Blog di Marco Castellani

Tag: tempo

Visioni di un’altra scienza

La scienza procede per lampi, illuminazioni. Visioni, in un certo senso. La scienza è sempre più grande di noi ma possiamo entrarci, comunque: ci lascia entrare, per vederla secondo la nostra sensibilità, il nostro gusto. In effetti è soprattutto una questione di gusto, come quasi tutto.

Questo dialogo che ho registrato sulla “nuova fisica” – con Gabriele Broglia, giovane ed appassionato insegnante di arti marziali, con la preziosa e precisa assistenza tecnica di Emanuele Giampà – è stata la preziosa occasione per riassaporare questo gusto.

La scienza come compagna nella ricerca di un significato, un senso dell’esistenza. Su questo osiamo dialogare. Non una scienza asettica e lontana dalle emozioni e dal cuore umano. L’esatto contrario, invece. Nel piccolo gruppo di lavoro che abbiamo chiamato AltraScienza, proviamo a fare questo, proprio (qualche altra cosa si può anche trovare nella nostra playlist YouTube, se credete).

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Quarant’anni di fiducia

Degli ABBA ho ricordi davvero lontani, eppure risalenti ad un periodo in cui non erano già più il presente musicale, ma un glorioso passato. Correvano gli anni novanta, a quell’epoca avevo una borsa di studio da svolgere per la maggior parte del tempo presso l’Osservatorio di Collurania (Teramo), ora Osservatorio Astronomico d’Abruzzo. Con Maurizio, vincitore pure lui di una analoga borsa, facevamo il viaggio da Roma ogni inizio settimana, per rientrare nella capitale la sera del giovedì.

Il fatto che si fosse all’ingresso negli anni novanta è importante, perché implica che non ci fosse ancora Spotify o niente di analogo, e che per allietare il viaggio con della musica l’equipaggio avesse a disposizione appena un robusto (ma non così pratico) lettore a cassette.

A Stoccolma esiste un museo degli ABBA.
Con tanto di stivali (ovviamente).

Orbene, tra gli ascolti che lo stereo a cassette della mia Panda color grigio Oslo (secondo la casa automobilistica, per i comuni mortali era piuttosto un verdino un poco sbiadito) ci elargiva con più costanza, poiché – a nostro giudizio – particolarmente adatti alla guida – c’erano anche i grandi successi del celebre gruppo svedese (la cassetta era di Maurizio, che volentieri la portava con sé per l’occasione). Ancora adesso, mi assalgono vaghi ricordi dell’imponente massiccio del Gran Sasso – come si può ammirare percorrendo la A24 verso Roma, passato Teramo – con le mitiche note di Chiquitita a farcire la piccola autovettura di sapienti coretti scandinavi e soprattutto ad esporre una vena melodica spudoratamente debordante (solo ora scopro che il video è girato in montagna, quindi alla fine tutto torna). Chiquitita, e poi naturalmente tutti gli altri immortali successi del gruppo.

Al tempo noi eravamo (e per molti versi, lo siamo ancora oggi) ragazzetti parecchio centrati sul rock e in particolare su quello progressivo (io anche con una marcata predilezione per Mike Oldfield che Maurizio assecondava in parte, asserendo però – da buon batterista – che certi pezzi di Mike non sono abbastanza “suonati”, anche se questa è un’altra storia). Per capirci, Pink Floyd, Genesis, Peter Gabriel e compagnia varia, come repertorio standard. Eppure, devo dire che gli ABBA – uno dei pochissimi scarti che ci concedevamo rispetto al nostro pensiero musicale dominante – ci hanno tenuto parecchio compagnia, in quelle ormai mitiche trasferte.

E certo, sono passati ormai molti, molti anni. In tutto questo tempo gli ABBA per me – e per moltissimi – hanno significato un preciso riferimento temporale, quello a cavallo tra i settanta e gli ottanta del secolo scorso. Varcato il nuovo millennio, chi ci pensa più? Certo sono belle melodie, questi coretti nordeuropei scendono giù bene e si gustano anche a distanza di decenni, ma insomma, è sempre una rivisitazione di roba passata, archiviata, conclusa. Oppure no?

Chi l’avrebbe detto che in questi giorni mi sarei imbattuto, in pieno 2021, in un nuovo disco degli ABBA? Si chiama Voyage e comprende dieci canzoni registrate prima del COVID, nel 2018, ma dato alle stampe (si fa per dire, ormai) solo adesso. Il nono disco del gruppo, contando solo quelli registrati in studio. Tutto normale, se non fosse che l’ottavo, The Visitors, risale al lontanissimo 1981. Tanto per dire, narrano le cronache del tempo che The Visitors sia stato il primo disco in assoluto ad essere stato stampato in formato CD, formato che ormai è caduto in disuso esso stesso (o quasi). Tutta l’era del CD in pratica è trascorsa senza che agli ABBA (posto che si concepissero esistenti) sia venuta voglia di buttare nuova musica sopra questi dischetti.

