Lo scriveva già Luigi Giussani negli anni Ottanta, nel celebre testo Il senso religioso (forse uno dei suoi testi più moderni, ancora leggibilissimo adesso):
L’atteggiamento scientifico – nel senso proprio del termine – già sappiamo che non potrà esaurire l’attenzione all’esperienza. Proprio per “esperienza” viviamo moduli e fenomeni che non si riducono all’ambito fisico-chimico.
C’è infatti un’idea di scienza, quel senso proprio appunto, che ormai avvertiamo subito come parziale. Perché appunto, non esaurisce l’attenzione all’esperienza. Da questa attenzione, credo, bisogna ripartire per recuperare l’umano, che è l’unica cosa che ancora – in questo clima pazzesco di distruzione e devastazione, in questo teatro di guerra planetaria – davvero l’unica cosa che ci può ancora interessare.
Ma attenzione. Qui l’unione di Terra e Cielo deve subito entrare in gioco, per non ricadere in ennesime parzialità. Qui la cosmologia interiore e quella esteriore devono unirsi, anzi si rende necessario intraprendere un percorso, dalla prima alla seconda (e ritorno). Attivare, riattivare, questo salutare ricircolo.
Perché tutta questa crudeltà planetaria che i telegiornali ci portano in casa ogni sera (nociva anche a subirla, tanto che sarebbe meglio spegnere e fare meditazione), si nutre del vecchio modello riduzionistico, e cresce sulla dimenticanza di Sè, della propria regalità.
L’essere umano, con i piedi ben piantati a terra, ha sempre alzato gli occhi verso il cielo, sia alla ricerca dei confini fisici dell’universo, sia alla ricerca di dimensioni altre. Ma qual è l’attuale visione scientifica del cosmo, dell’uomo e delle relazioni, anche simboliche, tra questi due universi? E quanto ci stiamo dimenticando di essere ponte tra Terra e Cielo, tra infinitamente piccolo e infinitamente grande?
Più volte ci siamo richiamati alla necessità di pensare un cosmo accogliente, uscendo dall’arcaico (ma perdurante) teatro concettuale che ci descrive un universo freddo, statico, indifferente a noi. Constatata la necessità, dobbiamo ammettere al contempo che non ci viene facile: c’è come una resistenza, una forza di inerzia, che viene esercitata in senso contrario a questo nostro desiderato e fondamentale percorso di liberazione psico-cosmico.
Senza girarci troppo attorno, credo sia lo stesso assetto della società in cui viviamo, che esercita questa resistenza. Il sistema neoliberista (efficacemente definito da Marco Guzzi come “estremizzazione del pensiero economico-liberale che porta alla cancellazione di ogni limite per il mercato e, quindi, di ogni controllo da parte degli stati nazionali nei confronti di entità multinazionali e delle corporations”) – che si espande ormai in uno spazio vuoto, non incontrando più la pressione contrastante di visioni differenti – ha assoluto bisogno di persone che non lo contestino, che si accontentino, che non sia accorgano, soprattutto, di essere re o regine.
Ci sono canzoni che rimangono, e altre che volano via subito. Ci sono pezzi che traversano i decenni, e con il tempo diventano solo più robusti, si assestano in un loro ambito, creano il loro spazio. O meglio, lo spazio per loro c’era, e lo riempiono bene. Esiste lo spazio, per tutte le cose utili. C’è sempre, questo spazio. Forse solo le immondizie musicali per dirla con Battiato, faticano a trovare spazio, non lo trovano facilmente, non si sedimentano, rimangono appena un istante, ad aggiungere rumore a rumore. Il rumore dell’inutilità.
Sono di parte, ovviamente, e voglio esserlo. Sono convinto, per ribadire, che tanto di Sanremo 2021 volerà via presto, e non lo rimpiangeremo. Sì sono di parte, persuaso che è necessario per dare sapore al discorso, per non sbiadirsi nel politicamente corretto e nel lodare tutto ciò che è contemporaneo, nel mostrarsi comprensivi e aperti fino a non distinguere più la fuffa dalla sostanza, fino magari ad avere una buona parola per tutto, che è l’anticamera della dispersione (e della disperazione) più completa.
Peraltro, alla fine è il tempo che decide. Il poeta e filosofo Marco Guzzi, nella sua appassionata conferenza su Holderlin di qualche mese fa, raccomandava di frequentare principalmente quei libri che hanno traversato i secoli. Credo si possa dire anche per la musica, e per la musica moderna ugualmente (magari restringendo un poco l’arco temporale per la verifica).
Il cantautore inglese Cat Stevens, classe 1948, è noto anche in ambito extramusicale per la sua improvvisa conversione all’Islam, che lo indusse ad un prolungato silenzio. Aveva calcato con grande successo le scene musicali degli anni settanta del secolo scorso, consegnandoci capolavori ispirati e sognanti. Come Tea for the Tillerman, per esempio. Album uscito esattamente nel 1970, che contiene canzoni ancora notissime come Wild Word, che conoscono (e forse canticchiano) perfino i sassi. O anche, Father and Son.
Incontrai questo disco durante una vacanza all’Argentario a casa di un amico, avvenuta appena dopo il conseguimento della maturità (partimmo in quattro in bicicletta da Roma, fu un’impresa, di quelle che invecchiando inizi a raccontare a tutti, temo anche a sproposito). Era su una cassetta Stereo 8, se ben ricordo. Veramente, cose di un’altra epoca, ormai.
Un album che ho amato tantissimo, da allora. Che ancora amo. Qualcosa capace, appunto, di traversare i decenni (all’anagrafe, sono cinque abbondanti, da quando è stato registrato). Se lo ascolti adesso non ti sembra datato, non senti quel sapore di arrangiamenti vecchi, di schemi abusati. Forse per la sua essenzialità (non concede molto a vezzi armonici che non siano funzionali al progetto), la sobrietà espressiva – unita ad una robusta vena melodica – riesce ad uscire indenne dal consumarsi delle varie mode musicali.
