza di parole che vengono adottate per descrivere la stessa cosa, la medesima azione, la identica situazione. E non è un caso. Difatti, ha ragione Emily, non esiste niente al mondo che non abbia tanto potere come la parola. La ragazza ha appuntato una verità assolutamente poetica ed insieme totalmente politica, non c’è che dire.
Un oggetto molto comodo ed anche molto evocato, di questi tempi.
Allora è vero, che ognuno si può avvoltolare nella narrazione che preferisce, in cui (per motivi psicologici, sociali, familiari, di amicizie, di percorsi culturali e spirituali) si sente più a suo agio. Però mi sento di dire, attenzione: questo non è senza limiti, senza confini. Non è tutto un relativismo, un omnia licet. Ci aiuta in questo proprio la poesia, con quel peso di rispetto che da sempre tributa alle parole. Che non possono essere tirate eccessivamente da una parte o dall’altra, senza che la forzatura appaia evidente (se appena, la si voglia vedere).
Un po’, mi ci fa pensare un bell’articolo che apparso ieri sul sito di Avvenire, dal titolo emblematico Si fa presto a dire poltrone. Essendo adombrata fin dal titolo, una questione di linguaggio (ovvero una questione molto più essenziale e viva di quelle in cui indugiamo per pigrizia, quando pensiamo di trattare di fatti) mi sono interessato.  E ne sono contento.
Infatti, mi pare che il toro venga finalmente preso per le corna. Scendendo fino all’uso del linguaggio, alla sua rimodulazione, si affronta la vera sostanza delle cose.

Così gli accordi tra i partiti, su cui si fonda l’esercizio della democrazia, vengono relegati a “inciuci”, i cambi di maggioranza diventano “golpe”, i seggi, gli scranni parlamentari e governativi sono “poltrone”. 

Rimando alla lettura dell’articolo, e intanto mi cimento in una minima considerazione politica. Potrà piacere o non piacere questo nuovo governo (io un po’ spero, per molti motivi), ma dovrebbe essere acclarato che ci si stia muovendo nella piena legittimità costituzionale, che nessuna strana manovra di palazzo abbia attentato alla volontà popolare. Costituzione alla mano (quella che tanti difendevano al sangue prima del referendum, per poi allegramente riporla tra i libri dello scaffale alto, quello che nessuno prende mai), il primo dato dovrebbe essere questo.
Leggo ad esempio (articolo 92) che,

Il Governo della Repubblica è composto del Presidente del Consiglio e dei Ministri, che costituiscono insieme il Consiglio dei Ministri. Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei Ministri e, su proposta di questo, i Ministri.

Esattamente quello che è successo ora, come era del resto accaduto all’atto di formazione del governo precedente. Tutto secondo Costituzione (le cui parole sono precise, e poeticamente fondanti).
Eppure da una certa parte (gli sconfitti? gli esclusi? ma secondo un normale gioco democratico), si sta tentando – in questi giorni, in queste ore – con sciagurata insistenza, una grossolana rimodulazione del vocabolario descrittivo, uno spostamento inopinato di narrazione. Che trovo assai irritante, proprio perché sleale verso il linguaggio – una cosa che ogni persona appassionata di poesia sente di dover difendere ed amare. 

Fateci caso, certi esponenti politici in questi giorni, mettono e metteranno sempre la parola (piuttosto impropria, per scrannipoltrone e la parola (semplicemente orribile) inciucio in ogni loro considerazione politica. L’intento è palese: generare irritazione e scontento. Ed è un brutto intento, secondo me. Tra l’altro, pochissimo poetico, anzi per nulla. Sia perché l’obiettivo della poesia, e di ogni agire poetico, è diametralmente opposto, essendo teso verso una modulazione di sentimento positivo e costruttivo (questa è la poesia, niente può cambiarla, grazie al cielo: tesa ed appesa ad una vibrazione positiva del mistero del reale). Sia perché sleale con quell’arma potentissima che sono le parole. Che vanno sempre usate con rispetto, pena la degradazione della qualità di pensiero e dunque di vita.
Vuol dire che non si può criticare questo governo (o altri governi)?
Certamente non vuol dire questo, anzi. Si può criticare ferocemente, aspramente, in modo sanguigno. Da destra, da sinistra, si può e probabilmente si deve. Sempre però – attenzione – tramite l’uso proprio delle parole. L’idea qui è di non riposare su luoghi comuni, tristi quanto (come dicevamo) scorretti. Insomma, se si vuole opporsi, si faccia per bene, lavorando di fino, limando le giuste parole, incontrando con la fatica del pensiero nuovo l’intersezione con i fatti, riscontrando e delineando scenari alternativi, costruendo narrazioni potenti e differenti. Sempre spiazzanti, mai adeguandosi al pensiero pigro, alle parole usate ed abusate. Abusare delle parole è un crimine, vuol dire far del male alle gente. 
Una narrazione politica deve essere un po’ come una buona poesia: deve rispettare le parole (il profondo mistero che esse veicolano), e deve sempre sorprendere, almeno un po’.
Altrimenti, ci possiamo davvero mettere in poltrona (quella vera), e farci un sano sonnellino. In attesa, speriamo bene, di tempi migliori.