Detto alla spicciola, sono passati più di quarant’anni. Concederete che non è del tutto consueto far passare quarant’anni tra un’opera d’ingegno e l’altra, nemmeno Stanley Kubrik era così pacato nella realizzazione dei suoi capolavori. C’è di che essere colpiti. Quindi mi sono approcciato a questa nuova uscita con una certa curiosità, insieme con la paura di rimanere deluso. Non sarà un accanimento terapeutico per caso? Chissà mai se avranno davvero qualcosa ancora da dirci, questi ABBA (considerato che già è stato uno shock sapere che esistono ancora).

La risposta a tali questioni la si vive solo ascoltando. L’apertura è in grande stile, comunque. I Still Have Faith in You è una ballata che ti entra subito in testa, per la sua ricchezza timbrica, la felicità melodica. Hey, primo singolo dopo 38 anni, precisamente da Thank You For The Music, che risale per l’appunto al 1983. Grazie per la musica, ci risentiamo tra qualche decina d’anni. In pratica.

Ragazzi, trentotto anni non sono pochi. In trentotto anni – per rimanere in ambito musicale – uno come Mozart fa in tempo a nascere, crescere, comporre capolavori assoluti che non verranno mai dimenticati finché esisterà l’uomo, e poi (purtroppo per lui, ma anche per noi) perfino morire.

Epperò qui il tempo non sembra passato per niente. Meglio, sembra che il tempo che passa non sia più l’ultima parola. Che il tempo stesso sia parecchio relativo, insomma. Cioè che volontà, perizia, dedizione, attitudine positiva e quant’altro, certo non fermino il tempo e tuttavia lo influenzino intimamente, dettandone le condizioni del fluire e mortificandone quell’assetto che troppo spesso si pretende inossidabile, incoercibile. Il dramma è questo, caspita. Che noi abbiano nel cervello il fatto del tempo come entità in spostamento rigido e costante: le solite favole delle lancette implacabili, della faccenda che niente dura, insomma la dedizione meccanicistica di Time dei Pink, indubbiamente geniale ma anche implacabile, ossessivo, pervasivo nella sua carica di angoscia.

Il tempo pensato come scorrere meccanico ultimamente ci angoscia, perché – azzardo – è una brutta menzogna, un cattivo racconto. Il tempo in realtà è morbido, plastico. Ormai anche la fisica lo sa. Si piega, rallenta intorno a stelle e pianeti, accelera altrove. Secondo me, rallenta anche attorno ad addensamenti di significato, di senso. Ho ancora fede in te come dichiarazione potente si innesta in quel tempo che a torto si ritiene meccanico introducendo un principio di felice rivoluzione, di lieto scardinamento. Non va tutto come al solito, non è sempre la dura attualità apparente, quel sentire tutto provvisorio e tutto a rischio tanto che si pensa, si dice everything dies baby it’s a fact come lucidamente canta Springsteen, o almeno non necessariamente lo è. Non è per forza così. Non è un fatto, o meglio i fatti dipendono anche, almeno certi fatti, da come li pensi, da come li vivi.

Se hai una buona storia, questo fa la differenza. Il tempo scorre implacabile se non c’è una storia, ti trasporta via se non hai un quadro di significato, se non hai radici. Non riposando ultimamente su di una qualche normalizzazione, allora sì che spinge all’infinito e trascina tutto con sé. Ma lo sappiamo, la vera stoffa dell’universo sono le storie, l’universo stesso è fatto di storie, anche il mio lavoro – grazie al cielo – me lo ricorda. In fondo gli ABBA (vecchi e nuovi, che queste categorie svaporano felicemente con lo svaporare stesso del tempo meccanico) cantano proprio questo, ma lo dicono proprio, arrivano subito al punto nel testo di questa formidabile canzone, cantano abbiamo una storia e questa è sopravvissuta e così facendo innestano una sfida gagliarda nel tempo, una riscossa sul tempo pensato meccanico e dunque pensato male. Si propone implicitamente un ripensamento del tempo, un allentamento e un allietamento di tempo. Questo, fin dalle prime note. Poi l’orchestra arrangiata in modo sapiente, il tappeto discreto di sintetizzatore (una delle pochissime connessioni alla modernità), i coretti svedesi (volete che non ci siano in un disco degli ABBA) fanno il prodigio sonoro, rendono l’opera compiuta, godibile. Che bella canzone. Degna certamente degli ABBA di un tempo, ma il tempo che esiste davvero è solamente questo tempo e infine il tempo che cosa è realmente?

Così si sbuca fuori da questa canzone con la sensazione di aver assaggiato un prodotto ispirato (e confezionato assai bene). Ti ricircola addosso un gusto buono che ti predispone favorevolmente all’ascolto del resto del disco, che però non vi sto a dire traccia per traccia perché qui sono già andato parecchio lungo e soprattutto perché già molto bene è stato detto.

La cosa che ti sorprende più vai avanti è che il tempo non sia passato, oppure (meglio) che il tempo non sia quello che pensi tu, povera sprovveduta personcina preda dei modi comuni di pensare (non vi offendete, sto dipingendo me). Gli ABBA ti fanno una lezione sul tempo senza astruse equazioni o pompose enunciazioni e lo fanno operando tagli, cuciture e modifiche nel tempo tali che tu rimani a bocca aperta, incastrano arrangiamenti e modi di suonare che sono quelli degli anni settanta ed insieme sono attuali, sono quelli che servono, quelli che ci vogliono, quelli nello stile ABBA insomma.