Va da sé, in molti hanno ripreso questi brani, hanno realizzato cover, hanno provato a renderli più attuali (cosa che appunto, secondo me, non serve). Ma il disco originale del 1970 è rimasto comunque il punto di riferimento. Cinquant’anni e passa, portati decisamente bene, che altro dire.
E tutto sarebbe rimasto così, magari. Se non che, il maestro ha deciso di ritornare sulle scene, da qualche anno. Certo è invecchiato, ma la sua figura è ancora affascinante e – quel che più conta – la sua voce è notevole.
E nonostante l’età, non ha paura di confrontarsi con il suo passato più glorioso. Ma i veri artisti sono così, riprendono il loro passato e ci giocano. Mi viene in mente Mike Oldfield con il suo incredibile Return to Ommadawn, per citare qualcosa di quasi altrettanto recente.
Cat Stevens ha deciso di ripercorrere tutto l’album che lo ha reso immortale, canzone per canzone. Interpretandolo nuovamente, a cinquant’anni di distanza. Ecco dunque che nel 2020 – l’anno terribile della pandemia – esce Tea for the Tillerman 2. Già qui mi sorprende. Prima ancora di ascoltare, mi incanta la mancanza di paura nel ritornare su qualcosa di così famoso. La tranquillità di non temere confronti, di proporre ancora qualcosa e non lasciare un album come questo, a sfavillare indisturbato nella sua gloria.
Nel brano di apertura, da come la vedo io, c’è già il senso di questa operazione. Where Do The Children Play è fedele all’originale, fino al dettaglio, eppure allo stesso tempo è nuovo. Qui c’è l’alchimia segreta che governa tutto l’album, in proporzioni variabili a seconda del brano, ma presente dall’inizio alla fine. Le nuove interpretazioni non stravolgono, non negano, non fanno violenza alle vecchie. Piuttosto, costruiscono su una fedeltà al dettato originale. Fedeltà dalla quale, soltanto, può veramente nascere il nuovo. Il nuovo nasce sempre da un’amore a ciò che esiste, da un (anche implicito) omaggio alla tradizione.
E mi meraviglio, di fronte ad alcune variazioni così semplici, ma anche così inaspettate, di come nessuno ci avesse mai pensato. In questi anni, nessuno l’ha fatto. Qui credo che conti moltissimo il fatto di averle scritte, queste canzoni. Sì, capisci che l’autore ha in testa uno spettro ampio di possibili incarnazioni di una idea, e che quella che decenni fa è finita sui dischi, è appena una delle molte possibilità. Perché qui magari ne sceglie altre, con una facilità e sapienza che tu non capisci da dove venga fuori. Cioè, nessuno come chi ha ideato qualcosa, riesce a modificarla e a rinnovarla così efficacemente, rimanendo fedele all’idea originale.
Questo rimane vero perfino nella canzone forse più sorprendente del nuovo album, Longer Boats, dove la rivisitazione è così profonda da cambiare perfino delle strofe, e dove c’è una virata decisa sul rap così temeraria che nessuno se non l’autore stesso avrebbe mai osato. Due minuti e mezzo assolutamente geniali, che rimani a bocca aperta. Tu, con la tua idea che Cat Stevens sia una cosa, e il rap un’altra. Con le tue caselline ben separate nel cervello.
L’espressione artistica scombina le varie caselline, frulla via allegramente tutte le distinzioni tra generi, tutte le gerarchie di valore che ci costruiamo. Tutte le nostre comodità mentali – ordinariamente così dure – si sciolgono come neve al sole, davanti alla pura meraviglia di qualcosa di bello. Sia un quadro, un libro, un film. O come qui, una canzone. Che acquista nuova forza, senza rinnegare sé stessa, senza abiurare al proprio passato.
E convince che Cat Stevens con questo rinnovato atto di amore al proprio passato – passato che per un lungo periodo ha voluto silenziare – ci mostra come l’arte è amica della vera spiritualità, anzi che l’arte costituisce parte essenziale di ogni cammino spirituale. E che la forza di certe canzoni, non si smorza con il passare del tempo. Perché dietro le canzoni c’è un’idea e ogni forma è provvisoria. Chissà, se Beethoven fosse qui ora, come rivisiterebbe la Quinta, ad esempio. E certo non perché abbia bisogno di essere rivisitata! Del resto, mutatis mutandis, nemmeno queste canzoni ne avevano bisogno.
Ma la vera arte si esprima come una misteriosa sovrabbondanza. L’ha sempre fatto, e non dubito che lo farà ancora ed ancora. Per il diletto profondo del nostro cuore, e per venire incontro al nostro bisogno di consolazione, anch’esso così misteriosamente grande.
Leggo dal testo Yoga e preghiera cristiana, di Marco Guzzi, una frase che squarcia il velo su tanti malintesi, in materia di fede e spiritualità. Essenziale come non mai, oggi (ok, almeno per me).
E’ invece solo attraverso la seria ed umilissima adesione ad un cammino storico concreto che io potrò poi vivere anche la grandissima transizione antropologica che stiamo sopportando, e le trans-figurazioni misurate e corrette delle stesse tradizioni religiose che essa richieda. Ma non illudendomi di poter scavalcare in toto il punto più difficile e dolorosa della nostra trans-figurazione, e cioè appunto l’umiltà an-egoica del credere e del seguire.
Diceva un bel canto di Claudio Chieffo, che “è bella la strada per chi cammina”. Quel cammina che sintetizza mirabilmente, a mio avviso, proprio la frase che ho estrapolato dal testo di Guzzi.
