Blog di Marco Castellani

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Raccontarselo, il futuro

Perché succede fin troppo spesso, che uno va avanti un poco alla spicciola, senza interrogarsi mai sul lungo termine. Soprattutto adesso, in prossimità di questo Natale 2021), strano ancora sotto l’aspetto della perdurante emergenza sanitaria. Si fanno tutte le cose come sempre, come probabilmente si devono fare, e ci si porta addosso quel senso di straniamento che perdura.

C’è qualcosa che non è a fuoco, qualcosa che ci assedia lateralmente, forse, che non comprendiamo appieno. Se ci giriamo a guardare direttamente, scompare. Non si fa vedere in faccia, si rintana. Però c’è.

Non so che fare, cosa farci. Capisco che forse un trucco è fare il contrario di quanto mi verrebbe spontaneo, non arrendermi a questa forza di gravità che mi fa cadere nella mancanza di visione, nella rinuncia depressa alla progettazione nel lungo termine. Punto primo, prima ipotesi di riscossa: ricominciare a parlare del futuro, ad immaginarlo, raccontarselo. In effetti raccontarsi il futuro è forse il modo più scoperto per comprendere il presente, per capire davvero come ci sentiamo adesso. Se siamo ottimisti ora, il nostro futuro sarà di un certo tipo.

In un certo senso immaginare il futuro è come proporre e proporsi una strada: una strada interpretativa ma anche creativa. Immaginare il futuro è un pochino anche questo, iniziare a crearlo.

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Scienza e coscienza

In realtà il titolo che hanno scelto è La Coscienza Metamorfica e la Co-creazione della realtà, titolo che potrebbe anche apparire altisonante. Tuttavia la cosa è quella, il tema è affascinante e forse non troppo praticato, ancora: cosa ci dice la nuova scienza riguardo al mistero della consapevolezza e se possiamo dirne qualcosa che ci aiuti a capire meglio noi e il mondo, tentativamente a vivere meglio nel nostro Universo, con idee ed attitudini adeguate all’incredibile mistero che ci circonda (mistero riconosciuto da tutti i grandi scienziati, come facilmente documentabile).

Di questo in fondo si è parlato nella chiacchierata di ieri in diretta sul canale di Spazio Tesla, in compagnia del poeta e filosofo Marco Guzzi, fondatore dei gruppi Darsi Pace. Sono onorato di aver avuto la possibilità di dialogare pubblicamente con lui, è stata una esperienza arricchente e densa di utili spunti di riflessione. A guidare le danze la sapiente regia di Laura Groppi e di Alberto Negri (amico con il quale ho registrato già un colloquio sull’esplorazione del Sistema Solare e un’altro dove si è provato ad allargare ulteriormente lo sguardo).

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Scorrimento verticale

Dalla scienza possiamo certamente imparare, e anche ben oltre la sua area di azioni, la sua ampiezza legittima di intervento. Imparare cioè, non solo come si comporta il mondo fisico, ma fare nostra l’attitudine che la scienza stessa richiede, per il processo di scoperta. In realtà (mio umile parere) è ciò che la fa davvero interessante. E non solo per gli scienziati o gli appassionati, ma per tutti.

Per professione indago il cielo secondo il metodo scientifico, che molti secoli fa un certo Galileo Galilei mise a punto, consegnandoci uno strumento formidabile, flessibile abbastanza da costituire un ottimo framework per gli scienziati attuali. Che ancora (nonostante tutti gli sforzi) migliore non ce n’è. E sì, dichiararsi “astrofisico” fa ancora effetto, nonostante tutto. Insomma, esiste una magia della volta celeste, magia che viene percepita da donne e uomini anche lontanissimi dalle questioni di scienza. Un tesoro di potenziale attenzione e passione che non va assolutamente disperso. Va amorevolmente custodito e incentivato, quando possibile.

Tornando al tema: una cosa nella quale lo studio delle stelle mi sfida continuamente, è la gestione della complessità. Mi pare qualcosa di molto moderno, molto contemporaneo. Credo vi sia qui un vero messaggio che noi scienziati dobbiamo prima far nostro, sopportando tutta la fatica del caso (siamo donne e uomini anche noi, con la nostra buona parte di inerzia mentale), per poi lasciar fluire fuori. Semplicemente, è un messaggio troppo importante perché rimanga confinato in un ambito ristretto.

A Galileo “bastava” puntare il cannocchiale al cielo, 
registrando quanto vedeva… 

L’astrofisica (come molte altre discipline) è davvero costretta ad abbracciarla questa scomoda complessità, a farci casa. Penso al caso di Gaia, tanto per rimanere su qualcosa a me familiare. Un telescopio (bel progetto dell’Agenzia Spaziale Europea) in orbita alta – a un milione e mezzo di chilometri da Terra – che ci ha già permesso di costruire un catalogo di quasi due miliardi di stelle (impresa senza precedenti). In fondo è l’analogo moderno di quello che ha fatto Galileo, puntando il cannocchiale verso la volta celeste. La prosecuzione esatta del suo stesso lavoro, per quanto la tecnica rende oggi possibile. Non c’è alcuno scarto, è un cammino naturale che da Galileo porta a Gaia. Ma se per Galileo (con il dovuto rispetto) le cose erano abbastanza semplici, per Gaia appaiono un tantino più complesse.