Così più ascolti più senti che qui c’è palesemente qualcosa di bello ma c’è anche qualcosa che non va. La cosa bella riguarda la musica, la cosa che non va riguarda la fisica ed appunto il tempo e meglio ancora, più precisamente, come tu lo pensi. Se non cedi ad un tempo morbido e plasmabile, qui non capisci più niente. Se non lasci agli allocchi l’idea di un tempo indipendente dagli eventi (dagli occhi, dai luoghi, dai sorrisi e dalle emozioni) come nastro trasportatore inesorabile, non ti raccapezzi.

La cosa ti sembra assurda e magari non ne parli con nessuno, ma alla fine capisci che il tempo è una faccenda molto bizzarra e meno inquadrabile sommariamente e questo è un gran bene perché alla fine anche tu sei immerso nel tempo e questa cosa di invecchiare meccanicamente verso un destino mediamente poco esaltante non ti è mai andata a genio e forse rinegoziando il tempo forse, mettendoci insieme cose come senso e significato, miscelando il tutto con sapienza certosina o zen o comunque antica, le cose cambiano un po’ o forse anche più di un po’ ed allora apparenti assurdità come un disco degli ABBA in puro stile ABBA quarant’anni dopo la fine evidente e completa degli ABBA iniziano perfino ad avere senso, eppure questo sarebbe anche poco. Forse inizia anche ad avere senso una vita che scorre in un campo di eventi e sorprese come quella tua personale, ora che la vedi in modo diverso, e dunque la cosa non è tanto scappare dal tempo ma iniziare a familiarizzarsi con un altra natura del tempo, metterci i piedi pian piano come quando vai in acqua e all’inizio non sai e non ti decidi ma poi capisci che ti ci trovi bene e dici perché non ci sono entrato prima. E quando pensavi che non ci sarebbero state già sorprese le sorprese infatti (oppure invece), arrivano.

E per questo scoprire un nuovo tempo, c’è sempre tempo. L’essenziale è non lasciar scappare le occasioni di scoperta. Non chiudere la porta non blindare la meraviglia incipiente con pensieri pigri alla tanto ormai. Invece no, farsi prendere dalla musica (e dalla fisica) ed insomma rilanciare in puro stile ABBA, esclamando in allegra pazzia cose come ho ancora fiducia in te.

Queste cose il tempo (qualunque cosa pensi di essere) lo incartano, lo confondono, lo spiazzano. E magari, lo rendono amico.

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L’urto del tempo (ovvero, mai dire mai)

L’argomento è tra i più seri. Forse il più serio, mano mano che uno va avanti con le stagioni, prosegue avanti il suo tragitto, nel trascorrere (comunque) ricco degli anni. E’ così serio (come la religione, il sesso) che si preferisce spesso non parlarne, si riconosce il composto equilibrio di non parlarne proprio. 

Come si fa, insomma, per le cose di cui nessuno ritiene davvero che esista una soluzione, o comunque un modo produttivo per poterle affrontare. Come si fa per le cose che ci piovono addosso e ci lasciano confusi, perplessi, interdetti. Indifesi, anche. Per le quali ognuno mette in campo, personalmente, privatamente, le difese che può, che trova, che gli sembra di trovare al momento. Provvisorie e parziali e discutibili che possano essere, ma intanto (parzialmente) tamponano. Cantava infatti Roberto Vecchioni molti molti anni fa (e lo capisco certamente più adesso che al tempo),

“salvarla con le figurine /salvarla con le patatine / con il rimorso di arrivare / soltanto quando la nave è partita / però salvarsela la vita.”

Insomma, ci sono cose che non riusciamo proprio ad affrontare di petto, dove ci arrabattiamo come si riesce. E del resto, come possiamo biasimarci? Insomma, già è demanding il fatto stesso di vivere, di intessere relazioni, di lavorare (chi può). Figuriamoci a chiedersi una cosa come questa. Figuriamoci.

Chiedersi cosa regge l’urto del tempo è cosa leggera solo per chi sia ancora molto giovane (e non è neanche detto, se la persona in questione è sensibile). Altrimenti è qualcosa, appunto, su cui non si può scherzare. Come detto, non conviene. Se ci penso, quindi, capisco meglio che il titolo di questi che chiamerò brevemente Esercizi (qui tutte le informazioni per capire cosa sono e come entrarvi in contatto), Che cosa regge l’urto del tempo,  è veramente una sfida. E’ proprio qualcosa su cui non sopportiamo risposte retoriche o inconcludenti, su cui non tolleriamo perdite di tempo, giri di belle parole.


La posizione predominante (psichicamente dentro di noi, e statisticamente tra noi) è quella espressa in modo geniale e disincantato da Francesco Guccini nella canzone Farewell, non a caso richiamata esplicitamente da Juliàm Carron durante gli Esercizi. Non si può scavallare rapidamente questa posizione, dobbiamo farci i conti ogni mattina invece. Di più, io diffiderei profondamente di chi la scavalla troppo facilmente, magari con quel meccanismo di spiritual bypassing che purtroppo non porta mai ad una vera crescita dell’individuo.