Ecco, l’umiltà anegoica del credere e del seguire. Proprio quella, vorrei riscoprire. Sono così perso così spesso nel dar fiducia ai miei ragionamenti circolari, che mi dimentico di questa fondamentale verità (assolutamente condivisa da tutte le tradizioni spirituali). Di queste due paroline che liberano dalla schiavitù del proprio pensiero, dello sforzo eroico di tenere in piedi il mondo, dandogli senso.
Marco, rilassati. Non devi dare senso al mondo, devi appena riceverne il senso. Non è uno sforzo progettuale e concettuale che ti è richiesto, ma un atto di cedimento, piuttosto.
Lasciare il comando, fidarsi. Difficilissimo, siamo d’accordo. Eppure, concettualmente, di una semplicità dell’altro mondo, proprio.
Rosa la incontro la mattina del mio secondo giorno, subito dopo la Messa. Sono arrivato sabato pomeriggio, in compagnia di altri amici ciellini (così si apostrofano, anche tra loro, le persone vicine al movimento di Comunione e Liberazione): Daniela, Loredana e Michele. Il mio equipaggio, in poche parole.
Da qualche anno, da quando ho riscoperto con più chiarezza l’attrattiva della sequela nel movimento, cerco di non mancare un passaggio al Meeting di Rimini, almeno per un paio di giorni. Lo sento parte del mio cammino, uno dei punti forti dell’anno, qualcosa che innerva di senso e significato lo stesso procedere.
Quest’anno però ci si era messo proprio tutto, inclusa — in prossimità della partenza — perfino la rottura della macchina in autostrada. Ero quasi certo di dover rinunciare. Invece eccomi, sabato verso le cinque sono ormai quasi alla Fiera, con la fretta di arrivare in tempo per l’incontro introdotto da Marco Bersanelli, quello sulle onde gravitazionali. Quello — mi dico — lo “devo” proprio prendere.
Rosa poi mi avrebbe scritto (o come si dice oggi, messaggiato).
Al Meeting 2016 mi ci ha portato Alice, mia cognata. Lei, che ci va da quando aveva sedici anni, tutti gli anni, ad ogni angolo incontrava qualcuno da salutare. Io la seguivo docile, accettando le mostre o i convegni che mi proponeva, in qualche caso aggregandomi a sue amiche, se la proposta mi convinceva maggiormente e se il gruppo si scindeva.
L’incontro condotto da Bersanelli — che ospita Roberto Battiston, Presidente dell’Agenzia Spaziale Italiana e Laura Cadonati, Professore Associato presso la Scuola di Fisica del Georgian Institute of Technology, è denso e molto valido, per tutti. Per me è anche un anticipo regalato di questa “altra” idea di scienza, che tentiamo di sviluppare anche dentro il movimento Darsi Pace: una idea di scienza, in poche parole, aperta alle istanze della cultura e della spiritualità. Dunque, un incontro subito e pienamente darsipacista, appena arrivato. È certo un buon inizio.
Ma è così, ormai. L’avrei confidato a Rosa il giorno dopo: ho perfino smesso di contare le concordanze, non distinguo più se un pensiero, una citazione, uno spunto, mi vengono da Comunione e Liberazione oppure da Darsi Pace (molte volte perfino le fonti delle citazioni sono le stesse). Io la vedo così: al di là delle sigle, delle declinazioni organizzative, c’è l’unificazione delle forze. Come insegna la fisica, ad alti livelli di energia tutto è uno, la diversità si ricompone, si integra: è la strada, la strada dove sono stato posto. Io, di mio, non ho deciso proprio nulla, di mio non decido mai niente: l’unica cosa che posso decidere, l’unica cosa che mi è richiesta, è il mio assenso a seguire, a rimanere — e a ritornare — sul cammino.
Ma non dovrei stupirmi. In Darsi Pace faccio questa strada in compagnia di ex anarchici, di suore, di persone della più varia estrazione e storia. Ognuno integra il percorso, con la sua specifica formazione, e per ognuno — mi pare — accade questo miracolo di integrazione.
Una strada che si snoda ormai dall’ottobre di due anni fa, e che mi ha regalato tanto, e soprattutto una grande ricchezza umana, articolata in incontri, sorrisi, incoraggiamenti, intese. Capisci finalmente il conforto di tante persone che camminano insieme con te: attraverso di loro vedi che le tue debolezze non sono obiezione a niente, ma proprio a niente. Una cosa che da solo, probabilmente, non capiresti mai.
Sì, l’avrei detto a Rosa la mattina dopo, tutto si integra. Se la incontro è poi colpa di Facebook (ma in fondo se sono nel percorso Darsi Pace è sempre ed ancora “colpa” di Facebook, per quel post che intercettò il mio interesse, qualche anno fa). È lui che, alquanto impiccione, mi avverte che ho un amico nelle vicinanze. Avverte anche Rosa, ovvio. E così ci mettiamo in contatto.
È stata una gioia per me incontrare due “insorti”, due persone conosciute al Seminario di Trevi: uno, è un Astrofisico e l’altro un Parroco.
D’accordo (a proposito, io sono l’astrofisico, ovviamente). Ci si vede la domenica mattina, subito dopo Messa.
Bellissima la Santa Messa di domenica 21, Spettacolare il flusso ordinato con cui i ciellini si muovono per l’eucarestia.
La sera del sabato, sono allo spettacolo di Paolo Cevoli, “Perché non parli”. Bello, certo un pelino forse richiede attenzione e concentrazione, perché fa tutto da solo. Non hai il conforto di un dialogo, che magari alleggerisce. Ma è bravo, e soprattutto si respira una buona aria. Quella buona aria di misericordia, che si sente un po’ dovunque, qui in Fiera.
