Blog di Marco Castellani

Tag: Roma

Roma, somiglia anche a me

Roma mi somiglia Roma mi somiglia by Serena Maffia
My rating: 4 of 5 stars

Mi è piaciuto. La poesia della Maffia è sanguigna, pulsionale, apparentemente delicata con degli affondi inattesi, luminosi, completamente carnali. Roma è diffusa in tutta questa raccolta poetica, che gioca con i mille ritmi del cuore, e l’innamoramento è sempre del corpo e della città, di un corpo e una citta, definita, determinata, storica e luminosa. Non c’è separazione tra privato e sociale, tra spazi intimi e angoli e piazze cittadine, c’è appena un comune sentire, un soffio di sottile gioia che comprende e non separa, mette insieme e lascia fiorire. Poesia leggera, che non pretende e non spaventa, e per questo, poesia (di nuovo) possibile compagna di vita.

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Ecco, ogni tanto ci penso. Lasciare traccia di quanto si legge, anche questo è un compito. Qualcosa che aiuta a fare un cammino, ad uscire dalla distrazione, dalla omologazione. Che è la stessa cosa. Il cammino che abbiamo davanti è di esprimere la nostra personalità, di macchiare il mondo di noi stessi, dei nostri personalissimi umori, odori. Siamo unici, e ogni tragitto di letture – anche – ci rimette davanti alla nostra unicità.  Come reagiamo a quanto troviamo scritto, come interagiamo con le parole pensate, dette, scritte da altri? 
E la poesia, specialmente la poesia, non è alla fine una semplice faccenda di interazione, di intersezione, tra chi scrive e chi legge? Ogni libro di poesia che trovo, che apro, non è per me la possibilità di arricchire la parola scritta, facendola vibrare dei miei stessi personali autostati, impregnandola di vita, della mia vita? La poesia grande, quella vera, assorbe la vita degli altri, è aperta ad ogni vita, la fa risuonare e la esalta. La mia vita passa dentro i versi di qualcun’altra, do qualcun’altro, e mi ritorna più colorata. 
Come Roma. Lei, lei davvero si fa teatro attivo delle emozioni di chi la percorre; le assorbe, le custodisce, le impreziosisce delicatamente e le ritorna più dense, arricchite di una qualità speciale. Personale, soprattutto. Roma non ha tempo da sprecare (e nemmeno tu, nemmeno io), per rimanere anonima, spersonalizzata, disincarnata o astratta. No, per niente. Invedce, Roma avvia un dialogo speciale ed unico con ognuno. Così che lo posso dire, alla fine. O già all’inizio, già al primo scorcio di infinito domestico. Roma mi somiglia, infatti. 
Somiglia anche a me. 

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Quella sua maglietta fina (e ciò che contiene)

Che poi, è una canzone che davvero conosciamo tutti. L’incipit è diventato così famoso che non ha bisogno di alcuna presentazione. La maglietta fina ha fatto sognare (ed immaginare) ormai generazioni di persone.
Sì. Sto parlando di Questo piccolo grande amore, la celeberrima canzone inclusa nell’album omonimo, di Claudio Baglioni. Siamo lontani lontani, lontanissimi da oggi: indietro rapido, fino all’anno 1972. Tra parentesi, anni interessantissimi per la musica di matrice pop/rock. Basti ricordare che i Pink Floyd, questi quattro ragazzi inglesi, hanno appena rilasciato roba del calibro di Atom e Meddle. Così, tanto per dire. Insomma, anni di fermenti, di ipotesi di rinnovamenti, di innovazioni. Di (vagheggiate) rivoluzioni, anche.
Copertina decisamente anni ’70, tra le altre cose…

