Blog di Marco Castellani

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Il caffè espresso va in orbita

ISSpresso

La nuova macchina per il caffè espresso si chiama ISSpresso. Crediti: Argotec, http://www.argotec.it/argotec/.

Da oggi un buon caffè italiano si può gustare anche nello spazio. Si chiama ISSpresso ed è un sistema a capsule davvero innovativo in grado di lavorare in condizioni estreme, come quelle dello spazio.

Argotec e Lavazza stanno lavorando, in collaborazione con l’Agenzia Spaziale Italiana (ASI), per portare l’espresso autentico, quello italiano, sulla Stazione Spaziale Internazionale con la prossima missione Futura di Samantha Cristoforetti che partirà a novembre 2014.

futura logo ISS

Logo della prossima missione di Samantha Cristoforetti, Futura. Sarà proprio durante questa missione spaziale che Samantha Cristoforetti, oltre ad essere la prima donna italiana ed europea a volare nello spazio, avrà anche l’onore di essere la prima astronauta a bere un caffè espresso a bordo della ISS. Crediti ESA.

Argotec è un’azienda di Torino, unica responsabile per il bonus food degli astronauti europei dell’ESA su contratto dell’ESA stessa e fornitore ufficiale di cibo per gli astronauti europei in missione sulla ISS per i quali realizza cibi su richiesta. Argotec ha sviluppato uno spazio di ricerca per lo studio nutrizionale del cibo dedicato agli astronauti, il cosiddetto Space Food Lab. I cibi che vanno a bordo della ISS devono essere consegnati alla NASA almeno 18-24 mesi prima del lancio in modo che possano essere recapitati in anticipo a bodo della ISS prima dell’arrivo dell’equipaggio.

 “Il caffè italiano è una bevanda senza confini – commenta Giuseppe Lavazza, vice presidente di Lavazza – e pensiamo alla sfida di portare l’espresso anche nello spazio da tempo. Già dieci anni fa, infatti, avevamo “mandato in orbita” l’espresso artisticamente con gli scatti di Thierry Le Gouès e con il calendario Mission to Espresso, che all’epoca poteva sembrare un’opera di fantascienza e che, invece, era solo visionaria. Oggi infatti siamo in grado di rompere i limiti dell’assenza di peso e di bere davvero un buon espresso, simbolo indiscusso del made in Italy, a bordo della Stazione Spaziale Internazionale”.

16 agosto 2011 ISS

La Terra ripresa dalla Stazione Spaziale Internazionale. Crediti NASA/ISS.

“I nostri ingegneri aerospaziali – dichiara David Avino, Managing Director di Argotec – hanno progettato un nuovo concetto di macchina per il caffè, sicura per gli astronauti e in grado di funzionare in condizioni di microgravità, integrandosi con l’esperienza di un leader nei sistemi di estrazione a capsule come Lavazza. Si tratta di un’opera di altissima ingegneria che ha portato a soluzioni innovative, applicabili anche con ritorni immediati sulla Terra. Lo schema funzionale era pronto già a giugno 2013: Argotec ci stava lavorando da circa un anno. ISSpresso è una sfida tecnologica che soddisfa requisiti molto severi, imposti dall’ASI , in termini di funzionalità tecnica e di sicurezza”.

“ISSpresso – aggiunge Roberto Battiston, presidente dell’Agenzia Spaziale Italiana – è un perfetto esempio di come l’iniziativa ASI di rendere disponibili i diritti nazionali di utilizzo della ISS a progetti di partenariato pubblico-privato produca effetti di valorizzazione di risorse pubbliche a fini tecnologici, economici e sociali: l’ASI porterà ISSpresso a bordo della ISS, grazie agli accordi bilaterali di cooperazione con la NASA, condividendo con i Partner del progetto l’obiettivo comune di contribuire al miglioramento della qualità della vita degli astronauti sulla ISS, così come nei futuri lunghi viaggi di esplorazione interplanetaria. Al contempo, siamo orgogliosi di concorrere alla promozione dell’immagine e alla diffusione del marchio Made in Italy a livello internazionale, anzi “spaziale”.

ISSpresso verrà ad aumentare la varietà di gusto nei menù degli astronauti ma aumenterà a migliorare le conoscenze sui principi di fluidodinamica e sulle condizioni di microgravità. Lo studio che ha portato alla nascita di ISSpresso è così vasto che ha avuto e avrà ricadute in un immediato futuro anche su altre applicazioni terrestri oltre che spaziali.

Comunicato stampa di Argotec

Comunicato stampa di Argotec In formato pdf: http://www.argotec.it/argotec//docs/CS_ISSpresso_it.pdf

Tagboard- Missione Espresso

Video Sky.it – Nasce a Torino l’espresso spaziale da bere tra le stelle 

Sito web di Lavazza e Lavazza – 2014: Caffé nello spazio

ASI- Agenzia Spaziale Italiana  e ASI- 2014: caffè nello Spazio – L’espresso italiano in orbita con Argotec, Lavazza e l’Agenzia Spaziale Italiana –

Le interviste qui riportate sono tratte dal comunicato stampa di Argotec.

Sabrina

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Una corsa a rotta di collo con le braccia aperte

pulsar with jet

Crediti: X-ray: NASA/CXC/ISDC/L.Pavan et al, Radio: CSIRO/ATNF/ATCA Optical: 2MASS/UMass/IPAC-Caltech/NASA/NSF. Immagine disponibile su Chandra web site: http://chandra.harvard.edu/photo/2014/igrj11014/

Una piccola stella densa e in rapido movimento, si allontana con una velocità superiore a quella del suono dalla sua regione di formazione, emettendo un potente getto di particelle. I risultati sono stati ottenuti da un gruppo internazionale di ricercatori, tra cui la maggior parte italiani che lavorano a Ginevra, in Svizzera.

L’oggetto in questione è una pulsar, ossia il nucleo compatto e rotante che rimane dopo che una stella massiccia collassa su se stessa ed esplode in supernova. I ricercatori hanno osservato quest’oggetto, denominato IGR J11014 – 6103, inizialmente scoperto dal satellite INTEGRAL dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA), mentre si allontana dal resto di supernova, il materiale lasciato dalla gigantesca esplosione di supernova (come la nuvola di polvere che rimane dopo l’esplosione di un fuoco d’artificio).

La pulsar espelle durante la sua fuga uno spettacolare getto di materiale visibile in luce X e lungo ben 37 anni-luce: il getto in raggi X più lungo mai osservato nella nostra Galassia.

Oltre a questo, un’altra caratteristica della pulsar è la sua velocità stimata tra 4 milioni e 8 milioni di chilometri all’ora, che la rende una delle pulsar più veloci tra quelle note.

“Non avevamo mai osservato un oggetto che si muovesse così velocemente e che producesse anche un getto”, ha affermato Lucia Pavan dell’Università di Ginevra, Svizzera, primo autore dell’articolo recentemente pubblicato su questo risultato . “Per fare un confronto, questo getto è lungo quasi dieci volte la distanza tra il Sole e la nostra stella più vicina”.

Oltre alla sua lunghezza impressionante, il getto osservato nella pulsar IGR J11014 – 6103 ha altre caratteristiche spettacolari e interessanti. Ad esempio, il getto ha la forma di un’elica, come una sorta di cavatappi. Questo suggerisce che la pulsar stia oscillando come una trottola. Vi sono anche evidenze di un debole getto lanciato in direzione opposta.

IGRJ11-labelITA

Con un po’ di immaginazione questo getto sembra una ballerina con un boa di piume. Crediti: X-ray: NASA/CXC/ISDC/L.Pavan et al.

“IGR J11014-6103, che abbiamo soprannominato “nebulosa faro” per il suo aspetto in raggi X, ha attirato la mia attenzione per la sua emissione nell’intervallo dei raggi X molto energetici che vengono monitorati da INTEGRAL” afferma Lucia Pavan “ma solo quando ho trovato negli archivi del satellite XMM un’immagine che aveva catturato per caso la sorgente, mi sono davvero interessata a quest’oggetto: l’immagine in X mostrava una forma sorprendente, molto allungata, come una sorta di striscia nel cielo”.