E certo, di bella allegria.
L’allegria totalmente non forzata dei volontari al meeting — è questo spettacolo che mi si rinnova ogni volta che vengo, che dissolve gli strati di cinismo che la vita distratta mi mette addosso. D’altra parte, l’allegria non forzata di qualcuno, la letizia anche solo come accenno, è qualcosa con cui comunque fare i conti, qualcosa che non ti lascia tranquillo, ti spinge a cercare, a capire. Qualcosa che si ripercuote in ogni angolo, agli shop, ai bar, alle mostre. Quello che riescono meglio, quelli che patiscono l’affollarsi delle persone. Tutti.
Le mostre che ho visto mi hanno emozionata. Più di tutte “L’Abbraccio Misericordioso” che anche nei testi del catalogo ho trovato molto affine al pensiero di DP; la mostra su “Madre Teresa” mi ha straziata e anche “American Dream” un viaggio tra i Santi Americani, è stata di grande impatto emotivo. Ho trovato poco piacevole, ma per la disorganizzazione che ha visto far accavallare i gruppi facendo perdere ogni senso, “Restaurare il Cielo”
La mattina di domenica dopo la Messa, mi trovo dunque con Rosa vicino alle piscine. Rosa sta per iniziare il primo anno in Darsi Pace, dopo essere stata a Trevi per la settimana “insurrezionale” (e avere visto una sbaraccata di video di Marco Guzzi, come mi dice). La incontro in compagnia di sua cognata Alice. Ha il mio stesso entusiasmo, Rosa: quello di trovare nel meeting mille cose che hanno un sapore darsipacista.
Parliamo un po’, ed è come se ci conoscessimo da sempre. Quando ti muovi su un territorio comune, sembra che il dialogo sia più efficace. Ci si comprende meglio, più rapidamente. Lo stupore comune di quello che si sta vedendo in opera, rende tutto più facile. Dobbiamo riportare Marco al meeting! ci diciamo — entusiasti come bimbi — e ci pare al momento un’idea di straordinaria importanza. L’aria che si respira qui è un’aria amica a Darsi Pace. Dobbiamo lavorarci. Farlo venire per un incontro. Già, gli incontri, appunto.
Dal punto di vista degli incontri ce n’erano tanti e in contemporanea. Di sicuro non era facile garantire per tutti la stessa qualità, Molti, molto belli, intensi. Mi limiterò a citare quello che mi è piaciuto di più. Il preferito, “Un abbraccio che cambia la storia” con Mons. Paolo Pezzi, Arcivescovo di Monza e Vladimir Legoyda, Presidente dei Rapporti Chiesa — MassMedia del Patriarcato di Monza, con moderatore Alberto Savorana.
Lascio le due donne, con una bella impressione per la loro serenità. Saprò dopo, con grande stupore, che hanno attraversato un dolore molto forte, una grande perdita. A volte, vedo che persone sottoposte dalla vita ad un forte scossone sono proprio quelle che cercano con più serietà, come avessero sfrondato il cammino da tante cose inutili, da tante preoccupazioni di superficie. E questo si riverbera intorno, non c’è dubbio.
Il pomeriggio di domenica è molto denso, con gli incontri di Luca Doninelli sul tema del meeting, Tu sei un bene per me (ovvero, esclamerebbe la mia parte darsipacista, la bellezza inesausta della vera modalità relazionale, del superamento dell’io ego-centrato!), e quello di Davide Rondoni, uno dei poeti contemporanei che ammiro di più, su Shakespeare ed il senso dell’altro in Amleto.
Tutto, tutto rimanda a questo rapporto con l’altro (e con l’Altro), e tutto acquista un senso più vero, più sanguigno, più reale, dopo che questi due anni in Darsi Pace mi hanno fatto comprendere quanto questo rapporto con l’altro, compreso come fonte di bene, non sia scontato ma sia come un termine di un cammino, un già e non ancora. Un cammino innanzitutto dentro di sé, di cui qui si ritrovano le ragioni. In mille incontri e mille diversi linguaggi, più o meno efficaci.
Ho apprezzato particolarmente il linguaggio chiaro e diretto di Vladimir Legoyda del quale ho annotato una frase in particolare sul mio taccuino “Il cristiano non ha altro modo di cambiare il mondo se non innanzi tutto cambiando sé stesso” (che ne dite?) Non mi è piaciuto ad esempio “Le città non possono morire” soprattutto per l’emersione di un linguaggio ancora troppo politichese e mi pare avulso da vere soluzioni operative.
Ma l’incontro che mi colpisce di più è senza dubbio quello che chiude il mio meeting. Ripartirò infatti lunedì a mezza giornata. E prima faccio in tempo ad assistere all’incontro condotto da Roberto Fontolan, “Quale Islam in Europa”, con Wael Farouq, Docente di Lingua e Letteratura Araba all’Università Cattolica di Milano, e con Aziz Hasanovic, Gran Muftì di Croazia.
Qui — proprio sul punto di lasciare la Fiera — accade un piccolo miracolo interiore.
Qui la commozione per la testimonianza anche di chi ha profondamente sofferto e ciononostante ha scelto la modalità relazionale come approccio con l’altro, con le persone di altra fede, diventa commozione di me che ascolto. E gratitudine, vera gratitudine per l’offerta di una chiave interpretativa non bellica e pienamente realistica del rapporto con l’Islam. E in ultima analisi, del rapporto con chi è differente da me per visione del mondo, ma fratello, pienamente fratello in umanità. È la gioia purissima di un abbraccio, di sentirsi finalmente abbracciati, che mi rimane addosso mentre mi avvio alla stazione del treno.