Il percorso alquanto complesso che deve attraversare una singola “misura” di Gaia, dall’osservazione in avanti,  prima di poter entrare nell’archivio. Crediti: ESA website


Così stanno le cose. Esiste ormai una complessità irriducibile che va inevitabilmente affrontata, per estrarre un solo dato scientificamente valido. Una complessità che si articola ad ogni livello: da quello dello strumento di indagine utilizzato a quello intrinseco del campo che si vuole indagare. Del resto leggiamo la natura ad un livello sempre più elevato di finezza, e questo è sempre più sfidante, tanto a livello teorico quanto a livello tecnico. Praticare la vera scienza (non la pseudoscienza e i suoi derivati) rappresenta – oggi più che mai – un allenamento preziosissimo a gestire il pensiero complesso.

Questo mi sembra di capire: l’Universo risulta tanto complesso quanto noi “sopportiamo” che sia, momento per momento. Dal cielo delle stelle fisse, dal modello stazionario in avanti, fino ad affacciarsi alla prospettiva tipica della nostra epoca, di un cosmo in espansione accelerata in cui avvengono continuamente ogni sorta di fenomeni di differente energie e su diverse scale spaziali, con una varietà che davvero pare non avere fine. Progettare e realizzare strumenti di indagine più evoluti equivale – di fatto – ad abilitarsi a ricevere un segnale più sofisticato dal cosmo, che verifica o smentisce le teorie attuali e allo stesso tempo invita a salire ad un livello più alto di complessità, ad intraprendere un dialogo con il mondo naturale su un parametro nuovo di finezza, potremmo dire. E non c’è indicazione, per ora, che questa progressione continua, questo dialogo su livelli sempre più fini, possa avere un termine, possa trovare un confine.

Cavoli. Il pensiero complesso è una sfida continua. Qualcosa che non è facile da sostenere per molto tempo, per chiunque. La tentazione di individuare scorciatoie interpretative – tanto di un fenomeno fisico quanto di una problematica sociale – è sempre in agguato. Le pseudoscienze spesso si sviluppano proprio dietro un’idea interpretativa molto semplice, che rassicura e fornisce un apparente riparo contro un grado di complessità che spaventa, in quanto difficile da padroneggiare.

Perché il punto è questo: si tratta di praticare un atto di umiltà, introdursi in un mondo che non possiamo dominare nemmeno in senso dialettico, su cui non possiamo esercitare alcun tipo di potenza o prepotenza. Un mondo che non ci appartiene, ma esonda continuamente dalla nostra misura, ci indica sempre altro, ci spinge a decentrarci continuamente (in analogia stretta a come siamo decentrati cosmologicamente). E questo non sempre fa piacere, non appare normalmente agevole.

Nel dialogo su temi sociali e politici adottiamo spesso degli schemi interpretativi, dei filtri che semplificano il reale e sembrano (finalmente) ordinarlo secondo parametri che possiamo ben controllare. Anche qui, infatti, la complessità ci spaventa. Accidenti, non sappiamo proprio come affrontarla. Ci piacerebbe trovare uno schema che – come un grande magnete in un campo di limatura di ferro – orienti tutto verso una certa polarità, ci dia la confortante sensazione di avere la chiave di interpretazione di quello che accade. Ed anche – perché no – il brivido sottile di “avere capito cosa c’è sotto”, che risulta enormemente gratificante per l’ego.

Peccato che tutto questo avvenga ad un prezzo. Ed è che la ipersemplificazione del reale porta spesso a costruire tesi che rischiano – a dispetto della loro attraente sobrietà concettuale – di non essere affatto incisive sul mondo. Poiché infatti risentono di una forte attitudine ideologica, non sono abbastanza docili ai fatti, alla loro continua mutevolezza, alla loro connaturata impermanenza.

Qualche piccolo esempio. Uno schema (che andava di moda alcuni anni fa, più che ora) è interpretare il conflitto sociale come semplice lotta tra le classi, porta ad una indebita semplificazione riducendo drammaticamente i parametri in esame, fornendo magari risposte per ogni occasione, ma risposte “di plastica” che inevitabilmente risentono della povertà dell’analisi, e come tali si dimostrano insufficienti per ogni azione pratica, anche infarcita di abnegazione e buona volontà.

Un altro schema è quello (decisamente di maggiore attualità) che rintraccia nell’azione più o meno occulta di determinati “poteri forti”, votati alla loro autoconservazione e al loro ampliamento, la spiegazione di una larga serie di dinamiche politiche e sociali. In particolare, tutti sappiamo come pullulino interpretazioni “alternative” dell’attuale emergenza sanitaria che più o meno pesantemente attingono alla nozione di Big Farma, come entità sovranazionale capace di stravolgere e determinare le politiche sanitarie, che sarebbero così ultimamente guidate da criteri di profitto e non da considerazioni di salute pubblica.

Certo, nemmeno qui è lecito semplificare. I poteri forti esistono, non è in questione. Agglomerati di interessi si conoscono e si incontrano quasi spontaneamente, individuando strade per custodire e rilanciare gli interessi comuni. Sono uno dei fattori in gioco. Non certo l’unico, però. Ricorrere a questi come “motore ultimo” di tutto quanto accade, è probabilmente semplicistico.

Il tratto caratteristico di questi schemi di massima, mi pare, è la refrattarietà all’analisi paziente dei particolari, alla rilevazione della “grana fine” che ogni porzione di realtà custodisce e può esporre, come dicevamo, se adeguatamente interrogata. Manca la voglia e la pazienza di analizzare diligentemente il mosaico: al contrario, si pretende di giungere subito ad un momento di sintesi, che permetta di descrivere tutto con ridotto contenuto informativo, in un modo che sia facile da assimilare e propagare.