“Con un gruppo di colleghi dell’Integral Science Data Center (ISDC) e dell’Institute of Astronomy and Astrophysics (IAAT) di Tübingen, Germania, abbiamo iniziato a lavorare su quest’oggetto. Quasi subito abbiamo sviluppato l’ipotesi che questa lunga striscia brillante in raggi X fosse il risultato di una pulsar, anche se ancora non sapevamo come potesse essere prodotta. Ci sono solo un paio di altre strisce simili prodotte da pulsar isolate, e non è ancora chiaro quale sia il meccanismo fisico alla base del fenomeno. Quest’oggetto era affascinante, ma con i dati a disposizione non eravamo in grado di testare le nostre ipotesi. Avevamo bisogno di saperne qualcosa di più, in tutte le possibili bande di energia. E’ lo stesso che facciamo tutti noi nella vita quotidiana per sondare un oggetto “sconosciuto” che ci troviamo di fronte: lo esploriamo con tutti i nostri sensi, osservandolo, toccandolo, ecc. Facciamo lo stesso in astrofisica, eccetto che i nostri “sensi” in questo caso sono tutte le diverse lunghezze d’onda della luce (o bande di energia)”.

“Abbiamo chiesto di fare una nuova osservazione in X con Chandra, per la sua tecnologia unica al mondo che ci permette di ottenere le immagini più nitide in assoluto in X, e in radio con l’Australia Telescope Compact Array (ATCA) formato da sei antenne che possono essere spostate su un binario di 6 chilometri.
Ero ad una conferenza a Parigi quando vari mesi dopo ho finalmente ricevuto i dati delle nostre osservazioni con Chandra. Anche la prima immagine grezza toglieva semplicemente il respiro. La striscia lineare mostrava molti più dettagli di quanto mi aspettassi. C’era un’altra striscia, molto più debole, in direzione opposta. La pulsar produceva anche una coda molto più corta, come una sorta di “cometa” luminosa in X e in onde radio, e diretta quasi perpendicolarmente alla striscia lunga. “

“Abbiamo iniziato a lavorare sui nuovi dati insieme ai colleghi dell’Università di Western Sydney e dell’INFN di Roma. Dimostrare la nostra idea è stato molto più difficile di quello che ci aspettavamo all’inizio, ma con tutti i dati che abbiamo raccolto nelle diverse lunghezze d’onda, alla fine siamo stati in grado di concludere che la piccola cometa è dovuta al “vento” prodotto dalla pulsar, quello che viene chiamato il “pulsar wind nebula”. La sua forma allungata è dovuta alla velocità della pulsar, nello stesso modo in cui gli aeroplani supersonici formano i coni di Mach. Abbiamo potuto confermare anche che la pulsar si è formata circa 15000 anni fa durante l’esplosione che ha lasciato i detriti visibili più a nord (quello che viene definito “resto di supernova”), come era stato suggerito da altri ricercatori con un’osservazione Chandra molto più breve.”

“La pulsar e il resto di supernova sono alla stessa distanza da noi (a circa 20 000 anni-luce) e la lunga scia in X prodotta dalla pulsar ha una lunghezza incredibile, di quasi 40 anni-luce! La pulsar sta viaggiando dall’istante dell’esplosione a una velocità di oltre 1 000 km/s.”

“L’ultimo -e fondamentale- aspetto, molto più difficile da risolvere, era capire se questa striscia così lunga ed energetica, fosse o meno un flusso di particelle emesso dalla pulsar stessa (quello che viene chiamato “getto”). Solo quando abbiamo creato un modello numerico per simulare i diversi aspetti di un getto osservato attraverso gli occhi del satellite Chandra, e lo abbiamo confrontato con i nostri dati, siamo stati finalmente in grado di dimostrare che questo è davvero il getto di una pulsar. Il secondo getto ci appare molto piu’ debole e corto per un effetto della relatività di Einstein. È come se la pulsar stesse correndo nello spazio interstellare a rotta di collo, con le sue braccia completamente aperte, lasciando una scia dietro di sé.”

“Avendo dimostrato che la scia è effettivamente il getto di una pulsar, abbiamo anche ottenuto l’informazione di come sia orientato l’asse di rotazione della pulsar (il getto giace sempre sull’asse di rotazione, altrimenti le particelle espulse non potrebbero formare una scia, ma piuttosto un disco). Questo a sua volta apre numerose questioni, ad esempio sul tipo di esplosione che ha formato la pulsar, che -contrariamente a quanto ci si aspettava- ha lanciato la pulsar in una direzione diversa da quella del suo asse di rotazione. Il resto di supernova non è completamente sferico, ma sembra piuttosto distorto da una sorta di “barra” orientata in una direzione simile ai getti della pulsar. Questo potrebbe suggerire che i getti abbiano avuto un ruolo importante durante l’esplosione, una questione che dovrà essere approfondita in futuro.
Un altro importante aspetto del getto è la sua forma ad elica, simile ad un cavatappi. L’interpretazione più immediata è che la pulsar stia “oscillando” (fenomeno chiamato precessione libera) e l’elica rispecchia le diverse direzioni di emissione delle particelle. Diverse altre pulsar sembrano oscillare in modo simile, come nel caso della pulsar Vela, ma questa ipotesi è ancora argomento di forte dibattito nella comunità astrofisica. Un’altra possibile ipotesi è che questi effetti siano dovuti invece a delle instabilità che si sviluppano lungo il getto”.

“Ci sarà ancora molto da scoprire e da capire su questo oggetto, e sulla formazione delle pulsar e dei getti in generale, fenomeni che sono molto comuni nella nostra Galassia e che qui, per la prima volta, possono essere studiati tutti insieme in un solo oggetto. Speriamo che i nuovi dati che stiamo aspettando da Chandra, un’osservazione molto più lunga -pari a circa tre giorni, e in diverse lunghezze d’onda, ad esempio nella banda ottica con il Very Large Telescope in Cile, ci aiuteranno a risolvere le questioni ancora aperte.”

Articolo:

L. Pavan, P. Bordas, G. Puehlhofer, M. D. Filipovic, A. De Horta, A. O’Brien, M. Balbo, R. Walter, E. Bozzo, C. Ferrigno, E. Crawford, L. Stella, The helical jet of IGR J11014-6103: echoes of a core-collapse supernova, arXiv:1309.6792, disponibile su: http://arxiv.org/abs/1309.6792

Un ringraziamento particolare va a Lucia Pavan per il  lavoro che abbia fatto assieme nella stesura dell’articolo. Lucia, CONGRATULAZIONI! Un risultato che premia anni di lavoro!

Fonti:

Chandra X ray Observatory: Running at Breakneck Speed With Open Arms –  http://chandra.harvard.edu/blog/node/485

Blog Chandra:  Running At Breakneck Speed With Open Arms – di Lucia Pavan – http://chandra.harvard.edu/blog/node/485

Universe@CSIRO: Freaky pulsar flaunts its tail -http://csirouniverseblog.com/2014/02/19/freaky-pulsar-flaunts-its-tail/

Sabrina

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Un pianeta simile alla Terra “caratterizzato” dal Telescopio Nazionale Galileo

Kepler-78b

Una rappresentazione artistica di Kepler-78b. Crediti: TNGHarutyuryan.

Kepler-78b è un pianeta al di fuori del nostro Sistema Solare che orbita attorno ad una stella di tipo solare nella Costellazione del Cigno, a circa 400 anni luce di distanza dalla nostra stella. Finora gli astronomi sono stati in grado di caratterizzare più di 1000 esopianeti, ma Kepler-78b è davvero speciale. Secondo lo studio pubblicato su Nature pochi giorni fa, questo oggetto ha una massa e una densità molto simili a quelle della nostra Terra. Gli autori dello studio, un team internazionale di astronomi guidati da Francesco Pepe dell’Università di Ginevra e formato da membri che provengono da vari Istituti di Svizzera, Italia, Regno Unito e Stati Uniti, affermano che Kepler-78b è formato di roccia e ferro, proprio come la nostra Terra. Cosi´, Kepler-78b è ora il più piccolo esopianeta scoperto per cui sono noti sia la massa che il raggio.