Se devo trarre una conclusione direi che “L’abbraccio” in congresso, in mostra, in verità è il simbolo della resa del cuore, della nostra guarigione, della guarigione del mondo. L’abbraccio, nella misericordia.
Tutto si può dire del Meeting, di tutto si può ragionare: e questo non intende essere un intervento apologetico, né del meeting né di CL. Ma ecco, la Misericordia si avverte. Una misericordia a tutto campo, che non sopporta etichette o sigle o tessere di appartenenza. Mentre mi porto dietro questo abbraccio, i volti, i visi di tante persone di buona volontà, mi accorgo che il cinismo che mi avvelena così spesso nell’ordinario, non è l’ultima possibilità, è solo una (pessima) scelta. Una scelta che si può rivoltare, come un calzino.
Si può sperare, infatti. Si può camminare, perché la strada esiste.
Una strada — ne sono certo — che si può per larghi tratti percorrere tutti insieme, ma tutti. Tutti quelli che non hanno rinunciato a sperare, qualsiasi cosa credano o non credano.
Tutti.
Per darsi pace, la strada c’è: passa per gli incontri, i volti. Passa per l’uomo, coinvolto da Qualcosa di grande: quel soffio che per un momento lo distrae perfino dal suo limite, lo lascia a bocca aperta. A ritrovarsi addosso l’accenno di questa illogica allegria (per dirla con Gaber), fonte e ragione del cammino della vita.
—
Gli interventi in corsivo e rientranti sono di Rosa, il resto del testo è del sottoscritto.
Versione rivista del post pubblicato sul blog DarsiPace il 15 settembre 2016.
Sono io in crisi con la religione o è la religione stessa ad essere in crisi? Bella domanda. Del resto, l’osservatore influenza il fenomeno, me lo dice la fisica. Ma la crisi c’è, su questo non posso barare.
Non basta ripetermi “Dio mi ama, Gesù è morto per me” perché tutto vada a posto. Luigi Giussani diceva anni fa come “Quello che manca nella Chiesa non è tanto la dizione letterale dell’annuncio, ma l’esperienza di un incontro…” e la verità di queste parole mi brucia aspra sulla pelle.
Siamo sofisticati, oggi. Non mancano certo le offerte spirituali, nell’odierno mercato globale. Né mancano variegate proposte di percorsi psicologici, le innumerevoli ginnastiche, o le offerte culturali, quelle letterarie o specificamente poetiche. Ogni proposta sul “mercato” è sovente capace di andare in grande dettaglio in quello che propone, affondare “in verticale” su un determinato e ben specifico segmento. Ma rimane come chiusa in sé stessa, slegata da tutto il resto. Quello che non trovo, è una visione forte che garantisca una unificazione armonica di tutto questo. Che sia necessaria e non appena un anelito culturale o estetico, me lo dice – assai concretamente – la mia sofferenza. C’è un vuoto, che fa male. «È l’umanità che ha abbandonato la Chiesa o è la Chiesa che ha abbandonato l’umanità?» si chiedeva realisticamente Giussani, citando Eliot. C’è una ferita da abbandono, comunque, da sanare.
Darsi Pace può essere un approccio utile per lavorare (in) questa crisi. Arriva come ipotesi di risposta ad una ricerca che avevo dovuto avviare, non certo per motivi di erudizione, bensì spinto da un malessere sempre più pungente. Il malessere che mi ha spinto, più di un anno fa, a vincere paure e resistenze e cercare aiuto da un terapeuta. Quel malessere che mi ha portato a leggere di psicologia, iniziando a comprendere che c’è molto di più dell’ambito asfittico in cui vedevo avvizzire la stessa scienza e il mio lavoro di astrofisico, e che “quello che non si vede” ha una influenza decisiva sul benessere dell’anima. Quel pungolo che mi porta a frequentare la poesia, che trovo sia ormai l’unico modo di esprimersi totalmente “non retorico”. Oppure ad interessarmi ai filosofi orientali e allo Yoga, superando le mille resistenze interne ed esterne (“ma è robba da cristiani? E’ peccato? ma non te stai a sbajà? E se poi perdi la fede? Se mi diventi buddista, induista?”).
Questa crisi mi ha portato a sentire spesso la fede come drammaticamente scollegata dai miei entusiasmi, dalle mie pulsioni: sovente – nelle pratica di vita – tradotta quasi esclusivamente in una serie di gabbie morali contro cui covava e cova (con imbarazzo e sensi di colpa) un forte ed indistinto risentimento. In questo senso, nell’approccio di Darsi Pace ho intravisto una possibilità percorribile di tenere la fede e tutto il resto, insieme, in armonia.
Nessun’altra proposta psicologico-spirituale che finora ho incontrato mostra di prendere sul serio tutto quello che il mio cuore mi indica come valido, dalla meditazione orientale ai testi di Jung, alla poesia. Nessun’altra proposta mi dice così chiaramente che se spesso non avverto la divinità come amore ma come severo giudice non è perché sono sbagliato (…e via con altri sensi di colpa!) ma è solo perché devo fare un percorso, devo guarire.
Il malessere adesso assume parvenze più lavorabili. In darsi pace ho una ipotesi di lavoro in più. Un luogo di salutare ricominciamento. Una possibilità di fare un cammino, o meglio, di integrare ed inverare il cammino spirituale che già faccio, psicologico (con la terapeuta) e culturale (nel mio lavoro di astrofisico) e artistico (nella mia vocazione per la scrittura, che mi ha sempre accompagnato, anche se non sempre l’ho voluta riconoscere). La scoperta, per me, è che questo nuovo e urgente lavoro non sostituisce niente, nemmeno le altre mie appartenenze – ecclesiali e non – ma le rende tutte più vere. Sorprendente, a viverlo.