Non mi interessa arrivare ad alcun punto, che non sia questo richiamo a rispettare la complessità di un fenomeno, di un avvenimento, di una emergenza, della gestione di una pandemia (quello che volete). L’informazione complessa spaventa, annoia. Vorremmo avere tutti delle facili chiavi interpretative, ridurre tutto a pochi byte di informazione, perfettamente portatili, perfettamente spendibili sui social. La banalizzazione e l’estremizzazione di un punto di vista lo spogliano della sua intrinseca rete di articolazioni e lo mutano in una piccola capsula, perfettamente rilanciabile e pronto per i vari like, i plausi, le manifestazioni prefabbricate di indignazione, l’esecrazione spicciola manifestata in pochi secondi. Prima di passare ad altro.

Ha ragione Samuele Bersani, siamo ormai tutti campioni nazionali di scorrimento verticale e anche se sappiamo che questo non ci aiuta a capire, alla fine non ci interessa. Ci piace troppo, farci catturare da emozioni semplici, comprensibili, elementari. Facilmente condivisibili, spendibili su Internet.

Sono appena uno scienziato, non mi voglio improvvisare sociologo, predicatore, analista del costume. Come scienziato mi limito a questa “semplice” osservazione: gestire propriamente la complessità, acconsentire a che ogni fenomeno sia interpretabile a prezzo di una fatica nel vagliare il grado di compresenza di differenti narrazioni, non è immediato, non ci viene facile. A me, almeno, non viene per niente facile: d’istinto vorrei ridurre ogni problema alla mia interpretazione, riducendo i gradi di libertà del fenomeno e innalzando alte mure contro ogni diversa visione (perché lo confesso, alla fine tutte queste opinioni differenti dalla mia, mi danno fastidio).

Il fatto è questo: posso certamente farlo, posso anche guadagnare diversi like e perfino prosperare nella mia bolla informatica, ma perdo mordente nel comprendere il reale (e qui praticare un po’ di vera scienza, aiuta a capirlo). Se è questa comprensione che cerco autenticamente, forse devo mettere in conto la fatica di una analisi, che riparta ogni mattina da un onesto lavoro di scavo, di indagine paziente.

Rifuggendo le semplificazioni: comode, ma fallaci.

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Capire di non capire (parole al cane)

Il fatto è che nemmeno io me ne rendo conto. Da scienziato, intendo. Penso quasi sempre nello schema usuale, mi muovo all’interno di quello. Dove non ci sono poi molte sorprese. Mentre l’interessante sarebbe, uscire da lì, non appena si può.

Ci vuole uno sforzo, ci vuole volontà. E percezione della strada da fare, soprattutto. Perché uno si costruisce il suo bel mondo a prova di sorprese, costellato di certezze granitiche, e poi si accorge stranamente (ma non troppo) che gli va stretto. Ed è qui che un animale domestico può aiutare. Un cane, probabilmente, può fare molto, molto di più di mille discorsi. Osservare un cane, oso dire, può valere più di mille corsi di approfondimento sulla percezione e sulla conoscenza.

Sì, sembra paradossale. Ma ora vi spiego. Il punto è semplice, capire che c’è qualcosa da capire, è quasi tutto. Capire che c’è una questione aperta, vuol dire essere arrivati quasi alla soluzione, la maggior parte delle volte. Per le cose che ci sorpassano completamente, per le cose dove non possiamo minimamente nemmeno sperare di poter portare un contributo, non abbiamo infatti alcuna percezione. Non si percepisce il problema, intendo. E non a caso, direi. Se non c’è possibilità di intervento, fai anche fatica a inquadrare la cosa. Troppo sopra di te.

Poncho, in un momento di “battaglia” con un bastone

Va bene per questo guardare Poncho (il mio cane). Io l’ho capito proprio così. Mentre lo stavo portando fuori per la passeggiata nel parco, così oziosamente, mi sono messo a parlargli (va bene, una volta possiamo fare un post sulla mia sanità mentale, ma non è questo).

Apro piccola parentesi. Parlare al cane è più soddisfacente di quanto possa pensare chi non lo fa. Intanto, c’è il fatto che lui ti ascolta praticamente sempre. Non ti interrompe mai, non si mette di mezzo per inserire una sua visione delle cose, non pretende di correggerti. Non ti blocca con le frasi briganti tipo hai ragione, ma non hai riflettuto sul fatto che… Nemmeno, ti si spazientisce mai. Esistenzialmente, la cosa è interessante. A volte uno non cerca necessariamente un confronto serrato, a volte uno ha bisogno di essere ascoltato, e basta. Per questo un cane è insostituibile. Per giunta, ti fa segno che lui ti ascolta, senza fare suoni, che si sovrappongano fastidiosamente ai tuoi: usa semplicemente la coda (un umano non può farlo, almeno non così agevolmente). Se parlo al cane in un certo modo, gentile, morbido, la frequenza e l’ampiezza dello scodinzolamento cambia, in segno di apprezzamento.

Questo lo sappiamo più o meno tutti. Il fatto è che, mentre parlavo, pensavo sì d’accordo ma tanto tu non capisci nulla di quello che sto dicendo. E poi d’un tratto ho capito che tra i due, ero io quello che non capiva la situazione. Tra i due, ero io che non stavo comprendendo, non stavo nel reale. Quello che non stava sul pezzo ero proprio io. Lui comprendeva tutto, o meglio (ed è questo il mio punto) tutto quello che c’era da capire.

Tutto quel che c’era da capire, in quel momento, era la modulazione della voce, indice della mia attitudine verso di lui. Il resto non gli interessava, non gli interessa. Gli interessa quello che gli serve. I concetti che esprimo a parole non gli servono, non stanno nel suo universo, hanno un impatto nullo sulla sua esistenza: lui estrae dal reale tutto quello che può avere importanza per la sua vita e il suo benessere. Il resto per lui non esiste. Il resto, dal suo punto di osservazione, non esiste affatto. E in generale, se una cosa per me non esiste, se non ha alcun modo di entrare nel mio percorso storico e psicologico, posso tranquillamente dire che non esiste affatto.