Possiamo dirlo, possiamo ammetterlo. E’ tremendamente persuasiva la frase di Guccini

Ma ogni storia ha la stessa illusione, sua conclusione, e il peccato fu creder speciale una storia normale…

Qui non c’è più da barare. E’ vero, si esce da questa percezione, se ne può uscire, lo sappiamo tutti. Abbiamo tutti sperimentato momenti in cui questa percezione era vista come falsa. Momenti, dico. Perché certo, viviamo abitualmente così, con una specie di asserzione interiore che gira in background, che avverte “niente può reggere l’urto del tempo”. Cantava anni fa, il Boss, che everybody dies baby it’s a fact. Sembrerebbe una parola tristemente definitiva. Eppure abbiamo tutti sperimentato momenti illuminati in cui sentivamo che questa non è l’ultima parola. Non è il framework conclusivo, quello che comprende tutto.

Ma qui si innesta il cambio, secondo me. Per andare oltre va effettuato un cambio di paradigma. Non basta più elencare concetti, srotolare asserzioni. Non vale più il fatto, capisco una cosa, la faccio mia, procedo oltre. Non è qualcosa che va capito. E’ piuttosto roba che va domandata, che richiede un cambio di atteggiamento. Una nuova attitudine. Qualcosa che ci viene addosso, ci cambia polarizzazione, ma non possiamo afferrarla. Non è questione di circoscriverla in un nostro ambito. E’ una cosa che non possediamo, ma in un certo senso ci possiede.

Insomma, non è a forza di ragionamenti sull’universo, che arriviamo a poter assentire con quella bella, antica canzone di Angelo Branduardi, sentendo anche noi che niente mai perduto va, al centro tornerà. Soprattutto perché si insinui l’idea, l’ipotesi pazzesca (e tremendamente interessante, per chiunque), che quel che c’è di buono in me non andrà perduto. Ecco, questa sarebbe davvero la rivoluzione perpetua, del nostro modo di pensare.

Mi fermo sulla soglia. Ma capisco che è cosa per cui può essere giustificato perfino un lavoro spirituale, nella misura in cui può favorire questa diversa percezione dell’ordine delle cose, dell’ordine del tempo. Qualcosa che ci porti a sussurrare, come trionfo della categoria della possibilità, quel mai dire mai che è anche il titolo di una bella canzone di Ligabue (nota, vi erano tempi in cui non avrei mai pensato di dire la frase intera “una bella canzone di Ligabue”, ma tant’è), che lascia intravedere un modo di vedere le cose, diverso.

Proprio perché l’argomento è oggetto di un lavoro, sempre da rinnovare, non è che me la posso cavare convincendovi (e convincendomi) in maniera dialogica. Sarebbe un inganno. Mi basta di portarci (e portarmi) a dire (quasi vergognandosi, ma dirlo) beh sì, può esserci questa possibilità, sembra pazzesco il più delle volte, ma può esserci. 

E’ anche un lavoro di cesello. Rinunciare alle interpretazioni all’ingrosso dell’universo, la vita, il cosmo, il Mistero, la fede… e abbassarsi a cercare quella struttura fine, quella trama di luce sottile, che a volte abbiamo intravisto tra le cose, negli spazi tra le cose. Come, sottratto al vuoto che fa paura, e consegnata ad un ordine pacifico, benevolo, bello e rassicurante.

Ed anche, come suggeriscono gli Esercizi, in modo cordiale ma preciso, ritrovare dentro sé stessi quel nucleo di valore, quel momento di incontro con qualcosa di luminoso ed armonioso, di qualcosa che vale e che ha incrociato la nostra vita, in un momento, un segmento di tempo. O che può passare o ripassare, in qualunque condizione ci troviamo.

Per questo, non dobbiamo fare nulla. A far da noi su questo, infatti, non siamo buoni.
Possiamo aspettare di intravedere, forse, una soluzione.

Dire che è impossibile, è certo lecito. Ma non sembra ragionevole.

Le sorprese, in fondo, accadono ancora.

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    I pensieri illuminati (cioè, il bordo degli occhi)

    Ma tu te li ricordi i nostri sogni / al tempo dei pensieri illuminati così canta Fossati e questo mi ritorna in testa adesso, che riprendo questo post, abbozzato tanto tempo fa e rimasto – chissà – in cerca di una soluzione, di una conclusione.

    Sarà che uno tenta di ritornare a quello, al tempo dei pensieri illuminati, e tutte le gratificazioni al mondo che arrivano e continuano magari ad arrivare, non riempiono il cuore come faceva uno sguardo, un solo sguardo, in quegli anni… che tanti pensieri e tanta saggezza non serve a niente non scalda nemmeno come un cerino, finché rimangono solo parole non servono a nulla anzi… mai più saggezza mai più…

    Sarà che uno vorrebbe a volte prendere tutto e via, scappare lontano diecimila miglia e tornare a vedere… vedere le spiagge i panorami i tramonti sentire l’odore di cibi esotici vedere le ragazze che ridono farsi sommergere dalle promesse dei loro sguardi dolci, ingenui e maliziosi e correre correre correre e non sapere cosa si potrà fare domani, non saperne proprio nulla, sapere appena che domani sarà una cosa nuova, una giornata diversa e nuova (molto diversa e molto nuova) e avremo ancora sorrisi e avremo ancora abbracci e corse e risate e gente che si stupisce con me, per me… gente che – per dire – può avere voglia di sorridere e amare, vestirsi e spogliarsi, senza stare a dosare e a sgocciolare assensi con parsimonia e inossidabile buon senso…

    ma tu te li ricordi i nostri anni.. I tempi delle stelle in fondo agli occhi

    E’ indubitabile. Ci sono momenti, periodi, che più facilmente si avvertono come magici. Periodi che sono un invito, un invito a venire a vedere, a coinvolgersi.