Ed eccoci al nostro.
Diciamo subito. Un album strano, decisamente interessante. Che non avevo mai sentito, fino a poco tempo fa. Del resto, va così: se sei abbonato ad un servizio di streaming può capitare che vai a cercare un album, così, giusto per curiosità. In questo caso, per il gusto di per capire cosa c’è intorno ad una canzone celebre. E scopri un mondo, magari.
Intanto, un concept album (come, Baglioni, un concept album?), sviluppato attorno ad una storia, per quanto semplice. Epperò, un vero concept, con espressioni, frasi, cellule musicali, che attraversano le canzoni e si ripropongono, a volte in contesti diversi, con sfumature differenti. C’è un lavoro piuttosto buono che lega le canzoni, amalgama i contesti — e si sente.
Curioso che di questo album si ricordino adesso appena un paio di canzoni — essenzialmente la title track e Porta Portese — mentre altre godibilissime, come ad esempio Cartolina rosa, o altre veramente particolari, decisamente anomale per il Baglioni che conosciamo, come Battibecco oppure Che begli amici!… siano comunque completamente (meritatamente?) obliate.
Ma vorrei dire, strano ancora di più che una canzone dolcissima, struggente, emozionante, poetica nel senso più compiuto, come Io ti prendo come mia sposa non passi per radio, un giorno sì e un giorno no.

Una canzone che affonda totalmente nel mistero dell’innamoramento, nel mistero profondissimo dell’attrazione tra due persone, che diventa quasi sacra di per sé. Perché è un mistero della natura e della vita, mai completamente indagato, mai declinabile in un discorso razionale. Qualcosa di cui si stupiscono le stelle.
Ma la cosa ancora più strana, e forse divertente, è che la title track — ascoltata in modo avulso dal contesto— venga sistematicamente fraintesa, per una ambiguità del testo, forse, ma anche per una ignoranza delle condizioni al contorno. Ovvero di quello che precede e quello che segue.

Io stesso mi sono accorto che per anni e anni l’ho fraintesa. Appunto. Perché niente, uno la sente così, la intende come la descrizione nostalgica di un amore finito, concluso. E non ha capito nulla. Non è niente di questo. Ascoltate l’intero album: è appena che il protagonista, durante il servizio militare, rievoca il periodo felice passato con la sua ragazza, la sua attuale ragazza (o almeno, lui così pensa).
E noi tutti ancora oggi canticchiamo adesso che / saprei cosa fare / adesso che / saprei cosa dire… come se fosse qualcosa che non c’è più. Come un rimpianto, un rimorso per essersi fatti sfuggire qualcosa. E invece c’è (e già non c’è più, forse, ma questo senza fare troppo spoiler).
Che poi, come stanno le cose tra lui e lei, o meglio, cosa ha vissuto lei quando lui era in caserma, si capisce di schianto nell’ultima folgorante strofa di Porta Portese.