Kepler’78b e’ stato individuato dal Telescopio Kepler della NASA. Kepler ha rilevato la piccola variazione di luce della stella ospite causata dal passaggio del pianeta davanti ad esso. Poco dopo la scoperta, il Telescopio Nazionale Galileo (TNG), telescopio italiano che si trova a 2400 metri sul livello del mare a La Palma, Isole Canarie, ha puntato la stella madre del pianeta. In particolare, il team scientifico di HARPS-N ((High Accuracy Radial velocity Planet Searcher in North hemisphere)), uno degli spettrografi più precisi al mondo montato al TNG, ha deciso di concentrare le osservazioni su Kepler-78b. Una campagna osservativa molto intensa durante i mesi primaverili ha dato buoni frutti. Sfruttando le caratteristiche uniche e l’accuratezza di HARPS-N, il team ha misurato la leggera oscillazione della luce stella ospite causata dal pianeta intorno ad essa quando transita di fronte ad essa. Si sono ricavati i valori di massa e di densità che sono simili alla Terra. Un team diverso ha osservato con il telescopio del Keck alle Hawaii. Le misure dei due differenti team concordano fra loro, aumentando così la sicurezza del risultato.

Emilio Molinai, Direttore del TNG e uno degli autori dell’articolo sottolinea l’importanza di usare HARPS-N: “Siamo particolarmente orgogliosi della performance del TNG e di HARPS-N in quanto dimostrano che la scoperta del pianeta gemello della Terra sta diventando sempre più fattibile. Un particolare ringraziamento è doveroso alle persone dello staff che l’ha reso possibile”.

Kepler-78b ha un raggio di soli 1,17 volte quello della Terra, mentre la massa è di solo 1,86 volte quella terrestre. Questi numeri comportano una densità di 5,57 grammi per centimetro cubo e implicano una composizione di roccia e ferro, rendendo Kepler-78b il pianeta extrasolare più simile alla Terra finora conosciuto. Tuttavia, Kepler-78b ha un brevissimo periodo orbitale, di soli 8,5 ore, e quindi orbita ad una distanza ravvicinata alla sua stella ospite. Ciò significa che la temperatura sulla superficie del pianeta dovrebbe aggirarsi intorno ai 3000-5000 gradi, il che esclude ogni possibilità di vita come la immaginiamo sulla Terra.

Kepler-78b è destinato a svanire dato che le forze mareali lo attireranno sempre di più vicino alla sua stella madre. Alla fine si sposterà così vicino che la gravità della stella che lo farà a pezzi. Questo potrebbe accadere entro tre miliardi di anni, secondo le previsioni dei teorici. “E’ interessante notare che il nostro Sistema Solare potrebbe aver avuto un pianeta come Kepler-78b. Se fosse stato così, il pianeta sarebbe stato distrutto precocemente durante l’evoluzione del sistema senza lasciar alcun segno oggi” ha affermato Emilio Molinari.

Anche se non vi è alcuna possibilità di ospitare la vita, la scoperta e la caratterizzazione di Kepler-78b, un pianeta simile alla Terra come dimensioni, massa, densità e composizione è un grande salto in avanti nella ricerca di forme di vita extaterrestre. HARPS-N produrrà risultati sicuramente più sorprendenti, che ci permetteranno di ricavare un quadro sempre più completo della formazione ed evoluzione di pianeti extrasolari e un giorno potremo forse trovare un pianeta abitabile con caratteristiche simili alla Terra.

Fonte TNG – Telescopio Nazioinale Galileo – An Earth-like planet characterized by HARPS-N at the TNG, di Gloria Andreuzzi: http://www.tng.iac.es/news/2013/10/30/exoplanet/

Altre informazioni: ANSA in English – Italians help discover most Earth-like planet – http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/english/2013/10/30/Italians-help-discover-most-Earth-like-planet_9545869.html

Media INAF- Così simile al nostro pianeta – http://www.media.inaf.it/2013/10/30/cosi-simile-al-nostro-pianeta/

Telescopio Nazionale Galileo – http://www.tng.iac.es/

Sabrina

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Vita su Marte rivelata dalle sonde Viking: intervista a Giorgio Bianciardi

Il Mars Curiosity è attualmente in rotta verso il pianeta Marte, arriverà nell’agosto 2012. Sarà sicuramente un rover in grado di dare maggiori informazioni sulle possibilità di forme di vita marziana. Crediti NASA.

di Umberto Genovese

L’8 maggio 2012 ho intervistato  il Dott. Giorgio Bianciardi – che conosco personalmente da anni – in proposito alla sua ricerca sui risultati dell’esperimento Labeled Release (LR), come seguito del mio precedente articolo Caccia ai microrganismi marziani, le nuove ricerche sugli esperimenti Labeled Release.

Colgo l’occasione per scusarmi col dott. Bianciardi per non aver forse sottolineato abbastanza che lui è il primo firmatario della ricerca [1] e che è anche medico oltreché biologo presso l’Università di Siena e attuale vicepresidente dell’Unione Astrofili Italiani.

Ecco a voi  l’intervista, ma prima facciamo un veloce ripasso della storia della ricerca biologica delle Viking.

Il Labeled Release Experiment

L’esperimento Labeled Released (LR) fu ideato dal dott. Levin alla fine degli anni cinquanta del secolo scorso per cercare attività biologica su Marte [2] e venne scelto insieme ad altri tre esperimenti per sondare il suolo marziano alla ricerca di tracce biologiche nelle due missioni gemelle Viking giunte su Marte nel 1976.

L’esperimento LR consisteva nel prelevare alcuni campioni di suolo marziano e aggiungervi una soluzione altamente nutritiva – e molto diluita –  composta da alcuni semplici elementi organici derivati dagli esperimenti di Miller e Hurey (glicina, D-alanina e L-alanina, formato, D-lattato di sodio e L-lattato di sodio, glicolato)  a cui però il comune carbonio era stato sostituito con la versione radioattiva di questo: il carbonio 14 (14C). Eventuali microrganismi eterotrofi avrebbero assimilato le sostanze nutritive e rilasciato il 14C nell’aria. L’atmosfera sopra i campioni veniva monitorata per diversi giorni al ritmo di una rilevazione ogni 16 minuti.

Fin da subito il monitoraggio dei campioni di suolo marziano trattato con i composti nutrienti evidenziò un rilascio di 14C [3]. Invece i campioni di suolo pretrattati con un riscaldamento di 160° centigradi per tre ore, il rilascio non avvenne, segno inequivocabile di una qualche attività metabolica o di qualcosa che potesse imitarne gli effetti.

Una sonda Viking – Credit: NASA

Alla fine fu convenuto da molti scienziati che si fosse trattato della seconda ipotesi, che il terreno marziano fosse ricco di perossidi [4] e che questi avessero prodotto un risposta di stampo biologico all’aggiunta dei nutrienti, mentre il riscaldamento dei campioni aveva distrutto i legami covalenti dell’ossigeno nei perossidi e quindi inibito qualsiasi risposta.

Intanto il gascromatografo di massa (CG/MS) non rilevò alcuna presenza organica nei campioni di suolo, ma solo anidride carbonica, acqua e composti del cloro (clorometano e diclorometano) che furono scambiati per residui dei solventi usati sulla Terra per pulire le celle dei due laboratori. Fu solo con la sonda Phoenix che il mistero è stato risolto [5]:  la sonda scoprì che il terreno marziano è ricco di perclorati che una volta riscaldati distruggono le molecole organiche rilasciando appunto i due prodotti scoperti dal gascromatografo delle Viking.