La realtà fisica che noi pretendiamo di comprendere, scordandoci che siamo esseri limitati: questo è il bello. Questo è l’errore incredibile che facciamo. Come fossimo osservatori distaccati ed imparziali, con risorse di connessione, analisi e comprensione potenzialmente infinite. E siamo pieni di cose che non si capiscono, infatti. Prima di tutto il comportamento bizzarro della materia a piccola scala, la meccanica quantistica (e le sue incredibili connessioni con chi appunto, osserva). Cerchiamo di ricondurre alla nostra logica – derivata dalla manipolazione del reale come più o meno fa Poncho (solo ad un livello appena superiore) – delle cose apparentemente assurde, e giustamente non ci riusciamo. La nostra logica è limitata, ma noi ce lo dimentichiamo (come fa il mio cane, ma almeno lui non pretende di avere tutto sotto controllo e di rado lo vedo pontificare sulla vita, l’universo e tutto quanto).

Osservando Poncho (cosa che mi è stata anche raccomandata per il suo valore terapeutico), ho capito l’approccio al mondo fisico (e tecnologico) che ha. Lui si trova a vivere in un mondo informatizzato e meccanizzato, ma la cosa non lo interessa. Quindi lui adotta un approccio molto pragmatico, in materia. Esemplare in questo senso, il suo rapporto con l’ascensore.

Varie sessioni di accompagno, mi hanno persuaso di quel che ora scriverò. Lui ha capito questo. Entra in ascensore, io spingo un bottone, c’è qualche vibrazione, poi si riapre la porta. Esce su uno scenario diverso da quello da cui è entrato. Ed è tutto. Non si meraviglia, non si chiede nulla. Ha imparato a gestire la situazione, ed è a posto così. Non si chiede come mai cambia la realtà che trova all’apertura della porta, ha registrato la cosa e la usa. Con il tempo ho capito che c’è una differenza di approccio sostanziale, tra il farsi domande a cui non si riesce a rispondere, e il non farsi proprio domande, perché non si vede il quesito. Vedere il quesito è già dimorare nel campo dove (prima o poi) potrà giungere una soluzione.

Poncho non vede alcun quesito nel fatto dell’ascensore. Lo vedrebbe se, dopo la passeggiata, risalissimo ad un piano differente, e dunque uscendo non trovasse la porta di casa. Allora si girerebbe verso di me e mi guarderebbe, aspettando una soluzione. Ma normalmente non vede alcuna necessità di domandarsi qualcosa. Ha imparato a modellarsi su quello che accade, ed è sufficiente.

Mi chiedo a volte cosa accadrebbe se si potesse tornare indietro e parlare di fisica quantistica a Laplace, o di relatività generale a Galileo. A volte penso che non capirebbero proprio l’argomento della conversazione. Troppo fuori anche dalle domande che potevano avere sul mondo fisico.

Alla fine mi sembra che la vera ingenuità è la nostra, ed è quella di pensare che abbiamo un modello di mondo oggettivo e asettico, limpido e preciso, non legato alla nostra esistenza biologica, con tutto quel che ne deriva. Come se la conoscenza fosse insomma di natura puramente matematica, disincarnata. Quando invece, il modello di mondo che abbiamo è declinato secondo le direttive del nostro vivere biologico, e pesantemente influenzato da esse.

Tutte le volte che penso di vedere il mondo, devo pensare che quella che mi arriva è una articolazione di informazioni organizzata e mediata affinché i miei sensi specifici possano lavorarci un’ordine, una consequenzialità, una possibile modalità di intervento. Questo è ciò cui ho veramente accesso (e detto tra noi, non è affatto poco). Sono inserito in un contesto dove tra l’altro alcune cose che a me sembrano “granitiche”, come la realtà oggettiva dello scorrere del tempo, sono (ehm) da tempo messe in discussione proprio dalla fisica fondamentale. Nel complesso, dovremmo andarci molto cauti con i termini “realtà oggettiva”, sospetto che molte volte li applichiamo un po’ fuori contesto.

Ci vorrebbe dunque molta più umiltà, meno presupponenza, a volte, nel crogiolarsi nei risultati della scienza. Soprattutto, sarebbe da abbandonare del tutto (e lo dico da scienziato) l’idea che la visione scientifica delle cose sia l’unica ammessa, l’unica affidabile. Tornare al fatto che sostanzialmente ci sono miriadi di cose che non capiamo, facendo così un buon servizio alla scienza vera. Ce lo scordiamo troppo presto, che siamo in un Universo dove appena il 4% è “materia ordinaria” e il resto, praticamente, non si sa. E qui tornerei a Laplace, che una cosa l’ha vista giusta, quando ha detto che (e sembra siano proprio le sue ultime parole) “Quello che sappiamo non è molto. Quello che non sappiamo è immenso”.

Ma son tutte cose che, del resto, conosce bene (senza saperlo) anche il mio cane. Anzi, mi sa tanto che uno di questi giorni, gliene torno a parlare.

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Affetto

Scrive Luigi Giussani in Generare tracce nella storia del mondo, che è un affectus, come quello che aveva Simone, così puramente è profondamente affezionato a Gesù, ciò che porta lontano la capacità di giudicare adeguatamente la realtà.