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La mia Europa (lavorare il sogno)

Sono tempi strani, e questi tempi elettorali, forse esaltano e fanno brillare quel senso di disagio, che è caratteristica anche della politica di questi ultimi tempi. 
Fateci caso, quasi nessuno dei nostri politici si cura di spiegare che specifica formazione europea sostengano, e tanto meno di dettagliare le ragioni di una scelta, delinearne i motivi, il quadro ideale di riferimento. 
Non si ascoltano (quasi) da nessuna parte, dettagliate analisi sulla composizione del Parlamento Europeo, sul perché afferire ad una formazione oppure all’altra. Niente affatto, si sceglie sovente di far leva sui soliti temi di politica italiana, purtroppo ridotti a slogan e dunque svuotati drammaticamente di quella profondità di pensiero che sarebbe necessaria per affrontarli davvero. 
Quando poi non arrivino, e parliamo di ministri, ad entrare a gamba tesa nel terreno del sacro (da percorrere, come si capisce, con grande cautela in queste circostanze, essendo il terreno del vero senso, della profondità inaudita e irriducibile delle cose) nel tentativo un po’ maldestro di rafforzare la presa emotiva (a questo punto) di una certa posizione – che invece andrebbe argomentata su basi laiche e razionali, non ricorrendo al sacro se non per quello che ha a che vedere con il cuore, con la poesia e il dramma della vita e della morte. E e non certo con i calcoli elettorali.
La prima sensazione, davanti a questo, è di tristezza. Stanno facendo a gara per spingermi a decisioni d’impulso, elaborate su base emozionale, pulsionale, su simpatie e antipatie politiche di cortile. Decidere per le bellezza dell’Europa giocando su un’area piccola piccola, quella di una misera controfigura della politica italiana. Quando la posta in gioco è ben più alta, quando si tratta di alzare lo sguardo. E respirare. Stanno facendo della mancanza di poesia (ovvero di una visione profonda e liberante dell’uomo e del cosmo) un espediente per manipolarmi. Ridurre la speranza e quindi manipolarmi più facilmente. 
La rivincita è prima di tutto del pensiero. Ripensare con fiducia all’Europa, è un atto poetico e politico. Europa, che è la bellezza scintillante ed intima di Parigi, la fuga di stradine intorno a San Pietro a Roma, i meravigliosi Kew Gardens di Londra (questo forse per poco ancora, ma chissà), la maestosità tranquilla ed assolata di Marientplatz a Monaco di Baviera, il tesoro a cielo aperto che è Siviglia… e tanto, tantissimo ancora. Sono tanti mondi incastonati l’uno all’altro, tanti universi appassionatamente connessi, innervati e vivificati dai sogni di chi ha voluto guardare avanti, spingersi oltre. Dove si è formato un essere europeo che è ricchissimo di tante di queste suggestioni, di una culla di cultura ed elaborazione politica, di un modo di vedere il mondo che è ultimamente stellato (come la bandiera europea, proprio). 
Alzare lo sguardo alle stelle. Sognare e muoversi per lavorare il sogno. 
La prima cosa che costruisce un sogno, che lo innerva di linfa, è la fede. Dobbiamo innanzitutto crederci, di nuovo. Questa intima decisione riallinea qualcosa nell’universo, rende le cose di nuovo possibili. Le cose sono possibili secondo quanto io mi permetto di crederle tali, in fondo sappiamo che è così.
Crederci vuol dire anche fare un gran respiro, soffiar via gli umori tristi delle baruffe tra verdi e gialli e sul senso di falsa sicurezza e vera chiusura che alcuni propugnano (con o senza rosario in mano). Vuol dire fare una mossa imprevista, scantonare dall’angolino dove ci vorrebbero confinati, e aprirsi al sogno, alla possibilità sognante dunque poetica, dunque concretissima, di operare. 
Di esserci, di relazionarci, di baciarci. 
L’Europa, dove è ? L’Europa esiste, è nel mio cuore, non me la possono rubare. 
L’Europa infatti è un bacio, non è un ragionamento astratto.
Se non la vedi, ne senti la mancanza. 
Proprio senti una fitta al cuore.
L’Europa sono persone e immagini, sogni e costruzione, che avvengono. Che stanno avvenendo, ora. La cosa più bella e umana è prenderne atto, in modo semplice, non ideologico. Partire da qui, dal “cuore dell’uomo che non riesce ad arrendersi” come dice il volantino di Comunione e Liberazione Una presenza al bisogno del mondo“.  
La vera rivoluzione, è riportare la poesia in politica, ovvero tornare a parlare del cuore dell’uomo, e farlo anche in un volantino che ci si attende debba essere asciutto e concreto. Perché il punto è questo. Tutto l’amaro veleno del nostro errore, è ritenere che ciò che parla del cuore non sia concreto. Siate realisti, chiedete l’impossibile, diceva uno slogan del sessantotto. 
E invece, all’inizio sembrerà la cosa più astratta. Magari penserete anche voi che dice “cose giuste ma non facilmente usabili”. Lo si può pensare, viene da pensarlo, alla nostra mente quando è presa dai bilanciamenti dei rapporti di forza, dalla mancanza del bacio della poesia (cioè del Destino buono). Poi quando ci entrate dentro, capite che ad essere astratto, in questa campagna elettorale, è semplicemente tutto il resto. 
Possiamo alzare lo sguardo, 
crederci, di nuovo?
Io dico di sì. 

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