Il dott. Levin non fu mai persuaso dalla tesi ufficiale, e per oltre un decennio studiò e ripeté l’esperimento LR con campioni di suolo diversi ottenendo risultati paragonabili a quelli su Marte [6] .  Altri scienziati poi nel corso di questi 36 anni hanno ipotizzato che sia i perossidi che i perclorati possono essere essenziali a una biologia sviluppata su Marte, soprattutto per la loro capacità di abbassare il punto di congelamento della – comunque scarsa – acqua marziana.

L’intervista a Giorgio Bianciardi

Il dott. Giorgio Bianciardi, esobiologo e vicepresidente dellUAI.

Grazie dott. Bianciardi per il tempo concesso. Partiamo proprio dall’inizio. In cosa consiste essenzialmente la tua analisi numerica e come può distinguere tra un processo di natura chimica e uno di origine biologica, e in quale ambito viene comunemente  utilizzata?

Analizzo i modelli caotici nei sistemi biologici allo scopo di evidenziare disturbi che nascondono delle patologie. Un sistema biologico ha un certo comportamento caotico riproducibile su diverse scale temporali (un minuto, un ora etc.) mentre un sistema non biologico ha una risposta diversa, più semplice. Un sistema malato avrà l’attrattore caotico [7]

Quindi la tua ricerca sui dati degli esperimenti LR su Marte ha evidenziato qesta risposta caotica?

Si, i risultati dei conteggi dei marcatori di carbonio 14 emessi dai campioni di suolo marziano dopo il nutrimento con la pappa biologica mostravano il tipico andamento che ci si può aspettare da una risposta di tipo biologico.

Questo tipo di risposta era lo stesso ottenuto dalla ripetizione degli esperimenti di rilascio marcato ottenuti in laboratorio con campioni terrestri e, come era stato ottenuto su Marte con il suolo sterilizzato, anche sulla Terra i campioni sterilizzati non mostravano alcuna risposta di alcun tipo. Segno evidente che qualsiasi cosa  avesse rilasciato il carbonio 14 era andato distrutto.

Eppure il gascromatografo nelle sonde non fu in grado di rilevare alcuna materia organica e così gli altri esperimenti, e come fu detto (ed esempio dal celebre Carl Sagan) “se c’è vita, dove sono i cadaveri?”

Il gascromatografo a bordo delle Viking (esperimento CG/MS – nda) non riuscì a rivelare alcuna traccia di sostanze organiche, ma solo acqua, anidride carbonica e tracce di solventi che gli scienziati dell’epoca interpretarono come residui dei solventi usati per pulire le celle delle analisi. Fu solo nel 2008 che la sonda Phoenix scoprì che il suolo di Marte è particolarmente ricco di perclorati [8] che se riscaldati distruggono qualsiasi materia organica presente rilasciando quelle tracce di solventi che il CG/MS aveva trovato.

Inoltre il gascromatografo di massa a bordo dei lander Viking era molto poco sensibile, circa un decimilionesimo di grammo di materia organica per grammo di campione, ossia 10-7 gr, mentre l’efficienza del processo di analisi riduceva questa ad appena un decimo, diciamo che in realtà la sensibilità complessiva si riduceva a  10-6 gr per grammo. Un normale batterio terrestre pesa circa 10-12 grammi e il 90% del suo peso è acqua, mentre il resto, 10-13 gr, è materia organica.  Il gascromatografo avrebbe potuto rivelare solo oltre una soglia di 10 milioni di batteri terrestri per grammo, troppi anche per molti ambienti terrestri [9].

Quindi uno strumento matematico pensato e concepito per evidenziare attività biologica sulla Terra può funzionare anche per la vita extraterrestre?

Ripeto: una risposta biologica è sempre diversa da una risposta chimica, questa è organizzata secondo un grado di complessità diverso, come lo è ad esempio il battito cardiaco rispetto al movimento di un pendolo che si smorza col tempo.

È possibile che il tuo metodo di analisi numerica possa essere sviluppato in futuro tanto da poter essere utilizzato per scoprire attività biologica su altri mondi per esempio analizzando la curva di luce stagionale e lo spettro dell’atmosfera di un intero pianeta?

A noi non interessava trovare un metodo universale per scoprire sicuramente dell’attività biologica, anche perché probabilmente un metodo universalmente valido forse non esiste. Sono molti i sistemi naturali che seguono schemi di risposta non lineare, come accade nella rotazione assiale di un pianeta ad esempio, o nella risposta elettronica di un transistor. Quindi questo metodo non può essere utilizzato in questo senso, a noi è servito solo per dimostrare che le risposte del contatore indicavano un rilascio di radiocarbonio nell’ambiente con uno schema non riconducibile ad alcun processo fisico naturale in quel contesto, tipico però dei sistemi biologici.

Quale è stato il ruolo del dott. Miller nella ricerca?

Il dott. Levin si è speso per venti anni cercando di dimostrare al mondo che il Labeled Release aveva identificato dell’attività biologica. Nel 2000 il dott. Miller, neurofarmacologo, ha proposto a Levin  di ricominciare da capo e insieme hanno  ripetuto tutti gli esperimenti dei Viking sulla Terra, dimostrando che i risultati erano gli stessi  che su Marte.

Miller scoprì tra l’altro che i risultati delle Viking mostravano una correlazione  col periodo circadiano marziano.
Poi nel 2003 Miller e Levin lessero i miei lavori indipendenti e mi contattarono per applicare le mie ricerche al complesso dei dati in loro possesso. Successivamente mi proposero di mettere il mio nome come primo ricercatore e io accettai.

Perché la vostra ricerca è stata approvata e pubblicata dalla Società Coreana per lo Spazio, piuttosto che la NASA [1. La NASA l’anno scorso (dicembre 2010) promosse con una conferenza stampa la ricerca (finanziata dallo stesso ente) sulla “Vita Strana” ipotizzata da Paul Davies e che la ricercatrice Felicia Wolfe-Simon disse di aver trovato nel lago Mono Lake: i famosi batteri all’arsenico, che poi biologi indipendenti di mezzo mondo hanno demolito.] proprietaria del progetto Viking?

La ricerca è terminata l’anno scorso, ma abbiamo avuto delle difficoltà alla sua pubblicazione per i tempi molto stretti che ci eravamo prefissati, noi volevamo che la pubblicazione avvenisse prima che la sonda Mars-Curiosity sbarcasse su Marte.

Un conto è dire adesso che le Viking avevano individuato dell’attività biologica, e un altri è dirlo dopo che Curiosity avrà individuato le stesse.

E se Curiosity dimostrerà il contrario?

Allora ci saremo sbagliati, ma la posta in gioco è troppo grande per non rischiare!

[1] Complexity Analysis of the Viking Labeled Release Experiments, Giorgio Bianciardi, Joseph D. Miller, Patricia Ann Straat e Gilbert V. Levin, IJASS, vol. 13, no. 1, pp.14-26, March, 2012, disponibile su: http://ijass.org/PublishedPaper/year_abstract.asp?idx=132 .

[2] Levin, G. V., Heim, A. H., Clendenning, J. R., and Thompson, M.-F. “‘Gulliver’ – A Quest for Life on Mars,” Science, 138, 114 (1962).

[3] Altri esperimenti con il suolo trattato a diverse temperature o tenuto separato da Marte per lungo tempo dettero a loro modo risultati significativamente diversi.

[4] Durante la felice opposizione di Marte nel 2003, il Pianeta Rosso era anche molto vicino al suo perielio, il che permise agli osservatori di studiare la dinamica dei perossidi marziani nell’atmosfera. Le osservazioni furono effettuate presso il James Clerk Maxwell Telescope (JCMT),  Mauna Kea Hawaii, dal dott. Todd Clancy dello Space Science Institute (SSI) di Boulder, Colorado. Queste osservazioni confermarono che l’equilibrio chimico del perossido di idrogeno nell’atmosfera marziana era determinata dai prodotti della fotolisi del vapore acqueo. http://www.spaceref.com/news/viewpr.html?pid=13756

[5] Detection of perchlorate and the soluble chemistry of martian soil at the Phoenix lander site.