Ebbene, quanto sia dirompente questa frase mi arriva solo dopo un po’ di ragionamento. Sì, mi trovo ordinariamente dentro questa convinzione, che il giudizio sia obiettivo solo se mi riesco ad astrarre dalla contingenza, se riesco a spegnere le emozioni e gli affetti nell’atto della valutazione, se mi sento sufficientemente lontano da tutto, in equilibrio su un punto (che immagino) di stabilità. Come un pianeta svincolato da ogni orbita, da ogni pur vago moto di attrazione: nulla che mi attiri in modo particolare, tutto è in equilibrio. In questo framework, ogni cosa che cattura la mia attenzione, che muove il mio animo, può rappresentare una distrazione, una alterazione indebita di questo (alquanto fantomatico) equilibrio valutativo.

La frase di Giussani (che riguarda cielo e terra, l’eterno e il contingente) giunge a scardinare questo terribile pregiudizio, questo desiderio malato di pulizia e di imparzialità. Malato proprio perché irrealizzabile, semplicemente e puramente disumano.

Volendo rimanere sulla fisica, senza approfondire l’aggancio metafisico (ché ci vorrebbe ben altro spessore di scrittura) cono cose che ci indica anche la scienza, a voler davvero ascoltare (il fatto è che non ci piace troppo ascoltare, nemmeno cosa dice la scienza, quanto va contro il nostro assetto mentale di default). Abbiamo viaggiato tanto, da quando Galileo ha aperto la porta all’analisi scientifica del mondo, a questa potentissima possibilità di ordinare il mondo fisico secondo dei modelli, capaci perfino di fare predizioni su eventi futuri.

Abbiamo viaggiato tanto, abbiamo traversato mondi diversi, nei secoli. Mondi che assomigliavano un po’ a come ci sentivamo, alla coscienza che avevamo maturato nel viaggio, più o meno fin lì. Abbiamo attraversato territori in cui, un po’ gasati dalle cose che stavamo scoprendo, ci siamo sentiti in potere di comprendere l’intera evoluzione delle cose. E’ stato anche detto che sarebbe bastato avere più informazioni (posizione e moti delle particelle, per essere precisissimi) per predire le cose, fino al limite estremo.

Questo modello è superato, siamo andati ben avanti nel viaggio. Scoprendo nuovi territori. Ora sappiamo che aggregare informazioni su informazioni non sempre ci aiuta, nella comprensione. La realtà non è conoscibile con precisione infinita, ce lo dice anche la fisica quantistica, che anzi fissa dei limiti in modo che può anche apparire implacabile. Oltre un certo confine, il dato semplicemente non ha senso, il famoso principio di indeterminazione è sempre da riprendere, come spunto importante per riflettere.

Il fatto che l’accumulo di pura informazione non aiuti la comprensione, lo avverto già come individuo, come persona, prima ancora che nel lavoro di scienziato. Prendiamo una cosa molto attuale, il bombardamento di informazioni in questa pandemia, ad esempio. Ebbene, l’esposizione esasperata alle statistiche di contagio, guariti e deceduti, erogata con assidua determinazione da ogni medium, non faceva che generare in me rinnovata confusione, minor possibilità di capire ed entrare realmente negli eventi. Se sono onesto con me stesso, devo ammettere che – almeno per me – l’accumulo di dati equivale ad una perdita di reale conoscenza, che tale bombardamento insistente può essere usato (consciamente o no) per destabilizzare, spaventare, ultimamente per generare un senso di impotenza. La gran mole di dati spinti nella coscienza, senza che vengano riordinati ed allineati da una ipotesi di senso, genera questo senso strano di confusione, di progressiva opacità.

Perché manca qualcosa, appunto. Manca quello che Giussani chiama affectus, alla fine. E’ questo, è questo il fatto. E se vogliamo rimettere in gioco la fisica quantistica, possiamo farlo anche qui, e senza forzare nulla. Ed anzi, qui abbiamo una evidenza rigorosissima, confermata proprio da quella scienza che a volte giudichiamo più impersonale ed arida di quanto sia veramente. C’è una lezione semplice e potente, che possiamo derivare da tale ambito. Non è infatti possibile conoscere qualcosa senza esserne parte, così potrei tradurre, senza troppo tradire, l’evidenza che ci giunge ormai molto chiara, dalle ricerche. Conoscere un sistema equivale a modificarlo, sia pure in piccola parte.

Fermiamoci un attimo su questo. Sì fermiamoci, perché questo noi, oso dirlo, non lo abbiamo ancora capito. Non lo abbiamo capito proprio per nulla. Per una sorte di fenomeno inerziale, noi gravitiamo ancora intorno al positivismo ottocentesco, e gli ultimi (ma anche penultimi) risultati della scienza dobbiamo ancora digerirli. Magari li sappiamo, nella testa, ma non sono ancora scesi nel cuore. La testa è veloce ad impadronirsi di un concetto, ma poi perché giunga nella vita reale, nella pratica di vita reale e concreta, ci vuole molto tempo. Lo diceva benissimo Gaber, che cito spesso in casi come questo, se potessi mangiare un’idea, avrei fatto la mia rivoluzione (idee giuste o sbagliate, se non arrivano al cuore, non funzionano). Ora ed ancora, insomma, ci tocca questo lavoro, di far scendere le idee e le convinzioni, dalla mente verso il cuore, dal pensiero alla carne.

Come questa cosa qui. Non esiste la conoscenza impersonale, oggettiva, di un fenomeno. In realtà, non è mai esistita. Ci piaccia o meno, faccia o meno a botte con quello che crediamo di credere, ma è così. La conoscenza implica sempre la partecipazione, in qualche grado. Per una persona, ma direi per un essere vivente, è una partecipazione essenzialmente affettiva, la possibilità della conoscenza.

Senza questo affetto, pensiamo di comprendere, valutare, giudicare, ma siamo semplicemente dentro una specie di simulazione mentale, non siamo vicini all’oggetto che dovremmo conoscere, siamo confinati su un universo parallelo, inconsapevolmente schiavi dei nostri preconcetti.