Nell’ambito di Darsi Pace capisco che se sto male non è solo un problema mio personale, ma è legato ad un travaglio universale, cosmico. Così la domanda di partenza inizia ad ammorbidirsi, gemmano possibili traiettorie di risposta. Che differenza vedere i miei personalissimi disagi – che iniziano a diventare più morbidi – sotto questa luce!
Già, ammorbidire il disagio, lavorare la crisi, senza più scandalo.
«Nella conversione e nella calma sta la vostra salvezza, nell’abbandono confidente sta la vostra forza» (Isaia, 30, 15)
E’ questo il motivo per cui darsi pace, ora, è diventato così importante nel mio percorso. La foto rappresenta un’immagine astronomica del centro galattico, sede di intense trasformazioni e di un ‘travaglio cosmico’ veramente impressionante Se guardiamo al cielo, scopriamo che – a differenza di quanto si pensava un tempo – l’Universo stesso è in subbuglio e in furiosa trasformazione, non è mai stagnante: l’astronomia moderna ce lo mostra continuamente, suggerendo evocative connessioni con il palpito del cuore dell’uomo moderno. In particolare, la zona centrale della Via Lattea è un posto dove bellezza e violenza convivono fianco a fianco, intarsiato di zone dove nascono tumultuosamente nuove stelle, dove cioè il nuovo si origina in una sorta di continua nascita, mentre il vecchio viene spazzato via e fagocitato dal buco nero di grande massa, che vi si trova al centro.
Eccovi qui una recente intervista che ho rilasciato di recente a Marco Staffolani per Tendopoli, la rivista dell’omonimo movimento. Ringrazio Marco per avermela proposta, è stato bello e divertente prepararla. Trovate l’intervista anche su GruppoLocale.it 😉
Ciao Marco, benvenuto in questa rubrica scientifica del giornale Tendopoli. Descrivici brevemente chi sei, la tua famiglia, il tuo lavoro.
Ciao Marco, sono lieto di fare il mio ingresso nel vostro giornale!
Due parole sul sottoscritto, prima di addentrarci nella scienza? Ebbene, io sono Marco Castellani nato a Roma nel lontano novembre del 1963. Dopo il liceo scientifico mi sono iscritto alla facoltà di Fisica presso la (allora neonata) Seconda Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”, dove mi sono laureato nel 1990. Nella stessa università ho conosciuto Paola, una bella ragazza che frequentava il corso di laurea in Biologia e che poi, nel 1991, sarebbe diventata mia moglie. Ora viviamo sempre a Roma e abbiamo quattro figli, Claudia, Andrea, Simone e Agnese. Per quanto riguarda il percorso professionale, dopo la laurea ho conseguito il dottorato in Astronomia, e infine sono entrato a tempo indeterminato presso l’Osservatorio Astronomico di Roma, dove ora ricopro il ruolo di ricercatore.
Riguardo le mie passioni, ho sempre avuto un forte interesse per la scrittura creativa: in questi ultimi anni ho scritto diversi racconti e raccolte di poesie. In particolare un racconto, “La bambina e il quasar” è stato recentemente proposto in una scuola media inferiore, grazie all’entusiasmo di una professoressa di scienze. La cosa è stata per me di grande soddisfazione, in particolare i commenti degli alunni mi hanno decisamente gratificato. Ho al mio attivo anche un romanzo vero e proprio, “Il ritorno”, il cui nucleo è stato realizzato partecipando al “National Novel Writing Month” del 2009, un’avventura pazza ed entusiasmante il cui scopo era di scrivere 50.000 parole in un mese. Ce l’ho fatta e ne sono piuttosto fiero! Per questo e altro maggiori informazioni si trovano sul mio sito, www.marcocastellani.it (in particolare, segnalo la sezione “libri“).
Insomma, un astronomo ma non solo! Ma entriamo nell’argomento della rubrica: proprio alla fine dell’anno appena passato, il 19 dicembre, è partita la sonda GAIA, un progetto europeo nel quale l’Italia ha contribuito molto. Questo nome è curioso! può dirci quale è lo scopo di questo missione?
Certamente! Partirei proprio dal nome: GAIA sta per “Global Astrometric Interferometer for Astrophysics”, è una missione spaziale astrometrica realizzata dall’ESA, l’ente spaziale europeo. In realtà la parte di interferometria è stata da tempo abbandonata in favore di nuove specifiche per il progetto, ma il nome originale è rimasto (a volte noi scienziati siamo pigri, e poi GAIA era molto carino…). E’ un progetto molto grande ed ambizioso, che già da diversi anni coinvolge un gran numero di ricercatori e tecnici che collaborano da diversi paesi europei. In vari sensi si può intendere come la continuazione (enormemente migliorata) del progetto Hipparcos, una prima sonda dedicata all’astrometria (la misura della posizione e delle velocità delle stelle) che – nonostante le limitazioni – ha consentito un deciso passo avanti nella nostra conoscenza della Via Lattea – la grande galassia entro la quale viviamo – della quale sappiamo molto ma ancora molto ci rimane da comprendere.
Se pensiamo che GAIA compilerà un catalogo di circa un miliardo di stelle – per le quali avremo misure accurate di posizione e di moto proprio – a fronte di circa 120.000 facenti parte del catalogo finale di Hipparcos, abbiamo un primo sentore del gigantesco balzo in avanti nella conoscenza che promette la missione stessa. Da GAIA ci aspettiamo una vera e propria “mappa” tridimensionale della Galassia, un’opera davvero senza precedenti! Il lancio di GAIA è avvenuto con pieno successo appena prima del Santo Natale dello scorso anno, la mattina del 19 dicembre, dalla Guiana Francese. A bordo di GAIA vi sono due telescopi che hanno il compito di “spazzare” il cielo in maniera ininterrotta, mentre la sonda effettua una particolare orbita intorno ad un punto particolare dello spazio, chiamato “L2”, a circa un milione e mezzo di chilometri da terra. Nel corso dei suoi previsti cinque anni di autonomia, riuscirà a trasmettere a terra i dati di un elevatissimo numero di stelle. Inoltre, per maggiore precisione, ogni stella sarà osservata diverse volte: si pensi che dovremmo avere una media di settanta misurazioni per stella! Questo ci consentirà di raffinare la precisione delle misura a livelli finora impensabili, soprattutto per una quantità così grande di oggetti.