[6]  Labeled Release – An Experiment in Radiorespirometry, GILBERT V. LEVIN and PATRICIA ANN STRAAT http://gillevin.com/Mars/Reprint78-labelrel-files/Reprint78-labrelea.htm .

[7] Teoria del Caos – Attrattore Strano.] compromesso rispetto a un sistema biologico sano.

[8] Scientists Set Record Straight on Martian Salt Find | Space.com.]

[9] http://astrobiology.berkeley.edu/PDFs_articles/Glavin_EPSL2001.pdf .

Umberto

Altre informazioni su: http://tuttidentro.wordpress.com/2012/04/28/vita-su-marte-gli-ultimi-controlli-dei-dati-dalle-sonde-viking/

L’articolo è stato pubblicato inizialmente sul sito Il Poliedrico: http://ilpoliedrico.altervista.org/2012/05/intervista-a-giorgio-bianciardi-sul-labeled-release-experiment.html .

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Inizia la raccolta dati delle sonde GRAIL sul campo gravitazionale lunare

Le due sonde gemelle GRAIL Ebb e Flow (Flusso e Riflusso) hanno dato avvio alla missione scientifica dedicata allo studio della gravità lunare e utilizzeranno una formazione tecnica in volo di alta precisione per realizzarla. I segnali radio che viaggiano tra le due sonde forniscono ai ricercatori misure molto accurate che si tradurranno nella mappa più precisa della gravità lunare mai realizzata finora.  Crediti NASA/JPL-Caltech.

Le due sonde lunari Gravity Recovery and Interior Laboratory (GRAIL) della NASA che sono state battezzate con Ebb e Flow hanno il via alla fase di raccolta dei dati scientifici per mappare il campo gravitazionale lunare con grande precisione, la composizione interna e l’evoluzione del satellite.

“La fase di mappatura e di ricerca scientifica di GRAIL è iniziata ufficialmente martedì 6 marzo 2012 e stiamo raccogliendo i dati scientifici” ha affermato Maria Zuber, Principal Investigator di GRAIL del Massachusetts Institute of Technology a Cambridge.

Tutto il team è estremamente emozionato per questo momento. “I dati sembrano di ottima qualità” ha aggiunto Zuber. L’obiettivo di GRAIL è quello di fornire ai ricercatori una maggiore conoscenza di come la Luna, la Terra e gli altri pianeti rocciosi si siano formati ed evoluti nel corso dei 4,6 miliardi di anni di vita del sistema solare.

Un’altra sonda in questo momento, la sonda Dawn della NASA,  sta mappando il campo gravitazionale dell’asteroide Vesta ad alta risoluzione lungo un’orbita bassa.

Nonostante le oltre 100 missioni inviate sulla Luna c’è ancora molto da conoscere sulla Luna, ha detto Zuber, come per esempio il motivo per cui il lato visibile del nostro satellite sia inondato di magma, o perchè abbia una superficie liscia mentre il lato oscuro sia completamente differente, più ruvido e grezzo.


Il polo sud del lato oscuro della Luna come visto dalla prima immagine inviata a Terra dalla Camera MoonKAM a bordo della sonda GRAIL. Crediti NASA/JPL-Caltech.

GRAIL farà una serie di misure dettagliate dall’orbita lunare con una precisione estremamente grande, entro 1 micron. Questo valore è pari alla larghezza di un globulo rosso umano. Trasmettendo i segnali radio in banda Ka tra una sonda e l’altra e la Terra il lavoro di GRAIL potrà contribuire a svelare alcuni importanti questioni sul nostro satellite.

“Abbiamo lavorato per calibrare l’allineamento delle antenne in banda Ka in modo da stabilire l’allineamento ottimale. Abbiamo verificato i dati della pipeline e stiamo trascorrendo molto tempo nel lavorare con i dati grezzi per assicurarci di aver compreso le sue complessità” ha spiegato Zuber.

Le due sonde stanno volando in tandem intorno alla Luna dopo essere entrate in orbita lunare con delle particolari manovre tra il 31 dicembre 2011 e l’1 gennaio 2012. Gli ingegneri hanno trascorsi gli ultimi due mesi nanovrando le due sonde in orbita più basse, vicino alle regioni polari e quasi circolari ad una altitudine di circa 55 chilometri che sono ottime condizioni per la raccolta dei dati scientifici e allo stesso tempo per il controllo dei sistemi delle sonde.

GRAIL A e B, due mappatori di gravità, sono stati lanciati verso la Luna alla sommità di un razzo Delta II da Cape Canaveral, Florida, il 10 settembre 2011 e hanno compiuto un percorso piuttosto lungo della durata di circa tre mesi e mezzo con un consumo di energia ridotto al minimo per minimizzare i costi complessivi di missione. Gli astronauti dell’Apollo raggiunsero la Luna in soli tre giorni, le sonde GRAIL in tre mesi e mezzo.

 

“Lo scorso 29 febbraio è stata raggiunta l’orbita ideale per raccogliere i dati e l’1 marzo GRAIL è stata posizionata in una configurazione denominata “Orbiter Point Configuration” per testare lo strumento e per monitorare temperature e la potenza. “Quando abbiamo acceso lo strumento si è stabilito un collegamento radio satellite-satellite in modo immediato. Tutti i segni vitali erano normali così che abbiamo lasciato le sonde nella configurazione “Orbiter Point” e da quel momento si è iniziato a raccogliere dati scientifici. Allo stesso tempo abbiamo continuato a eseguire calibrazioni e monitoraggio alla sonda e alla strumentazione di bordo, come le temperature, la potenza, le correnti, i voltaggi, ecc. e tutto sta andando bene” ha affermato Zuber.

La prima mappatura della Luna ottenuta dalla camera MoonKAM a bordo delle sonde GRAIL. Crediti: NASA/GRAIL mission/JPL-Calthech.

Le misure raccolte durante gli 84 giorni di missione saranno utilizzati per creare le mappe più accurate e ad alta risoluzione della faccia nascosta della Luna e del suo campo gravitazionale da 100 a 1000 volte più preciso rispetto al valore ottenuto in passato e permetterà ai ricercatori di dedurrne la struttura interna e la composizione del nostro vicino più prossimo dalla crosta superificiale esterna fino al nucleo più profondo e nascosto.

Dato che un satellite segue l’altro lungo la stessa orbita, le due sonde GRAIL daranno prova delle loro potenzialità con misurazioni di alta precisione nella determinazione di come la distanza cambia l’una rispetto all’altra. Mentre sorvoleranno le zone di maggiore o minore gravità lunare causate dalle caratteristiche visibili come montagne, crateri e masse nascoste sotto la superficie lunare, la distanza tra i due veicoli spaziali cambierà leggermente di volta in volta.

I dati raccolti saranno tradotti in mappe del campo gravitazionale lunare che aiuteranno a svelare informazioni sulla composizione del nucleo della Luna e della sua composizione interna. In particolare GRAIL permetterà di ottenere tre mappe complete sulla gravità nel corso dei tre mesi previsti per la missione che si prevede si concluderà intorno al 29 maggio. Se le sonde sopravviveranno ad una eclisse solare prevista per il prossimo giugno e se la NASA avrà fondi disponibili, allora la missione potrà estendersi per altri tre mesi.

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Il video della sonda Ebb che ha catturato la prima sequenza di immagini con la MoonKAM. Crediti NASA-GRAIL mission-Caltech.

La NASA ha sponsorizzato un concorso pubblico a livello delle scuole americane per la scelta dei nomi da dare alle sonde gemelle, originariamente indicate con GRAIL A e GRAIL B. La IV elementare dell’Emily Dickinson Elementary School a Bozeman, Montana, ha vinto il concorso con la scelta di Ebb e Flow (Flusso e Riflusso). I due nomi sono stati selezionati perchè descrivono in modo chiaro i movimenti delle due sonde in orbita mentre raccolgono i dati scientifici.