E’ una bomba, quello che dovremmo confessarci ora, senza più nasconderci dietro ad improbabili oggettività. Una esplosione universale, davanti alla quale siamo spesso totalmente inadeguati, ovvio. Ma non per questo dobbiamo impedirci di dircelo: una conoscenza adeguata della realtà viene soltanto da un amore ad essa. Davvero, la ragione conosce nella misura in cui essa ama.

Qualcosa di così deflagrante, che in fondo l’abbiamo sempre saputo. Le grandi tradizioni ce lo hanno sempre insegnato. Ma forse ora è il momento giusto, per ritrovare come nostro, quello che ci è sempre appartenuto.

Con un rinnovato affetto, ovviamente.

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L’universo raccontabile (anche su Facebook)

L’uomo. Ecco il grande escluso dalle teorie cosmologiche che ci stiamo lasciando alle spalle. Ecco il grande furto a cui urgentemente porre riparo, l’immenso impoverimento da sanare al più presto: c’è da riconsegnare il cosmo all’uomo. Dare all’uomo – ad ogni uomo – un modello di universo comprensibile, pensabile, lavorabile. Raccontabile, declinabile perfino sui social. E soprattutto, portatore di senso.
La partita è fondamentale, decisiva: in effetti, è questo il vero campionato del mondo, o meglio dell’universo. Un cosmo non raccontabile è qualcosa che proprio non ci possiamo più permettere:  è un cosmo in cui il disagio di non poter tracciare una storia diventa angoscia, timore del nulla, si veste di senso di impotenza, si colora di paura dell’ignoto. Un universo in cui siamo spersi: dispersi, per essere più pilotabili. Te la raccontano così, in effetti: sii buono e possibilmente, un quieto cittadino, buon consumatore, rimani pure nella tua quieta disperazione. Tanto cosa puoi sperare, lì fuori è tutto freddo e buio, non vedi?
Ebbene, è il momento di dire basta. Da tutto questo, da questo scenario malato, sconfessato ormai dalla stessa scienza cosmologica, dobbiamo e vogliamo evolvere.
Come da piccoli, la voce del papà e della mamma scavavano un percorso rassicurante nel buio della notte, confortando il nostro cuore impaurito, così l’umanità è sempre “piccola” – ovvero sempre in crescita – e desiderosa di ricavare un sentiero nella vastità dello spazio: per vedere il buio non più come oscurità, ma come un silenzio trattenuto, delicatamente trapuntato di stelle. Come scrivono Leonardo Boff e Mark Hataway, nel volume Il Tao della Liberazione“abbiamo smarrito una narrazione onnicomprensiva che ci dia l’impressione di avere un posto nel mondo. L’universo è diventato un luogo freddo e ostile, in cui dobbiamo lottare per sopravvivere e guadagnarci un rifugio in mezzo a tutta l’insensatezza del mondo”
In breve, la cosmologia contemporanea, quella più avveduta, ha questo grande compito: riportarci verso un cosmo a misura d’uomo, ovvero un cosmo incantato. Scrivono infatti gli stessi autori, che “l’umanità si è in genere considerata parte di un cosmo vivente intriso di spirito, un mondo dotato di una specie di incanto.” In questo modo il nuovo cosmo non potrà che riflettere la nuova scienza, quella che riporta l’essere umano non solo al centro del processo cognitivo, ma al centro stesso dell’universo che vuole indagare.
Questa rivoluzione cosmologica non avviene oggi “per caso”, ma è stata preparata da una profondissima crisi all’interno della stessa scienza più rigorosa, crisi che ha visto lo scardinamento e il tracollo della visione meccanicistica cartesiana (funzionale peraltro ad un approccio di dominio e non di relazione) sospinta dall’avanzare delle visioni – potentemente dirompenti – della fisica relativistica e della meccanica quantistica. Non è questa la sede per indagare la portata di tali eventi concretamente rivoluzionari, dobbiamo appena comprendere il loro di stimolo potente verso le istanze di un ricominciamento totale, anche nella scienza.
Questo ricominciamento, questo reincantamento, possiede in sé l’urgente necessità di comunicarsi a tutti gli uomini, perché tutti noi siamo comunque vittime di questo “furto del cielo”, perché  noi tutti soffriamo di questa ferita aperta. E’ un risarcimento che si vuol proporre, in altre parole. Urgentissimo, perché già tardivo. Una impresa di questa natura deve rivestire il carattere deciso di modernità, ovvero avvenire attraverso ogni canale informativo: ad esempio, non è ormai nemmeno pensabile, senza il coinvolgimento attivo dei social media.
C’è dunque un messaggio, il nuovo cosmo “a misura d’uomo”, e c’è la necessità urgente di rilanciarlo attraverso i canali privilegiati della connessione informatica, così pervasiva ad ogni livello di istruzione e in ogni ambiente. Anzi, potremmo addirittura ribaltare la questione, sostenendo che questa facilità immensa di comunicazione è nata esattamente nell’attesa, nell’imminenza di un messaggio “planetario” da trasmettere. Così comprendiamo perché, con Facebook, Twitter e gli altri social media – che a loro volta si appoggiano a questa straordinaria innovazione che è Internet – siamo arrivati ad una capacità di connessione sbalorditiva, proprio nell’imminenza di questo momento di crisi.
Il rischio allora è che questa capacità di contatto e condivisione, questa inedita potenza di fuoco possa rimanere senza un messaggio profondo da veicolare. Sarebbe pericolosissimo, perché l’assenza viene sempre colmata, in qualsiasi modo, a qualsiasi prezzo. Lo vediamo nei giorni presenti, dove diviene sempre più difficile estrarre un contenuto di valore dal rumore di fondo di ogni schermata di Facebook. Il valore, ovvero tutto quel che invita a riflettere e ad approfondire, rispetto alle innumerevoli “chiamate” alla reazione immediata e superficiale.
Tutto questo presenta conseguenze dirette – tra l’altro – anche nell’educazione, quel processo delicatissimo che deve anch’esso tornare ad un incanto primordiale, ad un ambiente protetto e non giudicante dove la creatività dei ragazzi è esaltata. A noi dunque la scelta di subirlo, questo cambio di pelle, di rimanere frenati in questa urgenza del nuovo, sempre più a fatica, oppure di lanciarci, di scommettere finalmente su un vero rovesciamento di prospettiva.
Alla fine, è una decisione, a cui siamo chiamati. In questa proposta interpretativa non c’è più il “caso”, ma tutto avviene per un senso, e la percezione di un modo “incantato” di guardare l’universo richiama ad un modello d’uomo che non è più vittima della tecnica, perché – in ultima analisi – non è più prigioniero del nichilismo.
Un uomo che possiede (in un possesso dinamico, per invocazione) un senso delle cose, è un uomo che automatica-mente manipola ogni oggetto, ogni tecnica, con una coscienza diversa, che porta nuovo frutto in quello che fa, perfino al tempo speso sui social. Non ci serviranno dunque decaloghi e regole d’uso per recuperare una dimensione umana in Facebook: ci salverà piuttosto la percezione di un cammino fatato, di un percorso possibile verso quel “Regno” dove tutto diventa anticipo e possibilità d’espressione nuova, di creatività inedita ed insperata. Dove la scienza si sposerà con un uso equilibrato e sobrio del mezzo informatico, recuperato nella sua autentica dimensione di strumento, e non di fine. In altri termini, ripreso a servizio.
Questo è il compito che abbiamo davanti, questa è una precisa responsabilità di chi, a vario livello, si occupa di fare scienza, o di divulgarla. Questo, con le sue piccole forze (che poi è sempre questione di risonanza, non di forza bruta), è anche il fine che il gruppo culturale AltraScienza si è prefisso, fin dalla sua formazione. Che vuole appunto declinarsi anche su Facebook, e su Twitter.
Per meno di questo non vale la pena muoversi, credetemi. Per meno di questo, non mette conto ripensare creativa-mentel’impresa scientifica. Nessun gioco al ribasso ormai ci è possibile, in questa epoca di grande cambiamento. O meglio, in questo cambiamento d’epoca. Tenendo in debito conto che, per usare le parole di Thomas Berry, “a noi non mancano le forze dinamiche per costruire il futuro. Viviamo immersi in un oceano di energia inimmaginabile. Ma questa energia, in definitiva, è nostra non per dominio ma per invocazione”.
Queste dunque sono le coordinate del gioco. Enorme, smisurato. Grazie al cielo, splendidamente al di sopra della nostra capacità. Così che sia più dolcemente chiaro, appunto, che tutto è alla nostra portata, sì, ma  per invocazione. Infine, a chi riguardasse questo come bello, ma utopico, permettetemi di rispondere con un motto del ‘68 francese, molto amato sia da scrittori laici come Albert Camus che da personalità religiose come Don Luigi Giussani: “Siate realisti, domandate l’impossibile”.
Pubblicato in origine sul blog Darsipace.it