    Perché poi alle volte si rischia di scambiare questo con il tutto. 

    Non le bollette, le cose da pagare e le incombenze che ci sono e chissà se oggi magari piove e non i problemi scolastici dei ragazzi e non più le parole oggi sono stanca voglio dormire… e a volte (perché poi, non lo sai nemmeno) non trovi nessuno che ti sorrida più con le stelle in fondo agli occhi, non lo trovi o ti pare di no (forse appena non lo vedi, non lo vuoi vedere), hanno tutti molto altro da fare (ti sembra), molto altro da fare che occuparsi di te e della tua ricerca di stelline negli occhi (ti pare), e una lei che ti guarda normalmente magari ti ricorda di portare la roba in cantina ma lei è anche e soprattutto una bravissima persona e dunque forse è tutto normale, è la normalità, forse sei tu che stai scansando il reale con la tua ansia delle stelline e in qualche modo sei tu, non sono gli altri, in qualche modo sei sempre tu, eppure…

    Cosa rimane, cosa rimane? Abbiamo il coraggio di chiedercelo? Cosa rimane adesso delle stelle nel fondo degli occhi? Dei tuoi occhi meravigliosamente intarsiati, amica mia, che ammiravo standoti vicina in metropolitana, dei tuoi maglioni larghi, delle tue esitazioni e della nostra scoperta del vivere nella carne e dei modi tutti nuovi e inesplorati per stare in comunione, in luminosa comunicazione? Cosa rimane se la sabbiolina dorata sembra scivolata tutta tra le mani e se le apri non la trovi più, la cerchi sugli altri e non la trovi più… cosa rimane ancora?

    Cosa rimane, se a questo punto non allargo lo sguardo, cerco un senso più ampio che – cadendo dentro tutto questo, smascherando anche la parzialità fallace delle mie percezioni  – lo invera e allo stesso tempo lo ricompatta in una orbita di senso, in una orbita che abbia senso pieno anche adesso?  Cosa rimane se rinuncio a pormi io stesso, prima di tutto, in un orbita di guarigione, se non imparo sempre e di nuovo a guarire?

    E’ una decisione fondamentale, è uno spartiacque sempre drammatico. Perché se questo non avviene, se non lo lascio avvenire, ebbene ha ragione (ancora una volta) Fossati, in quella meravigliosa canzone, in quel profondissimo quadretto che è D’amore non parliamo più,

    Con la bellezza non discuto / la bellezza se ne va

    Ed è una frase che ti rimane dentro e chiama un senso profondo, una riscoperta di senso globale, perché altrimenti rimane appena il dolore, quel dolore purissimo per la scomparsa apparente della cose. Lo dice un altro grande, lo dice il Boss, nella sua Atlantic City

    … everything dies, baby, that’s a fact …

    Perché allora uno si deve appena rassegnare alla progressiva scomparsa delle cose, all’indebolirsi del senso totale. Ma la rassegnazione è amara, è devastante. E forse, tutto sommato, non è inevitabile. Forse no. It’s a fact dice il Boss e non sembra lasciare margine alle interpretazioni. Del resto lo vediamo anche noi, è sotto gli occhi di tutti: La bellezza se ne va. 

    Così Natale dovrebbe avere qualcosa da dire su tutto questo, qualcosa da dire in tutto questo, dentro tutto questo. O naturalmente dentro drammi peggiori, drammi veri. Perché il rischio è che se Natale non ha niente da dire e non incide su questo rimane confinato in una melassa retorica buonista (oggi si direbbe così) che fa soltanto molto male allo stomaco.

    E’ anche chiaro cosa non vogliamo. Non qualcosa di strategico, non l’ennesima nostra strategia. Nessun manuale di self help potrà veramente servirci. Ci vuole qualcosa di esterno che ci venga a trovare, ci venga a visitare, per rinegoziare il rapporto con il mondo e ritornare ad una freschezza originaria, alla freschezza di un inizio, di un nuovo inizio. Qualcosa che è fuori di noi e che si propone al fondo di noi; ma è fuori di noi, dice Luigi Giussani, uno che comunque dell’uomo e del suo desiderio profondo, se ne intendeva parecchio.

    Basterebbe un semino luminoso, che alla fine possa contrastare credibilmente questo everything dies di Bruce, innestato così profondamente nei nostri cuori. Un semino ancora più profondo, che dice che tutto muore, apparentemente, ma la morte non è l’ultima parola. Cioè, a noi sembra che tutto muore, solo perché non abbiamo sotto gli occhi il quadro completo.