Quale è il tuo compito particolare in questa missione?
Per rispondere in maniera esaustiva, dobbiamo mettere l’occhio, sia pure rapidamente, a come viene concepita ed organizzata una moderna missione spaziale. Perché il progetto possa funzionare senza intoppi, è necessaria una divisione molto particolareggiata dei compiti, e un coordinamento preciso e puntuale tra le persone che lavorano nei diversi ambiti. Così ogni ricercatore si trova ad essere destinato ad una parte molto specifica del progetto, di cui è insieme massimo esperto e diretto responsabile. Il mio compito particolare, insieme con colleghi di Roma e di Teramo, consiste nel produrre e testare il software che si deve occupare di una situazione delicata ma frequente: l’estrazione dei profili stellari (ricostruire la “forma” delle stelle) dai dati, nel caso in cui le stelle risultino parzialmente sovrapposte sul rivelatore. Ci si aspetta che questo accada con grande frequenza, visto l’affollamento stellare della nostra Via Lattea (in particolare in zone come gli ammassi globulari, condensazioni di anche un milione di stelle in configurazioni a simmetria sferica, decisamente “impacchettate”). La sfida è stata tutt’altro che banale, perché abbiamo dovuto soddisfare i requisiti di precisione con quelli imposti dal coordinamento, di velocità di esecuzione e di interfacciamento con le altre procedure. Il compito non era facile, ma pensiamo di essere riusciti a fare la nostra parte. Ora speriamo che GAIA… faccia la sua, e che – completate le operazioni tecniche di verifica – ci mandi a Terra i dati che tanto attendiamo!
GAIA potrà trovare anche pianeti in altri sistemi solari. Credi che ci sia vita nell’universo? in caso come te la immagini?
GAIA potrà certo trovare pianeti all’esterno del nostro Sistema Solare: al termine della missione, intorno al 2018, ci si aspetta un numero di circa 8000 pianeti rilevati, che non è affatto poco! Purtroppo per le caratteristiche del satellite, e per la difficoltà intrinseca di tale ricerca, non saremo in grado di dire se in alcuni di essi vi sia o vi sia stata la vita, comunque sarà un grande passo avanti per stimare la probabilità delle configurazioni planetarie più adatte alla vita. Come scienziato che si attiene ai dati, devo dire che finora non abbiamo nessun indizio di forme di vita intelligente oltre il nostro, nell’Universo. E’ vero che la vastità dell’universo fa ritenere a molti implausibile l’idea che la vita come la conosciamo si sia sviluppata solo sulla Terra. Tuttavia non sono ancora del tutto chiare le probabilità dei vari fenomeni che darebbero origine alla vita, e la stessa origine della vita rimane un mistero. In tale situazione, considerazioni filosofiche e metafisiche possono portare un ricercatore a ritenersi, in cuor suo, certo della diffusione della vita, e un altro a ritenere che la Terra possa essere il solo pianeta che la ospita. Se comunque vi fosse, non me la immaginerei molto diversa dalla nostra: dopotutto, gli elementi “base” per la costruzione delle forme di vita sono uguali in tutto l’universo, e anche i meccanismi biologici e chimici che la governano.
Marco in questa rubrica trattiamo di scienza ma anche di fede. La fede e la scienza hanno avuto nel corso dei secoli un rapporto dialettico. La domanda sorge spontanea: tu come vivi fede nel tuo ambiente di lavoro?
Ritengo che vivere la fede nell’ambiente di lavoro di uno scienziato non sia troppo diverso da quanto può capitare ad un qualsiasi credente in un diverso ambito lavorativo, sai come sfida che come possibilità. Tra gli astronomi (il campo dove posso più propriamente esprimermi, per la mia esperienza) si rintracciano difatti tutte le possibili posizioni dell’animo umano davanti alle sfida e alla portata della fede. Da chi non crede a chi è agnostico a chi è devoto e praticante, si possono incontrare scienziati – anche di valore – che si fanno espressione di ognuno di questi atteggiamenti. Visto il momento storico, in ogni caso, mi pare che la sfida del cristiano sia di rendere ragione della sua speranza in un ambiente che, comunque, è ampiamente secolarizzato. La mia esperienza è che l’adesione alla fede renda più vivo e creativo anche il lavoro scientifico: Cristo non può non entrare in tutti gli ambiti! Vorrei citare al proposito un brano di Don Luigi Giussani, che intuì bene questa cosa già nella sua giovinezza “Una sera d’inverno in seminario, dopo cena (…), Enrico Manfredini insieme ad un altro nostro compagno, De Ponti (…), mi viene vicino e mi dice: «Senti, se Cristo è tutto, che cosa c’entra con la matematica?». Non avevamo ancora sedici anni. Da quella domanda, per la mia vita nacque tutto. Quella domanda convogliò ad iniziativa organica tutto quanto, di pensiero, di sentimento, di operosità, la mia vita sarebbe stata capace di dare.” (da “Tracce“, marzo 2005.)
Si sente spesso dire che l’Italia è una patria di cervelli in fuga. Che in Italia non c’è spazio per chi vuole fare ricerca. Tu come vedi questa situazione italiana?