Le sonde gemelle GRAIL sono inoltre dotate con una particolare camera chiamata MoonKAM (Moon Knowledge Acquired by Middle school students) il cui scopo è quello di ispirare i ragazzi allo studio delle scienze.  Avendo vinto il concorso nella scelta dei nomi per le sonde, gli studenti della IV elementare dell’Emily Dickinson hanno pure vinto il premio che consiste nello scegliere il primo obiettivo o target sulla Luna per fotografare con le telecamere della MoonKAM, gestite dalla Dottoressa Sally Ride, la prima donna americana a volare a bordo di uno Shuttle.

Una scuola di Padova ha avuto il grande privilegio di essere selezionata tra le varie scuole candidate dalla NASA-GRAIL Mission per ricevere immagini del suolo lunare dalla camera MoonKAM a bordo di GRAIL. Ho fatto la richiesta qualche settimana fa alla NASA seguendo le indicazioni riportate sulla Request. Circa 240 studenti italiani di questa scuola avranno il privilegio di selezionare il sito da analizzare e ricevere informazioni direttamente dalla NASA. Ringrazio il Generale Antonio Cosma e la Prof.ssa Giuliana Clemente per l’onore concessomi in questa memorabile impresa nella ricerca spaziale e nell’arricchimento della conoscenza dell’astronomia tra i giovani.

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La scuola americana che ha vinto in concorso nella selezione dei nomi da dare a GRAIL A e B.

Altre informazioni:

La MoonKAM sulle due sonde GRAIl per gli studenti di tutto il mondo: http://tuttidentro.wordpress.com/2012/03/07/la-moonkam-sulle-due-sonde-grail-per-gli-studenti-di-tutto-il-mondo/

Le prime immagini della Luna dalle sonde GRAIL: http://tuttidentro.wordpress.com/2012/02/03/le-prime-immagini-della-luna-dalle-sonde-grail/

Sito NASA GRAIL: http://www.nasa.gov/grail .
Sito MoonKAM: https://moonkam.ucsd.edu .

Sabrina 

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Scoperte galassie massicce otto miliardi di anni dopo il Big Bang

Questo diagramma a forma di torta mostra la distribuzione spaziale delle galassie massicce ottenuta da BOSS. In rosso, vengono mostrate le nuove galassie ottenute da BOSS ad alto redshift (e quindi a grandi distanze), mentre in bianco sono evidenziate le galassie a grandi distanze riprese, invece, con SDSS ; le galassie di massa intermedia (MAIN) riprese da SDSS sono evidenziate in giallo. Image Credit: Michael Blanton and the SDSS-III Collaboration.

Nata come eredità della Sloan Digital Sky Surver (SDSS) la SDSS-III’s Baryon Oscillation Spectroscopic Survery (BOSS) sta attualmente mappando la distribuzione spaziale delle galassie più massicce nell’Universo. I ricercatori dell’MPA sono stati coinvolti nella Survey della SDSS per oltre un decennio. Hanno utilizzato gli spettri galattici ottenuti da questi esperimenti per dedurre importanti informazioni di carattere fisico sulle stelle e sul gas presente in questi sistemi, che fanno capire come le galassie si sono formate ed evolute nel corso della storia dell’Universo.

In un recente articolo, realizzato da una collaborazione internazionale formata da ricevatori delll’MPA, dell’Università del Wisconsis e della Johns Hopkins University, insieme al team BOSS, si sono messe in evidenza le masse e le età di circa 300 000 galassie massicce a redshift compresi tra 0,45 e 0,7 che corrispondono ad un tempo in cui l’Universo aveva un’età pari a circa il 60% di quella attuale. Tutte queste galassie hanno masse superiori a 100 miliardi di masse solari (10^11 Msun) rendendo questo campione di galassie massicce con i loro rispettivi spettri il più grande campione finora ricavato.

Le galassie massicce sono davvero interessanti in cosmologia, perchè sono ritenute essere dei “rappresentanti” del punto di arrivo dell’evoluzione delle galassie. Il paradigma standard Lambda-Cold Dark Matter fornisce previsioni dettagliate di come la struttura della componente della materia oscura dell’universo si assembla nel tempo. In particolare, la formazione della struttura è un processo “bottom-up”, che va dal basso verso l’alto, con i più piccoli aloni di materia oscura che collassano per primi, che si fondono poi per formare sistemi sempre più grandi fino a formare giganteschi ammassi di galassie.

Per un lungo periodo queste previsioni cosmologiche furono attaccate da molti osservatori, perchè le galassie più massicce  sembravano essere costituite solo da stelle molto vecchie. Come poteva questo essere consistente con uno scenario nel quale le strutture più massicce che si erano formate durassero nel tempo? [1]

Una galassia ellittica massiccia è mostrata con i suoi lobi visibili in radio formati da particelle molto energetiche. Credit: Michael Blanton and the SDSS-III Collaboration.

Man mano che venivano costruiti telescopi di maggiori dimensioni, i ricercatori sono stati in grado di rilevare deboli galassie nell’Universo distante, dove i tempi di percorrenza della luce diventano paragonabili con l’età dell’Universo stesso.

I ricercatori hanno scoperto che il numero di galassie massicce presenti in epoche cosmologiche molto antiche era davvero molto inferiore rispetto il numero attuale confermando in questo modo che le galassie massicce si erano assemblate in tempi più recenti. Tuttavia, avevano pure trovato che le galassie più massicce nell’universo primordiale erano apparentemente composte da stelle relativamente evolute. In altre parole, non era importante quanto indietro nel tempo si andava ad osservare, perchè quello che si osservano erano poche evidenze di formazione stellare recente, una volta che la galassia in questione aveva raggiunto una certa soglia di massa stellare.

Questi risultati hanno causato molta costernazione fra i ricercatori e i tecnici ricercatori che avevano misurato e concluso che grandi quantità di gas avrebbero dovuto raffreddarsi e formare stelle negli aloni di materia oscura che circondavano le galassie massicce. Si è discusso e formulato moltissime teorie in merito ai meccanismi esotici che scaldano il gas e impediscono la formazione stellare. Gli esempi vanno dalle gigante esplosioni che sono alimentate dal materiale che si accresce nei buchi neri centrali di milioni di masse solari, ai getti, su scale del Megaparsec, di particelle cariche che viaggiano a velocità relativistiche e che penetrano e riscaldano il gas che circondano le galassie.

I nuovi risultati da SDSS-III indicano che questi meccanismi esotici possono trovare più difficoltà nel fermare la formazione stellare nelle galassie massicce ad alto redshift. Il team dell’MPA/Wisconsin/JHU ha impiegato una tecnica che potrebbe stimare l’età delle stelle in una galassia utilizzando le dettagliate caratteristiche delle righe di assorbimento stellare nei loro spettri. Nelle galassie massicce, le stelle più giovani sono spesso avvolte in bozzoli di gas ricchi di polvere che assorbono gran parte della luce blu emessa dalle giovani stelle calde, tanto che le deduzioni sulla base del colore della galassia potrebbe portare a deduzioni sbagliate sulla loro età e distanza.

Le linee continue gialle, bianche e azzurre mostrano la frazione di galassie che hanno formato più del 5%, del 10% e 15% delle loro stelle negli ultimi miliardi di anni in funzione della massa stellare. Questi risultati sono relative a galassie con redshift z=0,1 nel campione di dati selezionati da SDSS a basso redshift. Le linee tratteggiate in giallo, bianco e azzurro mostrano lo stesso risultato per galassie con redshift z=0,5 nel campione BOSS. Credit: Michael Blanton e SDSS-III Collaboration.

La nuova tecnica e il campione enorme di grandi galassie che non ha precedenti nello studio dell’universo, hanno permesso al team di ricercatori di concludere che la frazione delle galassie più massicce con giovani stelle è diminuito di un fattore 10 negli ultimi 4 miliardi di anni. Ad un redshift di 0,5 oltre il 10% di tutte le galassie con masse stellari intorno a 200 miliardi di masse solarinhanno sperimentato un episodio recente di formazione stellare.