    Ripartire allora. Ripartire sempre e di nuovo, dalle profondità abissali di questa notte, di questa vigilia. Accogliendola, accogliendomi e accogliendoti, amica. In fondo, come avverte Marco Guzzi, non dobbiamo avere paura, in fondo è nella notte che nasce il nuovo.

    E’ anche una scommessa, ma non solo: è la premessa di una vita veramente vissuta. Non è vissuta davvero fino in fondo quella vita trascorsa ai margini della disperazione del tutto muore. Affatto. Se tutto viene conservato, se non muore davvero, ecco che allora io sono libero di vivere profondamente, di fare tutti gli sbagli che voglio fare e che debbo fare (come diceva in maniera innegabilmente evocativa Luca Carboni, potremmo essere felici fare un mucchio di peccati), ed intanto – come valore aggiunto di grande spessore – essere sicuro, tranquillamente sicuro che il bordo, quel bordo degli occhi, quel tuo bellissimo bordo degli occhi, non lotta più con la disperazione, ma accoglie la quieta consapevolezza di un viaggio che ha una sua Destinazione Buona – così sconvenientemente buona da infastidire tutti i benpensanti, costantemente impegnati a limare e limitare il loro desiderio d’infinito.

    Quel bordo ridente dei tuoi occhi, amica mia: che così diventano ancora più lieti, ancora più belli.

    Natale, alla fine, non sono tanti discorsi; è una questione di sguardo, una purissima e decisiva questione di sguardo. Di un volto, di un sorriso, del bordo degli occhi, del bordo ridente dei tuoi occhi, amica: di nuovo, ridente. E’ una questione di danza il Natale, alla fine. Di quella danza segreta e primitiva che ti impregna il cuore e i muscoli, amica mia, ti fa scorrere linfa nuova nel tuo sangue selvaggio, ti incatena, finalmente ti incatena al tempo che vivi e ti riscatta, ti riscalda continuamente.

    Auguri.

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    Il tempo della mela

    Fin dall’inizio dell’avventura umana, la misura del tempo è stata fondamentale. Il tempo zero, l’istante dell’inizio dell’Universo, è sempre stato un punto privilegiato, luogo di accumulazione dell’interesse di ogni scienza ed ogni cultura, di ogni mito.

    Per introdurmi ragionevolmente nell’argomento, faccio come si fa di solito, ovvero consulto wikipedia. La voce “tempo” è molto ricca, e tra l’altro recita:

    La percezione del “tempo” è la presa di coscienza che la realtà di cui siamo parte si è materialmente modificata. Se osservo una formica che si muove, la diversità delle posizioni assunte, o se presto attenzione al susseguirsi dei miei pensieri o ai battiti del mio cuore, fatti fisiologici, e in ultima analisi, fisici, ciò certifica che è trascorso un “intervallo di tempo”. Si evidenzia “intervallo” a significare che il tempo è sempre una “durata” (unico sinonimo di tempo), ha un inizio e una fine.

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    Capirete che è un tema in cui si può affondare ad libitum, perché è uno di quegli argomenti tanto proprio alla fisica come alla filosofia. In questo, il tempo segnala ciò che è tempo di comprendere, davvero: che non esiste una cultura “umanistica” contrapposta ad una cultura “scientifica”, ma sono semplicemente due approcci complementari, ambedue indispensabili. Anzi, sono uno. Parlare di “presa di coscienza” è legare il tempo alla profondità della cultura e del sentire umano, bel oltre il dato scientifico.

    Purtroppo è accaduta una sorta di rottura di simmetria, che il compito della nostra epoca, dell’uomo del millennio appena iniziato, sarà di ricucire. Non con facili sincretismi, ma ideando un nuovo percorso, un cammino ancora inedito. Pazientemente, libera-mente, lavorando su sé stessi per poi intervenire efficace-mente sul contesto.

    E’ che affondando nel tentativo di comprensione di cosa è il tempo che ci scontriamo, anche qui, con un sentimento di ultima impotenza (che mi pare un tratto squisitamente moderno), con una necessità di resa:

    L’unico modo convincente di rispondere alla domanda “che cos’è il tempo” è forse quello operativo, dal punto di vista strettamente fisico-sperimentale: “il tempo è ciò che si misura con degli strumenti adatti”. Una analisi microscopica del problema tuttavia mostra come la definizione di orologio sia adatta solo a una trattazione macroscopica del problema e quindi non consenta di formulare una definizione corretta per le equazioni del moto di particelle descritte dalla meccanica quantistica.

    Ed arriviamo facilmente al fatto che (permettetemi di metterla così)  il tempo esiste perché c’è l’Universo che lo giustifica,

    in un certo senso l’intero Universo in evoluzione si può considerare il vero fondamento della definizione di tempo; si noti l’importanza essenziale della specifica “in evoluzione”, ossia in movimento vario, accelerato: senza movimento, senza variazione anche il tempo scompare!

    Ma questo è davvero un tema enorme: affrontarlo prenderebbe una enorme quantità di tempo. Allora, per il momento vorrei volare più basso. Torniamo un attimo indietro: cosa si intende per “strumenti adatti” ?