Oggettivamente la situazione italiana dal punto della tutela e promozione di chi fa scienza o studia per farla, può sembrare sconfortante. E’ un dato di fatto che anche giovani di grande capacità sono costretti – per lunghi periodi o addirittura per la vita – a uscire dai nostri confini per trovare un posto di lavoro confacente alle loro abilità. D’altra parte è la società contemporanea che comunque premia le persone elastiche e disponibili anche a dei sacrifici, per cui non è così difficile che una persona di buona volontà e di buona applicazione possa comunque trovare una sua strada, anche se comunque deve mettere in conto di passare dei periodi all’estero. Da questo punto di vista, la situazione sembrava migliore nel passato, e la crisi dalla quale stiamo tentando di uscire non ci ha certo giovato. Nonostante tutto l’Italia continua a sfornare scienziati di eccellenza e siamo presenti in tanti progetti importanti (non ultimo certo il caso di GAIA, che ha una presenza italiana importante). La speranza è che tutto questo ci aiuti a sollevarci, a ripartire con rinnovato entusiasmo, e soprattutto a dare più speranze anche ai giovani che scelgono di laurearsi in materie scientifiche.
Molti giovani leggono questa rubrica. Che suggerimento daresti loro riguardo al futuro?
E’ una domanda delicatissima. Il suggerimento che mi sento di dare, in questo periodo di generale crisi che si esprime anche nel mondo del lavoro, è di mettersi in ascolto della propria interiorità, per capire il percorso al quale si è chiamati. Il criterio di scegliere un percorso di studi che “garantisca” il lavoro non è più un criterio valido, perché l’incertezza ormai raggiunge più o meno tutti gli ambiti. E’ piuttosto il momento di avere il coraggio di seguire la propria vocazione, fare silenzio dentro di sé e capire cosa veramente siamo “chiamati” a fare, per servire il Mistero e per servire, con la nostra opera, i nostri fratelli uomini. Sia che si faccia il lavapiatti, che si scriva, o che si indaghi l’universo primordiale; cosa che che dal punto di vista della dignità umana non fa assolutamente alcuna differenza.
Beh eccoci giunti alle battute finali. Marco, nella precedente puntata abbiamo parlato della cometa ISON. Come i lettori stessi avranno constatato nella notte di Natale non si è vista nessuna cometa nel cielo, segno evidente che la cometa non è riuscita a passare indenne il suo giro intorno al Sole che è avvenuto verso la fine di novembre 2013. Sarebbe stato sicuramente un bellissimo spettacolo! Ma se la cometa ci ha deluso, non è questa il solo astro che c’è in cielo. Penso di smuovere bellissimi ricordi tra i tanti tendopolisti facendoli ripensare allo spettacolo del cielo estivo sotto al gran Sasso: infatti l’esperienza comune per ognuno di noi guardando il cielo e le stelle, penso sia quella di percepire qualcosa che va oltre noi stessi. E per te? Che sensazione ti da guardare il cielo?
E’ proprio vero, ammirare il cielo è una esperienza affascinante. Il fatto che la cometa in larga parte sia stata purtroppo distrutta, non ci deve distogliere dall’esperienza incredibile che tutti dovremmo fare, almeno ogni tanto: rimettersi di fronte ad un cielo buio, magari lontano dalla città… per capire che, in realtà,tutto è, tranne che buio! Lo spettacolo della moltitudine di stelle, della fascia della Via Lattea, è qualcosa che fuor di retorica può essere solo provato, non certo descritto. Personalmente, rimirando la volta stellata, avverto un dolce senso di pace, e capisco che il creato è immensamente più ampio ed esteso di quello che di giorno avverto come “il mondo”. A differenza di altri, forse, non mi sento “perso” davanti all’immensità, piuttosto mi sento a casa. E’ meraviglioso pensare che Dio abbia creato tutto questo per noi… per me. Dal punto di vista umano, è una fantastica sfida alla logica di chi va “al risparmio”, negli affetti, nelle amicizie, nel dono di sé, nel “vivere intensamente il reale” (Giussani). E’ un Dio dell’abbondanza, quello che ha creato tutto questo, mi dico. E spero che il mio cuore spesso “in lotta” si apra definitivamente alla Sua più bella abbondanza, l’abbondanza della Sua misericordia e del Suo amore.
Sì, vi sono volte nelle quali, in seguito magari alla lettura di un libro, oppure alla visione di un film, si abbia desiderio come di ringraziarne l’autore, per l’arricchimento che sentiamo più come un “dono” che una nostra “conquista” (e per questo ne siamo appunto grati).
Con le modalità di connessione disponibili nella nostra era moderna, tra l’altro, ciò è spesso diventato una cosa possibile. Così, appena conclusa la lettura di questo libro, ho consultato il blog di Valerio Albisetti, ho trovato il contatto, e mi sono permesso di scrivergli un paio di righe.
Ho pensato poi di riprodurle qui sotto; magari a qualcuno potranno costituire come un “semino” per far nascere la curiosità intorno a questo libro, che a me è piaciuto molto…
Caro Valerio (se mi permetti il tono confidenziale), ti scrivo solo per dirti un grande “grazie!”; ho appena finito di leggere il libro “Il bello dell’età di mezzo”, veramente molto bello e, ritengo, davvero “di aiuto” per le persone, come me, nella fase intermedia del loro cammino esistenziale.
In particolare l’ultimo capitolo lo trovo di una progressione “gioiosa” veramente affascinante; capisco come il tuo coniugare psicologia-psicoterapia con la fede sia davvero un’opzione feconda e intrigante.. Ma questo forse, rifletto, è vero sempre: quando non pensiamo alla fede come una cosa a parte, ma le permettiamo di “fecondare” e rendere più – davvero – umane le nostre attività, è sempre un guadagno, umanissimo e prezioso…