Ecco. Questa per me è realmente un piccolo capolavoro.
Sì, spendo questa parola impegnativa, ma non saprei trovarne un’altra.
Per come viene tratteggiata — a sapienti schizzi di colori — una descrizione del celebre mercato romano, di questi piccoli quadretti (anche amabili), che fan sorridere (C’è la vecchia cha ha sul banco / foto di Papa Giovanni, /lei sta qui da quarant’anni o forse più… oppure …le patacche che ti ammolla quello là. / Ci ha di tutto pezzi d’auto / Spade antiche quadri falsi / E la foto nuda di Brigitte Bardot…). Ma anche e soprattutto, per come — in questo quadretto apparentemente svagato e scanzonato — piomba come un fulmine a ciel sereno l’ultima strofa, Quella lì non è possibile che è lei… (non vi dico di più per non rovinarvi la sorpresa di un ascolto, se non lo sapete già). E la musica segue in modo mirabile la variazione di atmosfera, il cambiamento di sapore che improvvisamente assume il brano.
Tanto non te l’aspetti, tanto pensi di aver capito che il pezzo è appena un brano di descrizione d’ambiente tipico romano (sia pur ben confezionato) che corri il rischio di farti sfuggire il fatto che sei ancora totalmente dentro la storia.
E in una storia, come si sa, c’è questa faccenda: succedono cose.
E infatti. Dall’ultima strofa di Porta Portese c’è la virata del disco, su altre coordinate, altri sapori, incontri, rimpianti, nostalgie. Su un altro insieme di autovalori che la prima parte, giustamente, non contemplava.
Tanto che, nella versione estrapolata dall’album, scopro che l’ultima strofa semplicemente non c’è. Non troppo strano, alla luce di tutto.
Ci sarebbe tanto da dire, naturalmente. Quanto ti voglio, nella sincerità assai poco di maniera, quasi un Odi et Amo moderno, ma peculiarmente apparentato al carme del poeta latino, nella sua coloritura globale. E Piazza del Popolo, con cui si apre il disco ci porta prepotentemente negli anni settanta e nei sui fermenti, anche se qui è appena un pretesto, un escamotage per dare l’avvio ad una storia, che ha indubbiamente connotati molto più intimistici che sociali o politici.
E tanti altri scampoli, il rapporto con i genitori, con gli amici.
E su tutto, la vera protagonista.
Eh sì. Perché te ne accorgi dopo un po’. La vera protagonista è lei. Non la ragazza dalla maglietta fina, no. La vera protagonista è Roma, lei è la vera signora al centro della scena. Un centro quasi defiliato, non invasivo, ma richiamato, punteggiato costantemente da una serie di rimandi, oltre a Porta Portese, Stazione Termini, Piazza del Popolo, ad esempio. E molto altro, anche se appena accennato, anche se nemmeno compiutamente descritto.
Questa è una storia in Roma. E una storia in Roma è sempre una storia di Roma, inevitabilmente.
Così’ che me lo fa ancora più caro, questo bell’album.
Coraggioso, deliziosamente imperfetto.
Vero.

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Il ritorno

Un viaggio, degli incontri. Una avvenente collaboratrice, un misterioso e autorevole scienziato. La possibilità inattesa di un ritorno a casa, di una discesa a picco nell’istante presente. Luca è ad un punto di svolta, un punto critico: nella vita, nel lavoro e negli affetti. Ora è chiamato ad affrontare i propri fantasmi, per riscoprire un cuore vivo.

“La questione è proprio semplice, Luca”, abbassò gli occhi, e in quel momento mi sembrò seducente come non mai. “Io sono nella mia storia, Luca. Lo sono ora come lo ero quando ci siamo conosciuti, tanti anni fa, quando ero appena una ragazza. Anzi, sono assai più nella mia storia ora di quanto lo potessi essere prima. Nella mia vita c’è una strada. Una possibilità sempre aperta di gioia, di essere abbracciati….”

Il mio primo romanzo è disponibile per l’acquisto su Internet in forma cartacea e digitale. Il primo capitolo è disponibile per la lettura gratuita attraverso il portale Wattpad.
La trama si dipana tra Roma, Monaco di Baviera e Parigi, integrando la suggestione dei diversi luoghi come attore partecipe delle vicende stesse del romanzo.
“Che visione stupenda! Basta guardare, alle volte, mi dissi, guardare fuori, intorno.
Avere occhi per guardare le meraviglie del mondo.“
Il tutto avviene sotto gli occhi del lettore, sempre a stretto contatto con una colonna sonora che si integra organicamente con lo svolgimento, chiamando idealmente chi legge a partecipare anche attraverso la magia del suono, e attinge ad una seri di brani (italiani e stranieri) che copre un ampio intervallo di stili e di epoche.
La playlist (in corso di sistemazione su youtube) comprende i diversi brani della colonna sonora del romanzo, nell’ordine corretto. L’avvicendamento dei brani può sembrare privo di un vero nesso logico, ma (vi garantisco) è pienamente comprensibile attraverso la lettura del romanzo.