    Di orologi di diversa foggia sofisticazione ve ne sono infiniti, lo sappiamo. Vorrei adesso concentrarmi sull’ultimo arrivato: quello che dimostra il modo Apple di intendere il tempo, di misurarlo. L’Apple Watch è la declinazione del modo della mela, di come si può intendere un moderno sistema di misura del tempo. E’ il tempo della mela, dopo quel Tempo delle Mele dello scorso millennio, che fece sognare e commuovere moltissimi, tra noi non più giovanotti.

    Che poi, essendo targato Apple (torno a parlare di mela al singolare), fa decinaia di altre cose, oltre che misurare il tempo. Cosa che peraltro dovrebbe fare assai bene, a leggere le specifiche: “mantiene uno scarto non superiore a 50 millesimi di secondo rispetto al tempo universale standard”.

    Ma il punto non è la precisione. E nemmeno le diecimila cose che fa: ti controlla mentre fai attività fisica, mentre dormi (con chi dormi, forse…?), ti fa vedere le foto su Instagram, ti notifica email e messaggi Facebook, etc…

    Il tempo, insomma, non sappiamo se sia relativo, ma certo – in questo modo – è relativizzato. E il tempo è così legato indissolubilmente al flusso erratico di notifiche e messaggi e allerte, di cui l’orologio (in questa moderna incarnazione) si fa  veicolo. Si può riprendere la frase di prima, traslandolo in versione più tecnologica, asserendo che “senza notifiche, il tempo scompare”.

    Non so voi. Io sono attratto e spaventato allo stesso tempo. Attratto da cosa potrei fare con l’Apple Watch (il mio lato geek è letteralmente elettrizzato), spaventato del fatto che mi potrei così abituare ad avvertire le notifiche sulla pelle, tramite la discreta vibrazione dell’orologio, da non poterne più fare a meno. Da sviluppare una dipendenza.

    Ma la cosa che mi preoccupa di più è un’altra. La dipendenza che mi terrorizza è quella dalla rete elettrica, non tanto da Internet. Fino a diciotto ore, dice. Anzi, per la precisione, dice fino a diciotto ore di autonomia. 

    Sono esitante. Per adesso, l’orologio è l’unica cosa tecnologica che posso dimenticare di attaccare alla spina e ricaricare, ogni santa notte. Per ora.Ma il tempo passa. Gli orologi si aggiornano. E questi fanno appunto duecentomila cose.

    Ma si scaricano.

    E l’idea di arrivare a casa e attaccare tutto ai vari ricaricatori, non mi esalta.

    Se poi vagassi nel deserto, in meno di un giorno si spegnerebbe tutto. Telefono, tablet, e ora perfino l’orologio. Tutto. Meno l’idea che a volte, troppa tecnologia – forse – non aiuta a vivere in maniera più umana. A viversi bene il tempo.

    Forse.

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    Cercando viaggiatori nel tempo. Su Internet

    Internet è certamente una delle innovazioni tecnologiche più pervasive e rivoluzionarie dell’era moderna, la cui importanza è difficile sopravvalutare. Tra i tanti usi della rete, però, non mi era mai venuto in mente  – complice la mia fantasia alle volte un po’ dormicchiante – di pensare alla possibilità di usarla per cercare segni di viaggiatori nel tempo…

    Si’, per quanto strano (o meglio, eccentrico) possa sembrare, è quello che hanno fatto due ricercatori dal Michigan Technological University, Robert Nemiroff e Teresa Wilson. Precisamente, hanno pensato di utilizzare la sconfinata mole di informazioni nella rete per cercare contenuti che potessero condurci ad evidenze di viaggi temporali.

    Qual è l’idea della loro ricerca (per i cui dettagli vi rimando all’articolo originale, in inglese) ? Non sappiamo se i viaggiatori nel tempo – posto che ve ne siano, o ve ne saranno – abbiano il piacere o anche la possibilità fisica di farci sapere della loro esistenza. Però durante il viaggio, potrebbero aver lasciato qualche traccia di loro stessi. Magari utilizzando Internet, perché no (chi resiste al fascino della rete, dopotutto…) ? L’idea di base è dunque di “stanarli” cercando su Internet segni di informazione che rivelino in qualche modo una conoscenza del futuro, normalmente preclusa a chi non si diletta in viaggi temporali (viene chiamata “informazione presciente” dagli autori). Ci si concentra per questo sui viaggiatori che vengono dal futuro, perché ovviamente così è più facile l’indagine. Inoltre gli autori sottolineano – con deciso buon senso – che i viaggi dal passato sono improbabili perché non abbiano notizie di macchine del tempo funzionanti, ad oggi…

    L’idea può avere un senso, e se ci pensate è meno bizzarra di quanto possa sembrare (a me sembra divertentissima, in ogni caso). In fin dei conti è abbastanza semplice. Si tratta di individuare dei termini legati ad alcuni episodi di eventi storici e naturali – chiaramente databili – accaduti in “epoca Internet”. Gli autori selezionano al proposito due specifiche ricerche, una per “Comet ISON” e l’altra per “Pope Francis” (non mancano adeguate argomentazioni a supporto degli hashtag selezionati). A questo punto si tratta soltanto (diciamo) di spremere le informazioni nei motori di ricerca e nei principali social network andando a caccia di qualcuno che abbia parlato di Papa Francesco prima della sua salita al soglio pontificio, o abbia citato la Cometa ISON prima che la cometa stessa sia arrivata agli onori della cronaca. Perché potrebbe essere stato solo un viaggiatore nel tempo, magari un poco incauto, a farlo. 