Questi risultati sono in contrasto con le ipotesi da parte di alcuni ricercatori secondo i quali le stelle nelle galassie massicce si sono tutte formate circa 2-3 miliardi di anni dopo il Big Bang. I risultati sono pure entusiasmanti, perchè la nuova generazioni di satelliti in X sarà in grado di rilevare la presenza del in raffreddamento mentre forma stelle nelle galassie massicce. La nuova generazione di survey in radio permetterà di tracciare e di descrivere come le particelle energetiche dai buchi neri trasferiscono la loro energia in questo gas.

L’articolo è stato pubblicato su ArXiv:  http://arxiv.org/abs/1108.4719: “Evolution of the Most Massive Galaxies to z=0.6: I. A New Method for Physical Parameter Estimation”, di Yan-Mei Chen, Guinevere Kauffmann, Christy A. Tremonti, Simon White, Timothy M. Heckman, Katarina Kovac, Kevin Bundy, John Chisholm, Claudia Maraston, Donald P. Schneider, Adam S. Bolton, Benjamin A. Weaver, Jon Brinkmann; 2011, arXiv:1108.4719v2 [astro-ph.GA].

[1] Scenario bottom-up: la materia oscura dominante è di tipo freddo (Cold Dark Matter) cioè con bassa dispersione di velocità, ad esempio particelle molto massive, m > 30 Gev (come l’ipotetico neutralino). Si formano prima le galassie, poi man mano le strutture più grandi (clustering gerarchico). I dati attuali supportano lo scenario bottom-up di clustering gerarchico, dominato da materia oscura fredda (CDM).

Fonte: Max-Planck-Gesellschaft: http://www.mpg.de/de e Message to Eagle: MPA Sientists Discover Massive Galaxies Still Alive Eight Billion Years After The Big Bang .

Sabrina

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Nessuna fine del mondo per il 2012

Iscrizione sul monumento Tortuguero n.6: Maya Decipherment – A Weblog on the Ancient Maya Script – Disponibile su: http://decipherment.files.wordpress.com/2011/09/tortuguero-final.jpg

 

E’ estremamente impossibile che il mondo finirà nel dicembre 2012. Non dobbiamo dare credito all’antico calendario Maya per prevedere questo. Lo affermano degli esperti della cultura mesoamericana.

E’ vero che il cosiddetto computo lungo del calendario Maya, che parte dal 3114 a.C., prevede per il 21 dicembre 2012 la fine del ciclo Bak’tun della durata di 400 anni. La fine di questo ciclo non corrisponde all’inizio di uno nuovo, bensì ad una sorta di “reset” del sistema, come se ad un certo punto noi cancellassimo dalla memoria del nostro computer tutti i dati che l’hanno rimepita al 99,99 % e ricominciassimo a scriverne degli altri, o se azzerassimo il contachilometri della nostra automobile che arriva a contare 99 999 chilometri fatti facendo ripartire da zero il contachilometri.

I Maya, secondo William Saturno, studioso di Archeologia Maya alla Boston University, amavano assistere alla fine di un lungo periodo, un evento meraviglioso ma non prevedevano che coincidesse con la fine del mondo. La fine del computo lungo era l’inizio di un nuovo ciclo, ha confermato Emiliano Gallaga Murrieta, Direttore per lo Stato del Chiapas dell’Istituto Nazionale Messicano di Antropologia e Storia. Un po’ come accade per il calendario cinese. Questo anno è l’anno del Coniglio, il prossimo sarà quello del Dragone e così via, scegliendo di anno in anno un animale differente.

Sulla fine del 13° Bak’tun i Maya non hanno lasciato molti riferimenti scritti: ne è stato trovato uno solo. Si tratta di una tavoletta di pietra ritrovata sul Monumento 6 del sito archeologico di Tortuguero, nello Stato messicano di Tabasco. A causa delle sue pessimi condizioni in cui è stata ritrovata la tavoletta non è facile da decifrare anche se molti ricercatori hanno tentato di farlo.

La più importante fra queste traduzioni rimane quella di Stephen Houston della Brown University e di David Stuart dell’Università del Texas, ad Austin, che risale al 1996. Da questo studio e dalla loro traduzione emerge che alla fine del 13° Bak’tun una divinità sarebbe scesa sulla Terra. Non si sa cosa sarebbe successo dopo, forse era riportata una profezia. E questi risultati di Hauston e Stuart furono citati su molti siti New Age, su forum, su libri e riviste, come se questa fosse la prova che Maya avevano previsto la fine del mondo. Recentemente i due studiosi hanno esaminato nuovamente i segni incisi sulla tavoletta concludendo che potrebbe non contenere alcun tipo di profezia, ma trattarsi, in realtà, di un riferimento al futuro per celebrare proprio il Monumento 6 dove è inciso.

Se leggiamo il post scritto da Stuart nell’ottobre scorso, “Maya Decipherment-More on Tortuguero’s Monument 6 and the Prophecy that Wasn’t” su: http://decipherment.wordpress.com/2011/10/04/more-on-tortugueros-monument-6-and-the-prophecy-that-wasnt/ , troviamo un esempio chiarificatore su questa tavoletta e sul suo significato [1].

Immaginiamo che uno scriba che vive a New York negli anni Cinquanta abbia voluto immortalare qualche avvenimento di grande importanza di quell’anno su un monumento di pietra. Un evento importante dell’epoca è stato sicurmaente la partita vincente dei New York Yankees nelle World Series, le finali del campionato americano di baseball. Se il nostro scriba immaginario usasse lo stesso espediente retorico utilizzato dallo scriba maya, l’iscrizione dovrebbe essere di questo tipo: “Il 7 ottobre 1950 i New York Yankees vinsero le World Series sconfiggendo i Philadelphia Phillies. Ciò accadde 29 anni dopo la prima vittoria degli Yankees nelle World Series, nel 1921. E così, 50 anni prima dell’anno 2000, gli Yankees vinsero le World Series”. Questo significa, secondo Stuart, che i Maya abbiano citato semplicemente un evento futuro di grandissima importanza storica, l’anno 2000 nel caso dell’esempio la fine del ciclo nell’iscrizione maya, solo per riferirsi all’evento passato che vuole celebrare. “È la struttura di molti antichi testi maya, compreso il Monumento 6 di Tortuguero”.

Il modo in cui i Maya hanno scritto questa tavoletta ha confuso i lettori e mai profetizzato la fine del mondo, anche se si riferisce alla venuta di un dio al termine del 13° Bak’tun.

“Il testo ha un senso più poetico”, prosegue Houston. “Dice: ‘Ecco, il 21 dicembre 2012 il dio scenderà sulla Terra per cominciare un ciclo nuovo, morirà il vecchio mondo e nascerà un mondo nuovo’. Ma è solo un modo poetico di scrivere” [Fonte National Geographic].

Sul Monumento 6 vi è pure incisa una data specifica, ma questa afferma che “non è seguita da un testo che dice che ci sarà la fine del mondo, che il mondo finirà tra le fiamme…  Quello non si legge da nessuna parte” afferma Houston.

Secondo il ricercatore, l’imminente fine del mondo del 2012 nasce dall’ezigenza degli Occidentali che in cerca di una guida, tornano al passati sperando che gli antichi li possano ascoltare e aitare a superare un presente molto difficile.