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Un luogo di ricominciamento

Pazienza, perseveranza, umiltà e coraggio… L’ho segnato sul mio tablet, domenica mattina, cercando di trattenere qualche “indicazione operativa” per avviare il lavoro personale.
L’entusiasmo dell’inizio infatti, so bene come è, è bello e confortante – il luogo del ri-cominciamento ha qualcosa di magico e brillante, al suo interno – ma va nutrito e rinfocolato ogni giorno, altrimenti darsi pace rimane un bellissimo anelito ma il lavoro concreto rimane sempre “dietro”: dietro a qualcosa che appare sempre più urgente, foss’anche “girare il sugo” come diceva Marco (quando del resto s’era ormai fatta ora di pranzo…). Del resto con quattro figli, una moglie, un lavoro, uno gli impegni non se li va a cercare. Ti trovano loro: puoi stare tranquillo. 
Vineyard 16409 640
Come un possibile ritorno…
Lunedì mentre la mia Paola si sottoponeva al suo piccolo intervento in day hospital (tutto bene, grazie al cielo), ero lì in sala d’attesa: sotto di me una meravigliosa veduta di Roma che si svegliava pigramente alle prime luci del sole, accanto a me il mio volume Darsi Pace, rispolverato per l’occasione (vuoi vedere che stavolta il lavoro si fa veramente?), un po’ di sonno per l’alzataccia, ma tanta voglia di mettersi all’opera. E un senso sottile me piacevole, confortante: come di una nuova nascita. Come di un possibile ritorno.
Più riguardo a Darsi pace
Ritorno. Marco Guzzi l’ha scritto sulla lavagna, domenica mattina, come prima cosa: sulla lavagna della sala Zatti dell’Ateneo Salesiano. Primo incontro della prima annualità dei gruppi Darsi Pace. Così, La via del ritorno. E mi ha colpito subito, come fosse un messaggio personale, un codice cifrato rivolto specificamente a me. Il mio tentativo letterario più ambizioso, il mio romanzo, l’ho proprio chiamato “Il ritorno”. Non ci credo alle coincidenze, non ci credo più. Tutto ha un senso. Non in generale: un senso per me, adesso.
Il sole è ormai alto, Roma è sveglia. Da qui, da questa collina, è come se si abbracciasse tutta quanta. Si potesse quasi amare tutta, lei e le persone che la abitano. E lo stato di forzata attesa, favorisce quest’idea della lettura meditativa. Passare e ripassare sulle stesse frasi, fino a farne uscire il succo, a sentirne il gusto, percepirne – almeno un po’ – la carica terapeutica.
Passare e passare sulle stesse pagine: ma perché? Per una cosa di pura esperienza, perché in questo momento mi fa bene. Esperienza: di discorsi – anche giusti, soprattutto giusti – ne ho a sufficienza. Basta, basta per carità. Che poi uno sperimenta l’amarezza dello scarto tra i discorsi “edificanti” e il tono generale della vita, o di tanta vita. Basta discorsi. Esperienza, ci vuole.
E l’esperienza di avere questo libro vicino, da prendere e riprendere, durante l’attesa, è buona. Conforta, riscalda. Dona una prospettiva di senso, anche se ancora potenziale.
Poi l’attacco dei dubbi (lucidamente preannunciato da Marco) avviene, strisciante ma concreto: sono troppo vecchio, troppo giovane per questo lavoro? Sto troppo male (che direbbe la mia psicologa…), troppo bene? E il più destabilizzante, “ma quante complicazioni: non basta pregare?” Dubbi che mi trovo ad affrontare anche nel lavoro proposto dal movimento al quale mi sento prossimo, quel  luogo dove – nel lontano 1984 – ho inaspettatamente scoperto che la fede può essere una cosa interessante, e perfino conveniente.
Lavoro, che mi appare così, ora: vicino e compagno di quello indicato in Darsi Pace.
Una possibilità, l’inizio – appena – di una verifica, che andrà fatta nel tempo. Del resto, tutto richiede una verifica empirica, nei giorni: niente è acquisito una volta per tutte, niente risparmia dalla condizione di ricerca. Anzi ogni evidenza, ogni luce nel cammino, di solito fa questo, rilancia…
 
Un possibile ricominciamento. Datato domenica 12 ottobre, anno di grazia 2014.