    La ricerca viene eseguita attraverso Google, Bing, Facebook, Google+, Twitter. Purtroppo (o per fortuna, non saprei bene…) nessuna traccia di viaggiatori temporali viene rilevata. Gli autori tengono comunque a precisare che è la più estesa ricerca di questo genere mai condotta, e ci dicono anche che il fatto che non si trovino segni di viaggiatori temporali, non mette una parola conclusiva sulla loro inesistenza. Chissà, potrebbero non aver voluto lasciar traccia… oppure potrebbero non averne la possibilità, per qualcuno di quei vincoli di consistenza tra eventi passati o eventi futuri.

    Insomma, la versione breve è che il problema è ancora aperto, e potete pensarla come volete riguardo i viaggi nel tempo. Tra l’altro anche il celebre fisico Stephen Hawking ci aveva provato, con la geniale trovate di indire un Time Traveller’s Party… mandando gli inviti soltanto il giorno dopo. Il video mostra quanta gente è venuta, ma non voglio anticipavi nulla, guardatelo che dura poco… 

    A parte questo, c’è  un interessante sottoprodotto dell’indagine, ed è una valutazione della efficacia dei vari motori di ricerca e della capacità di trovare delle informazioni nei social network. Sorprendentemente, si è ancora lungi dall’avere una affidabilità completa, notano gli autori. Tra tutti, è Twitter che sembra cavarsela meglio, a livello di completezza di informazioni riportate a seguito di ricerche. Dunque attenti ai cinguettii in cui si danno i risultati delle partite di domenica prossima, se li trovate, contattate gli autori dell’articolo…. 🙂

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    L’ innamoramento, e l’amore nel tempo…

    L’amore che dura nel tempo, che attraversa il tempo è… una continua ricerca. Uno studio, una applicazione. Non per uno sforzo in se stesso, magari di “bontà”. Gli sforzi in questo senso forse non sempre durano tanto a lungo, o comunque stancano, alla fine. Ma un ricercar per lasciar venire a galla la bellezza, la profondità, di un rapporto d’amore che dura nel tempo. Ho capito che il fatto che ci voglia applicazione, impegno, a volte molta pazienza (verso se e verso l’altro) non contraddice il fatto che sia autenticamente bello. Che si debba educarsi per comprenderlo, nello scorrere del tempo, neppure.

    Prendiamo il caso di un’opera d’arte. Di un quadro, o meglio, di una musica. A volte uno sente una musica e gli piace subito moltissimo. Altre volte però la musica è complessa, articolata. Intarsia della parti trascinanti e leggere con delle altre apparentemente più complesse, dove non sembra trovarsi il motivo trainante, la sequenza di accordi semplice ad effetto, la ritmica accattivante. Invece, trovi una serie di motivi che si susseguono e si intrecciano, che devi comprendere per goderne a pieno… trovi delle pause, dei pianissimo, che se non sei educato al silenzio e all’attesa, rischi di scambiare per delle parti noiose, poco interessanti. Se accetti di imparare, di apprendere giorno per giorno, momento per momento, la tua percezione delle cose può venire arricchita, puoi comprendere più e meglio, puoi apprezzare delle profondità che nemmeno intuivi.

    Il tutto nel senso di un cammino. Sento che mi fa bene, riflettere e tornare a riflettere su questi punti, perchè mi pare che il sentire comune e la pubblicità in cui siamo immersi, enfatizzino senza posa la fase luminosa e indubbiamente attraente dell’innamoramento, del trasporto dei sensi. Questo va bene, senz’altro, se non ci si dimentica che l’innamoramento non deve necessariamente finire, ma trasformarsi ed approfondirsi. E qui si apre il territorio del tutto “ininteressante” per i media, ma interessante moltissimo per la donna e l’uomo, che vivono un rapporto d’amore che si dispiega nel tempo, negli anni, che ogni giorno rinnovano implicitamente la promessa con la quale si sono accostati l’un l’altro, e proseguono il cammino.

    Credo che vi siano profondità che rischiano di rimanere insondate, se uno non apprezza e cerca di sintonizzarsi sui tratti specifici di questo cammino, se lo confonde con la fase di innamoramento, magari, e cerca di decifrare una realtà assai interessante, con gli strumenti sbagliati….

    Oppure sogna e spera di rimanere legato alla fase dell’innamoramento, forse per la paura inconscia di incamminarsi in una fase nuova, particolare, che mette in gioco le sue capacità di costruzione, di attenzione, di premura… non è semplice, mi accorgo spesso di ricadere nel pensiero semplice e piatto e non articolato del pretendere di rientrare nella prima fase, nell’innamoramento puro e semplice. Lo ammetto: per gran parte del tempo,è proprio il caso mio! Ma quando mi capita, quando mi è dato, di apprezzare il cammino, di vederlo, valutarne la portata, l’innesto nei giorni, nella vita… sento un senso attraente di pace, di serenità. Le cose tornarno a posto, mi riconcilio con il mondo. Capisco e intuisco di nuovo, la bellezza leggera (a volte nascosta) del camminare, insieme.

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