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Le elezioni e la scienza: un problema di desiderio.

E’ un’occasione, che sarebbe bello non perdere. Ci lamentiamo spesso di quanto la scienza venga trascurata, bistrattata o più spesso fraintesa, dal mondo politico (ma non solo). E lamentiamo – non senza ragioni – quella strategia di piccolo cabotaggio che ci priva di una visione a lungo termine e di ampio respiro, anche e soprattutto quando si parla di investimenti in campo scientifico.

Dunque le prossime elezioni politiche sono anche questo, un’occasione. Un momento in cui si può scegliere, ci si può aiutare a scegliere, anche in base all’attitudine che le formazioni politiche mostrano di fronte ad un ragionato ventaglio di domande sulla politica della scienza.

Il gruppo dibattito scienza, come riporta Il Post, ha preparato una selezione ragionata di dieci semplici domande, per comprendere cosa pensano i candidati leader su questioni cruciali, come gli investimenti per la ricerca, il tema dei vaccini, la promozione attiva della cultura scientifica, gli OGM, oppure la produzione e distribuzione di energia. Potete leggere il dettaglio delle domande nel sito.

Sono domande – a nostro avviso – importanti, anche perché trascendono dall’ambito strettamente scientifico, e ci lasciano intuire (in maniera nemmeno troppo nascosta) quale reale respiro possa mostrare una certa formazione politica, quale attenzione e disponibilità ad articolare programmi e strategie di ampia articolazione, rischiando finalmente la navigazione in mare aperto e non più le piccole rotte sotto costa.

Quella navigazione dove si comprende anche la distanza tra la vera scienza  – la vera avventura, cioè – e ogni deriva pseudoscientifica che inquina i media e propaga informazioni fasulle, spesso con grande danno di chi ci cade dentro.

Insomma, bisogna buttarsi tra le stelle come antidoto al cinismo e alla rassegnazione, che è sempre una medicina dannosa alla stagnazione odierna: stagnazione che è ideale e culturale prima ancora che economica.

Siamo davvero ad un cambiamento d’epoca, dove un mondo nuovo chiede un nuovo pensiero. Anche, un nuovo pensiero scientifico. Bisogna puntare al futuro, farsi ispirare dallo sviluppo prepotente – ed accelerato! – dell’Universo, rileggendo la crisi presente come una opportunità. Solo così potremo lavorare e spenderci per il bene comune, come il nostro cuore intimamente desidera.