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Sul lungofiume…

Una delle fortune di vivere in questo posto dove vivo, è che si è nei pressi di un grande parco. Una possibilità di apertura e di meraviglia a portata di mano. Due secondi e ci sei dentro. Lasci tutti gli incastri e le tristi efficienze cittadine, e respiri del parco. Entri nel parco con i ritmi tuoi e subito scopri che ti devi arrendere, devi stare ai suoi ritmi, devi rallentare. 

Il parco dell’Aniene ha qualcosa di antico, di stabile nel tempo. Mischia foglioline e cespi erbosi con una storia che ti arriva addosso, anche se non la sai, non la conosci bene: ma non serve, perché la respiri. Ed é una storia che ti tranquillizza, ti ristora. 

Così quando arrivo, in bicicletta con Agnese, papà e bimba ognuno sulle sue due ruote (ma papà, la tua bici va più veloce perché ha le ruote più grandi?), nei pressi dell’Aniene, vedo le case dall’altra parte del fiume, sento addosso la gloria sommessa e florida di un pomeriggio romano di sole: sento una dolcissima pace del cuore, come preso da una bellezza, come davanti ad un bel quadro. Mi fermo a fare una foto e mi vengono in mente i quadri di Roma sparita. Anche da quelli mi viene incontro una dolce e contemplativa tranquillità. Come una pace data da radici solide, estese nel tempo. 
Roma sparita (ma presente nel cuore)

Certo, ammetto che le costruzioni intorno al fiume, perlomeno nel punto dove io e la vispa Agnese siamo arrivati, non hanno (probabilmente) niente di particolare. Eppure la combinazione tra il fatto di essere arrivati presso il fiume, il bel parco tranquillo – un verde acceso costellato di fiorellini gialli che avrebbe sicuramente destato l’interesse di un Van Gogh – i ricordi dei dipinti antichi, mi conquista. Ora il mio cuore respira per qualcosa: prima ancora di sapere per cosa, lui respira. Il cuore ti frega, fortunatamente: la mente analizza, razionalizza. Il cuore accoglie. E vince.

Sul lungofiume dell’Aniene…
La mente, appunto. Che cosa strana. Non è vera la misteriosa disillusione che tante volte attraversa la mia mente,   spaventandola. Basta essere qui per capirlo. Ma a volte non serve ragionare, serve semplicemente stare in un posto. E farsene prendere. E’ una legge della vita. Del resto, sono convinto che abbia guadagnato molto di più un personaggio “discutibile” come Zaccheo in un solo momento, a salire sopra un albero, rispetto a tanti dotti e sapienti di specchiata fama, che abbiano magari  speso la vita a interrogarsi su grandi questioni e su ponderosi testi…
Allora forse, vuoi vedere che questa cosa di stare più che cercare di essere, di cui ragionavo qualche settimana fa, ammette declinazioni anche minime, suscettibili di essere trovate in una gita di Pasquetta? La domanda è squisitamente retorica: se me lo chiedete, vi dico di sì…

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Dell’incontro con Alessandro D’Avenia, a Roma


Quello che segue è la mia personale elaborazione di quanto ho trattenuto, largamente a memoria, dell’incontro con lo scrittore Alessandro D’Avenia in occasione della sua presentazione del libro “Cose che nessuno sa”, il pomeriggio del 2 dicembre, a Roma. Naturalmente le cose che riporto dette da Alessandro possono essere imprecise o anche inesatte, perché filtrate dalla mia (scarsa) memoria e dalla mia sensibilità. Inoltre molto di quanto è stato detto è rimasto fuori. Tutto questo per dire di non prendere ciò che segue troppo alla lettera (e di non prendervela con lui se qualcosa non vi piace), ma di trattenerne magari, se vorrete leggere, lo spirito, il colore, o appena l’idea…


More about Cose che nessuno sa


Allora… alla fine mi decido. Nel senso che mi decido proprio alla fine. Cerco quasi di fare tardi per non andare. Non so, a volte ci ho addosso questa inerzia micidiale, o forse, piuttosto, questa paura di star bene… 

Incredibilmente non riesco a far tardi, arrivo alla metropolitana e non ho scuse, il tempo c’è, c’è. Ora andiamo. 

