Blog di Marco Castellani

Tag: terrorismo

Terrorismo (e ortofrutta)

Devo dirlo, devo ammetterlo. Sono (quasi) stato un terrorista.
E non una. Ma tante, tante volte.
Non nel senso punibile dalla legge, probabilmente. Ma certamente nel senso di ammalato di terrore, nel senso di un incredibile impoverimento interno che poi porta comunque a questo: ad aspettarsi che la vita (tua, o degli altri) cambi non per un lento e fiducioso lavoro, ma per un gesto, un avvenimento eclatante, roboante.
Mi direte magari che non è terrorismo, in senso proprio. Eppure è già qualcosa di vicino, è già un avvicinamento ad un certo ordine di idee.
Quello opposto, esattamente opposto, alla bellezza, alla poesia.
Così in questa alternanza di governi che si contendono la mia anima, molte volte ho fatto il favore della parte sbagliata. Tutte le volte che ho smesso di stupirmi per il fiorire di evidenze e di piccola ma tenace poesia del quotidiano che accadeva intorno.
Per rimanere nel concreto, nella vita quotidiana: tutte le volte che sono passato vicino ad un banco di ortofrutta, e ho rinunciato a stupirmi per la panoplìa di colori e profumi che mi era liberamente posta davanti, scegliendo magari di seguire qualche filo di pensieri — certamente più grigio e meno imprevedibile.
Insomma, avete capito. Tutte le volte che ho smesso di guardare.
Di mantenere un contatto aperto con la stupenda non linearità del mondo e mi sono lasciato sedurre dalla linearità malata del pensiero interno (malata sempre, quando non guarda).
Certo non la sto facendo semplice. Non auspico una maggiore frequentazione di banchi ortofrutticoli come soluzione al regime del terrore, che quest’onda di nichilismo efferato (mascherato da guerre tra religioni) sta tentando di imporre al mondo e prima ancora alle nostre coscienze, no.
Il problema è complesso e va affrontato in modo completo, di certo.
Dico solo questo, dico appena che nella lotta ad ogni regime del terrore, ad ogni impalcatura organizzata di violenza, l’educazione alla bellezza non può essere lasciata da parte. Mai.
Perché i demoni non odiano semplicemente il bello — di più: non lo sopportano.
Perché è la via di accesso ad un altro ordine mondiale.
Quello della vita.

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Scienza e pace

No, non è una variazione estemporanea del titolo del ben noto romanzo di Tolstoy, Guerra e PaceE’ piuttosto una articolazione che – io penso – è più che mai urgente ripercorrere e rinforzare. Soprattutto adesso, soprattutto all’indomani dei fatti di Parigi, così tragici e apparentemente assurdi che fanno preferire un silenzio doloroso ai peraltro sempre più inutili esercizi retorica. 

Non è quindi di questi fatti che vorrei parlare qui. Piuttosto, vorrei esprimere come e in che modo io mi senta interrogato dalle provocazioni che provengono da questo travagliato periodo. E intendo, io come scienziato. 

Fare scienza davvero è un atto di pace?

Fare scienza davvero è un atto di pace? E’ lecito chiederlo, è lecito lavorare per una ipotesi di risposta. Come qui.

Se una cosa si può dire, difatti, è che l’urgenza attuale, la domanda di un senso, sempre più lancinante ed improrogabile,  porta ogni persona – inevitabilmente – ad interrogarsi su come può il suo esistere, il suo lavoro, la sua opera, aiutare a ricercare e ritrovare un orizzonte di positività su cui semplicemente poter esistere, fare progetti. Vivere.

Per uno scienziato può voler dire scendere alle radici della sua attività, capire che quello che fa in laboratorio, o davanti al computer, non rimane confinato in un ambito ristretto, ma in qualche modo è connesso all’universo intero. Come del resto ogni altra attività.

E la scienza, vorrei dire la scienza praticata, è fondamentalmente pace. Certo, lo so anche io che la scienza ha prodotto cose come la bomba atomica. E’ innegabile. Ma rimango convinto che l’attività scientifica, sopratutto per come si qualifica al giorno d’oggi, è una pratica intrinsecamente portatrice di pace.

Vorrei spiegarmi.

La scienza oggi è inevitabilmente transazionaletransculturale. La scienza vera, cioè quella che ha fatto la scelta di campo di appoggiarsi a metodi di controllo e di verifica, che procede secondo la falsificabilità popperiana delle sue teorie, è così. Non è un pensiero, o una aspirazione. Lo vedo ormai da anni, nella pratica quotidiana.

Non è che la scienza sia fatta da persone migliori. Sono persone come tutte, se ci fosse bisogno di specificarlo, con le loro meschinità e le loro miserie. Sono persone come me che sto scrivendo, come te che leggi.

Il punto è un altro. E’ l’oggetto in se stesso – la ricerca scientifica – che detta il metodo. Ed è un metodo che incoraggia intrinsecamente la collaborazione internazionale, che spinge a non fermarsi su valutazioni di differenza di razza, di etnia, di religione, di visione della vita.  Chi è innamorato della scienza, a chi è appassionato, se ti incontra, interessa se quello che hai da dire lo aiuta a meglio comprendere un problema. Se puoi portare un contributo, indipendentemente dal colore della tua pelle. O da dove vieni.

La rete informale di ricercatori di uno stesso ambito, è sovente molto larga e molto efficiente (io lo tocco con mano nel progetto ESA-GAIA, in cui lavoro, ma gli esempi non mancano di certo). Copre un gran numero di nazioni di orientamenti più diversi. Predilige la tranquillità politica e la pace. E non per farsi bello davanti al mondo: piuttosto, perché così  può – pragmaticamente – operare meglio e più fruttuosamente. E questo è sempre più vero più passa il tempo, perché i grandi progetti attuali (satelliti astronomici, esperimenti di fisica teorica, etc…) coinvolgono tipicamente un esteso numero di persone e sono collaborazioni tra una notevole molteplicità di stati sovrani. E possono essere condotti a termine solo se queste persone collaborano efficacemente tra loro.

Lavorando nella scienza in maniera seria, si è dunque inevitabilmente forzati a scambi ed interazioni con persone che sono tra loro le più diverse. Si è spesso condotti a seguire congressi e riunioni in diversi paesi. Si impara – per forza, non per virtù – a collaborare con persone bianche, nere, gialle, con il turbante, con il crocifisso o la tonaca, o senza niente di tutto ciò. E’ richiesto appena un acconsentire ad un insieme minimale di regole di convivenza, democrazia e scambio, e tutto il resto viene da sé.

Perché non sembri idealistico, possiamo anche mettere in conto che in questo convivono anche le consuete rivalità tra gruppi concorrenti, le umanissime meschinità e gli altrettanto umani giochi di potere, e quant’altro potete immaginare (a livelli diversi, a seconda delle persone e degli ambienti).

Con tutto questo, l’autentica passione per la scienza, per la comprensione profonda della struttura del mondo, favorisce la pace e la tolleranza – perché è possibile perseguire l’obiettivo soltanto con la pace e la tolleranza.

Facendo scienza davvero, lavoriamo per la pace. Prendendo sul serio il nostro lavoro, scopriamo di fare automaticamente la nostra parte per il buon ordine dell’universo.

Ma questo, capisco, non è limitato appena all’opera dello scienziato. E’ l’opera dell’uomo, nel senso più bello ed autentico del termine.

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