 

[1] For those who are unfamiliar with the more technical aspects of Classic Maya literary structure and discourse, I’ll illustrate this concept using a modern parallel. Let’s imagine that a scribe living in New York back in the year 1950 wanted to immortalize some great happening of that year on a stone monument. One momentous event of the time was the New York Yankees’ four-game sweep of the Phillies in that year’s World Series (it pains me a bit to write this today, being a traumatized Red Sox fan). If our imaginary scribe were to use the particular ancient Maya rhetorical device under discussion, he or she might say something like this: “On October 7, 1950, the New York Yankees defeated the Philadelphia Phillies to win the World Series. It happened 29 years after the first Yankees victory in the World Series in 1921. And so 50 years before the year 2000 will occur, the Yankees won the World Series” (little would the scribe know, unless he was a prophet, that the Yankees would win it all again in 2000). The last sentence of this commemorative statement is a projection forward to a date of calendrical importance — the fifty-year anniversary as well as the near-start of the new millennium — but notice how the writer swings back to highlight the real event at hand — the 1950 sweep. This is precisely how many ancient Maya texts are structured, including Tortuguero’s Monument 6. [Fonte: Maya Decipherment-More on Tortuguero’s Monument 6 and the Prophecy that Wasn’t di David Stuart].

Fonte NationalGeographic: http://news.nationalgeographic.com/news/2011/12/111220-end-of-world-2012-maya-calendar-explained-ancient-science/

In Italiano su:

http://www.nationalgeographic.it/popoli-culture/2011/12/21/news/se_verr_la_fine_del_mondo_non_prendetevela_con_i_maya-752401/index.html

Maya Decipherment-More on Tortuguero’s Monument 6 and the Prophecy that Wasn’t by David Stuart
http://decipherment.wordpress.com/2011/10/04/more-on-tortugueros-monument-6-and-the-prophecy-that-wasnt/
Un altro interessante link: What Will Not Happen in 2012 by Steve Houston: http://decipherment.wordpress.com/2008/12/20/what-will-not-happen-in-2012/

Sabrina

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New Horizons e IceHunters

New Horizons. Credit NASA.

 

L’incontro con Plutone-Caronte di New Horizons nel luglio 2015 è fortemente atteso nella cerchia di ricercatori che si occupano del sistema solare e in particolare di oggetti minori del sistema solare.

Nel 2006 la NASA ha inviato questo grande “ambasciatore” verso la frontiera planetaria. La sonda New Horizons è ora a metà strada tra Terra e Plutone, in avvicinamento per un flyby molto ravvicinato col pianeta nano e i suoi satelliti. New Horizons sarà operativa solo quando si verrà a trovare nelle profondità della Fascia di Kuiper, la fascia di asteroidi oltre l’orbita di Nettuno. Ci dovrebbe essere anche la possibilità, dopo il flyby con Plutone-Caronte di un secondo incontro ravvicinato con un oggetto della Fascia di Kuiper (KBO, Kuiper Belt Object), fascia formata da oggetti delle dimensioni confrontabili o inferiori a Plutone, di cui Plutone è il maggior rappresentante.

New Horizons è stata lanciata il 19 gennaio 2006; nel febbraio 2007 ha ricevuto un’accelerazione dal pianeta Giove (una sorta di swing-by o gravity assist con il pianeta maggiore del nostro sistema solare), molto studiata dai ricercatori.

Per oltre cinque mesi, New Horizons studierà il sistema Plutone-Caronte, e precisamente nella primavera-estate 2015. In particolare, l’incontro più ravvicinato con Plutone si avrà il 14 luglio 2015. Successivamente, la missione dovrebbe continuare in una regione più profonda della Fascia di Kuiper, per esaminare uno o più oggetti degli asteroidi ghiacciati, un miliardo di chilometri oltre l’orbita di Nettuno.

L’invio di una sonda spaziale in queste remote regioni del nostro sistema solare interno ci aiuterà a rispondere al alcune domande fondamentali sulle proprietà della superficie, sulla geologia, sulla struttura interna e sulle atmosfere di oggetti così lontani.

La parte più importante del flyby con il sistema Plutone-Caronte durerà circa un giorno terrestre, mezza giornata prima del massimo avvicinamento e mezza giornata dopo. In questo modo la sonda cercherà emissioni ultraviolette nell’atmosfera di Plutone e cercherà pure di realizzare le migliori mappe sia di Plutone che di Caronte nelle regioni del blu, del rosso e dell’infrarosso, e in una particolare lunghezza d’onda cui è sensibile il metano ghiacciato sulle loro superfici. Si prenderanno inoltre delle immagini in bianco e nero ad alta risoluzione, delle mappe spettrali nel vicino infrarosso che permetteranno di mettere in luce la composizione superficiale di Plutone-Caronte e di individuare posizione e temperature dei materiali presenti sulla loro superficie.

Disponibile su: http://www.celestiamotherlode.net/catalog/spacecraft.php

 

 New Horizons passerà a una distanza inferiore a 12 500 chilometri da Plutone e a circa 29 000 chilometri da Caronte. Immagini a grande risoluzione verranno realizzate in un intervallo di circa mezz’ora quando la sonda si troverà alla minima distanza sia da Plutone che da Caronte soprattutto nella regione del visibile e del vicino infrarosso per ottenere dettagli della sua superficie con una risoluzione di circa 100 metri.

Ma il lavoro della sonda non termina con Plutone e le sue lune. New Horizons verrà puntata nel lato più scuro di Plutone e Caronte per individuare foschie nell’atmosfera alla ricerca di eventuali anelli e per capire se le loro superfici sono lisce o ruvide. Inoltre, la sonda volerà verso le ombre proiettate da Plutone e Caronte nello spazio. Si può osservare il Sole e la Terra anche da quelle distanze e analizzare la luce solare e le onde radio trasmesse da trasmettitori terrestri. Il momento migliore per misurare le caratteristiche dell’atmosfera si hanno solo quando la sonda punterà in direzione del Sole e della Terra, dietro il sistema Plutone-Caronte.

Oltre Plutone-Caronte vi sono altri interessanti oggetti da studiare. Il successivo target della missione verrà rivelato solo poco prima dell’incontro con Plutone ma i ricercatori sperano di trovare uno o più target per New Horizons di almeno 50 chilometri di diametro. L’incontro con un KBO potrebbe essere simile a quello con Plutone-Caronte: la sonda dovrebbe perciò mappare la superficie di un KBO e ottenere immagini ad alta risoluzione, indagando pure la sua composizione grazie ad uno spettroscopio a raggi infrarossi e a mappe in quattro colori  studiando atmosfera e possibili satelliti.

Per capire quale target è il migliore, al momento si studiano attentamente immagini da terra prese appositamente per questo scopo utilizzando grandi telescopi terrestri. Nascosti all’interno di queste immagini vi sono sicuramente degli oggetti della Fascia di Kuiper, degli asteroidi che sfrecciano nel nostro cielo tra milioni di stelle di fondo.

 

Su IceHunters (sito web: http://www.icehunters.org/index.php), istituito dalla Southern Illinois University, vi saranno sicuramente in un futuro non molto lontano immagini e curiosità su mondi lontani, mondi ghiacciati proprio perchè lontani dal Sole.

Al centro del progetto IceHunters ci sono immagini raccolte da alcuni dei più grandi telescopi terrestri, la maggior parte delle quali provengono dal Magellan Telescope di 6,5 metri di diametro in Cile, e dal Subaru Telescope di 8 metri a Mauna Kea, Hawaii e che hanno l’obiettivo di cercare regioni dove potenzialmente si potrebbero trovare nuovi mondi ghiacciati, nuovi oggetti della Fascia di Kuiper. Come SETI@Home, IceHunters sfrutta ampiamente il web e le potenzialità degli utenti di tutto il mondo.

Un interessante video che presenta il progetto IceHunters lo potete guardare qui:

http://www.youtube.com/watch?feature=player_embedded&v=kQUMxy9SeAE

Qui sotto il lancio della sonda New Horizons il 19 gennaio 2006:

http://www.youtube.com/watch?v=aMvmV6DLy-w&feature=related

Un altro video interessante sulla sonda:

http://www.youtube.com/watch?v=lHt_bXs4QKE&feature=related

Informazioni su:

IceHunters: http://www.icehunters.org/index.php

Sito NASA: http://www.nasa.gov/mission_pages/newhorizons/main/index.html

IceHunters: http://www.icehunters.org/science?ticket=ST-1318166654r224098D8B4A5F89B4E

Sabrina

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