Arrivo a Via Nazionale – che bello andare a Roma davvero, ogni tanto. Le luci, i negozi. C’è aria di Natale. Trovo la libreria ed entro. C’è il libro di D’Avenia vicino all’entrata, faccio un giretto esplorativo (è ancora presto, ci ho messo proprio poco ad arrivare), poi prendo il libro e anche quello di Simon’s Cat. Vado alla cassa, pago e chiedo dove sarà l’incontro. Proprio qui nella sala grande, mi dice l’addetto.

C’è già un buon numero di persone sedute, la sala comincia a riempirsi. Mi accorgo che ho perso i posti a sedere davanti, devo stare in piedi. Pazienza. Mi metto lì con i miei libri. Mi guardo in giro, mi levo il cappotto (fa un caldo…), sfoglio i miei libri, guardo i messaggi. Aspetto. 

Ad un certo punto arriva, proprio dietro di me. Sorride, parla con degli amici. Adesso sta presentando, mi pare, la sorella a qualcuno. Sta proprio accanto a me. Una persona assolutamente normale, normalissima. Dopo aver parlato con un gruppetto di gente che evidentemente conosce, si avvia verso il tavolino già preparato. Ci guarda e dice “ma vuoi siete tutti qui per D’Avenia eh?”, sempre sorridendo. 


Al tavolino che sovrasta leggermente la sala, sono lui ed un intervistatore, giornalista che ha praticamente la mia età. Si sono conosciuti, se ben capisco, a Mosca in occasione delle traduzione del primo libro, in russo.

Aspetto con una certa impazienza che possa parlare Alessandro. Lui ascolta paziente l’introduzione dell’amico giornalista, ringrazia. E’ sempre molto cortese, con tutti. Ma non è una cortesia forzata (di quelle che vedi dappertutto, ormai), è una cortesia sincera, te ne accorgi facile.

Risponde alla domanda sul titolo del libro. E’ un libro che nasce dalla consapevolezza di non poter dare delle risposte, di non poter esaurire le domande che gli arrivano, soprattutto dai ragazzi, dopo l’uscita del primo libro. Quella ragazza che gli scrive, la madre malata di tumore a letto. Lei comunica con la mamma solo con lettere, perché ha paura ad entrare nella sua stanza, anche tenerle la mano. La mamma ormai sta proprio molto male. Non regge a tanto. E gli chiede come fare, ha bisogno della mamma e gli chiede come devo fare, come fare a raccontare un amore, una interrogazione andata bene, un problema, qualsiasi cosa. Soprattutto gli chiede, Perché questo succede?