Noi qui a GruppoLocale abbiamo un semplice pensiero, per la politica: bisogna tornare a sognare, tornare a guardare le stelle. A de-siderare, insomma. E farlo davvero, farlo con tutta la propria umanità. Anche quando si vota.

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Una scuola visionaria (e bella)

C’è qualcosa che si muove, nell’educazione. C’è qualcosa che non accetta la stasi, che rifiuta un modello di universo stazionario come ambito in cui tutto rimane uguale, niente cambia. C’è qualcosa che scommette sul cambiamento e sull’educazione. E che investe su progetti, anche di lungo respiro, anche rischiosi. Tutto per esporre gli studenti ad una prospettiva nuova, dove si possano sentire accolti come persone e non semplicemente come oggetti, numeri, entità disincarnate, destinate al mero assorbimento di un flusso più o meno articolato di nozioni.
C’è qualcosa. Ci sono molte cose. Molte persone, molti insegnanti, che si rischiano in questo ruolo. Lo fanno quotidianamente, silenziosamente. Per qualcosa su cui non è sbagliato, una volta tanto, spendere la parola vocazione.
Il pericolo per noi, è non accorgerci. E’ farci prendere dall’idea che tanto non cambia niente. Idea pericolosa, falsa e pericolosa. Perché rafforza la stasi, la permanenza in stati di bassa energia, di scarsa creatività, di speranza ridotta. Di vita a freno a mano tirato. Quando l’alternativa, invece, esiste.
Questo che segue è appena un appunto (altri post seguiranno, qui o in altra sede) su un esperimento che rientra in questo filone virtuoso, significativamente chiamato La Scuola Visionaria. L’esperimento è pilotato dalla Prof.ssa Carla Ribichini (coautrice del libro omonimo, insieme con Palma Mirella Iannucci).
Come recita il progetto stesso

L’educazione visionaria è quella che sperimenta nuove pratiche, progetta e crea percorsi in cui gli aspetti cognitivi e quelli educativi non sono mai vissuti separatamente, ma si intrecciano continuamente.

L’esperimento ha un tempo e un luogo, come ogni esperimento che si rispetti. Il tempo è quello presente (ma non solo, le radici sono ben sviluppate e si estendono felicemente indietro), il luogo è l’Istituto Comprensivo Corradini (Vermicino, comune di Roma).
In tale ambito, sono intervenuto due volte nel loro pregevole laboratorio, per parlare di scienza e poesia, a maggio di quest’anno. Gli incontri hanno registrato una presenza di un gran numero di ragazzi ed anche di insegnanti. Devo confessare con stupore che l’attenzione e il coinvolgimento, sia dei ragazzi che degli insegnanti, sono stati realmente gratificanti.
Si parla dell’universo: lo spicchio conosciuto, e la gran parte ancora da comprendere…
Lo sguardo attento e partecipe dei ragazzi, sempre sul pezzo anche quando si entra nel regno della fisica non conosciuta, della necessità di un sapere globale e olistico, per la crescita della persone. Capisco che c’è del materiale umano formidabile, che non possiamo perdere, disperdere. Ma non è solo quello.
E’ come se capitassi in un campo che è già stato sapientemente coltivato, pazientemente arato, sistemato. Capisco che c’è un lavoro degli insegnanti, dietro tutto questo, un lavoro non di oggi, ma di tanti giorni, tante occasioni. E certi insegnanti, sono eroi: lottare contro lo scoraggiamento, le difficoltà personali, le condizioni della scuola. Lottare per donare ai ragazzi qualcosa, una speranza, un riposo nuovo. Eroi, senza retorica.
Ma lo dicono anche i ragazzi (cito dal libro La scuola visionaria)

Gli insegnanti sono eroi perché ci trasmettono la sapienza del mondo.Ci insegnano la poesia letteraria e quella corporea che colma il vuoto interiore riempiendolo di gioia. Sono eroi, ma non quel tipo di eroi con la calzamaglia e i super poteri… il loro potere è quello di incantare gli alunni con la voce del cuore. (Ivan)

Ed ancora

Lo studente cerca negli occhi degli insegnanti la certezza che la sua vita sarà perfetta o quasi. Gli insegnati sono balsamo quando nei nostri cuori c’è aria di tempesta, sono gentiluomini che custodiscono la nostra vita e si dedicano a noi con amore (Elisabetta)

Tanto altro si potrebbe estrapolare, ma questo, nel candore delicatissimo e commovente di cui sono capaci solo i ragazzi (e chi realmente torna bambino, facendo proprio il monito evangelico), è già sufficiente per definire uno spazio di azione, ed insieme un senso compiuto a questa opera.
Che è un’opera grandissima, da condurre dunque con grandissima umiltà. Perché si tratta appena di questo, di mettersi a servizio di qualcosa, di un’idea presente, di una presenza, di una bellezza che investe l’uomo e lo rende sempre irriducibile a qualsiasi logica di mercato. Gli regala una rinnovata dignità.
Qui, solo qui, scienza e letteratura si possono incontrare, nella declinazione — anche balbettante — di un nuovo universo, dove l’uomo torna al centro di tutto. E dunque tutto torna, può tornare, più umano.
Qualcosa di così bello, per cui vale la pena affrontare il rischio. Per cui vale la pena, dedicare ogni sforzo. Per cui vale la pena, sopportare ogni pena.
Così recita infatti il libro, nella quarta di copertina:

Una scuola animata da idealismo ed amore visionario esercita un potere che rimane per tutta la vita e la trasforma.

A quale ideale più bello, più santo, potremmo mai pensare di dedicarci?

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