Come si può avere risposta a domande così, come si può avere una risposta facile. Quello che riesce a dire è che la mamma ha bisogno di lei più di quanto lei ha bisogno della mamma. Che deve vincere la sua paura ed andare da lei, passare del tempo con lei. 
La mamma se ne andrà presto, ci racconta. Ma lei scrive di nuovo, a distanza di qualche tempo dalla morte di sua madre, e dice che il mese che ha passato con la sua mamma, l’ultimo mese, è quello in cui il loro rapporto è stato più bello. E lo ringrazia.
Alessandro dice tutto questo con una umiltà e una sincerità palpabile. Non si fa bello di niente, anzi confessa la propria impotenza a trovare risposte, la propria fragilità, il timore di parlare anche in questa sala, tutto sommato, non troppo grande (“Devo dire che me la sto facendo sotto…“). Soprattutto guarda le persone come persone, come individualità, uno per uno. Saluta chi riconosce. Non è frettoloso con nessuno, supponente con nessuno. In effetti ha una semplicità che ti conquista, ti avvince. Non ha difese artificiose, si espone.
Dice che il punto è se esista una ricetta per amare anche le ombre. Che la questione è svegliarsi la mattina ed amare le persone che hai intorno. Il collega che ti sta antipatico, quelli che ti stanno vicini… tanti piccoli fallimenti da cui, di solito, scappiamo per paura.
Ragiona sulle domande che ci si fanno da adolescenti, poi si mettono da parte crescendo. Epperò non si possono eliminare, perché ad un certo punto la vita “urge” queste domande. Parla tanto dei sogni, del fatto di essere voluti bene. Lui ha seguito il suo sogno solo perché è stato voluto bene, tanto. 
Ammonisce a guardarsi dalle persone che hanno rinuciato ai loro sogni, e scoraggiano gli altri, per paura che loro sì, possano riuscire. Per invidia. Invece bisogna fidarsi dell’altra categoria di persone, di quello che sono più amici di te stesso in certi momenti, e ti aiutano quando dubiti, a fidarti di te stesso. Fa il caso, al proposito, di quando era incerto tra fare ortodonsia (poiché il padre aveva uno studio dentistico, la scelta poteva sembrare naturale…) e seguire la sua propensione verso la letteratura. Fu un amico che lo tolse dal dubbio, quando lo portò a pensare a cosa avrebbe volto fare anni dopo: se lavorare su una bocca aperta o spiegare Omero. Questo fugò ogni dubbio (però non trascura di mostrare rispetto per l’altra scelta, non viene per nulla ‘ridicolizzata’ da quache malinteso senso di superiorità — proprio assente, in Alessandro)
Mi papà alla fine è andato in pensione. Ha chiuso lo studio E sorride. Dice Alessandro.
Racconta di sè, che il motivo per cui è scrittore è nel primo libro che.. NON ha letto. I ragazzi di Via Pal. Qualche anno fa era un must, dovevi leggerlo per forza. Già il titolo non sembra allettante. Quei nomi strani poi… Allora avrebbe deciso di scrivere una storia diversa, più interessante. Tutti sorridono, il clima è disteso. 
Parla della necessità di riscoprire la bellezza di ogni singola persona. Siamo bellissimi, tutti. Poi non ce ne accorgiamo più, in pratica. Magari entri in macchina, uno ti taglia la strada… e tu, sì, in quel momento lo ammazzeresti. Allora c’è qualcosa che non va, è un campanello d’allarme. Non trascura di dire, è per questo che vado in bicicletta e non guido…
Si vede che della letteratura è innamoratissimo. Non è che ho scelto l’Odissea, spiega, E’ lei che ha scelto me.
Cita un proverbio ebraico “Dio ha creato l’uomo per sentirgli raccontare storie”. E la storia di ogni singola persona, che va raccontata. Che ognuno può raccontare a Dio.
E’ bello quello che dice della scrittura. E’ qualcosa che suona familiare anche a me. Scrivo, dice, perché sono fragile, per trovare un filo nella realtà, scrivo perché scrivendo riesco a comprenderla meglio, viene fuori un senso.
E certo l’insegnamento trova il suo spazio. Come non potrebbe? Spiega, da quando ho capito che se uno è felice, aperto, tutto era diverso, il mio metodo di insegnamento è cambiato da così a così. Pensavo di dover essere come il professore dell’Attimo fuggente, poi ho capito di no. E’ pericolosissimo. Il protagonista infatti, non porta le persone a scoprire delle cose, le porta verso di sè: lui ha bisogno di un pubblico.
Racconta di episodi di vita, minuti, piccoli, ma sempre illuminati di una attenzione gentile. Di una curiosità per la vita.  Come per la anziana zia che acconsente a mostrargli la lettera del marito che conservava gelosamente, in cui lui le chiedeva di sposarla. Dice, acconsentì a farmela leggere solo ad un patto, che rimanesse tra noi due. E infatti… Fa una pausa e sorride.  Poi precisa, ma io ne perlo in termini generici…. 
Finisce sulla cosa più importante. Fondamentale. Se la vita non ha un senso profondo o se invece ci sta un Tu che ti ama. Vi auguro – dice – di affrontare questa domanda e di non accontentarvi mai di risposte facili.
Naturalmente ha detto tanto altro. Come l’importanza del semplice sorriso, dell’attenzione alle piccole cose. Al fatto che cerchiamo la felicità chissà dove e poi siamo a fine giornata come arrabbiati, scontenti. Perché forse abbiamo cercato troppo di far felici noi stessi e poco di relazionarci agli altri. Nel semplice sorriso c’è nascosto un atteggiamento diverso. La felicità forse non è in chissà cosa vogliono farci credere, ma è da cercare forse anche attraverso l’attenziona a  cose semplici. Nelle radici. Per slanciarti avanti devi mettere radici solide.
Io sono contento, contentissimo. Ho il cuore sollevato come da un peso, un peso tremendo che mi schiaccia tutti i giorni. Come si fosse alzato per un poco, a contatto con una cosa buona, autentica. Una persona che trasmette gioia, che non ti cerca di attirare a sè, ma ti incoraggia invece a credere in te, nei tuoi desideri, nei tuoi sogni. Nel tuo cuore. Questo non lo dico per un ragionamento, ma per una evidenza immediata.  Sentendolo parlare, stai bene.
Aspetto per farmi autografare il libro, voglio regalarlo a Paola per i nostri vent’anni di matrimonio. L’attesa si rivelerà lunghissima. Siamo in fila e non ci muoviamo di un passo. Penso più volte di rinunciare, ma ormai ci sono… 
Finalmente quando arrivo “in vista” di Alessandro, la cosa si fa chiara. Ci mette tanto, perché lui dialoga con tutti, con ogni persona che incontra. Ed è un dialogo vero, non formale. Se è uno studente, chiede cosa fa, come si trova. Ha davanti quattro pennarelli di colore diverso, chiede perfino di che colore si preferisce la sua dedica.

Quando finalmente arriva il mio turno (perfino una simpatica suora, con due libri da far firmare, mi fa passare avanti perché ha sentito che devo tornare da mia moglie…) gli chiedo di dedicarlo a Paola, “che sono venti anni che mi sopporta”. Lui ci pensa, mi guarda un pò, chiede come mi chiamo io. Mi guarda, realmente. Eppure ormai è tardissimo, sta lì sotto i riflettori da due ore, potrebbe essere legittimamente stanco, tirar via. Metter un sorriso di mestiere e sbrigarsi. Io sono anche uno degli ultimi. La librerie sta chiudendo, in pratica aspetta lui. Eppure mi guarda con occhi attenti, vispi. Ha una intuizione, mi dice “Ahh ma ho capito! Tu sei quello che mi ha fatto la domanda su facebook per la faccenda dell’ebook!” 

Rimango colpito. Per una singola domanda, che io magari pensavo fosse stata evasa da qualcuno di un suo ipotetico staff, mi aveva ricordato. E ha collegato senza che io ne facessi riferimento! Sono grato non perché la cosa riguardi me, ovviamente, ma per quanto mi dice sulla persona che ho davanti. 
Mi scrive “Per Paola, che ha il suo sogno in Marco”. Il sogno. Che cavolo. Altro che il “sopportare” che avevo avanzato io. Quello sapeva di rinuncia. Questo mi sembra decisamente più positivo. Aperto davanti alla realtà, con lo sguardo sgranato, non con i gomiti davanti. Io trovo una assonanza incredibile con tante cose che va dicendo Juliàn Carron, negli ultimi tempi. Vivere sempre intensamente il reale. Ecco. Tutte cose vissute, anche cose che nessuno sa. Vissute comunque, con la faccia spalancata davanti al reale. La realtà è positiva. Ecco una dimostrazione, in un pomeriggio come tanti. 
Una persona come tante. Niente di straordinario, in apparenza. Ma che ascolta il proprio cuore, lo prende sul serio. 
E tutto cambia. E tutti lo vedono. E tutti sono più se stessi. 
Perché nessuno cerca altro, in fondo.

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