Scrivere mi fa stare meglio. A volte non c’è altro, non c’è altro che posso fare. In certi momenti bassi dell’anima – che a volte mi giungono addosso così misteriosamente – l’unica cosa è scrivere.
Mettere in fila parole, una dopo l’altra, pensare alla prossima parola da inserire, ponderare l’uso di due parole simili… tutto questo mi fa assaggiare di nuovo un ordine bello, calmo, pacato, stabile. Entro in contatto con questo ordine superiore, scrivendo. Di qualsiasi cosa, di qualsiasi argomento. Come adesso. Scrivendo, semplicemente. Ed accade che mi calmo. Qualcosa nel mio cervello si placa, avverto nuovamente l’onda placida di una pienezza che mi lambisce, per cui non devo più agitarmi, non devo preoccuparmi, non serve più, è ormai inutile, si può finalmente riposare.
Perché poi riposare scrivendo, davvero non lo so. Dopotutto, non penso nemmeno sia una cosa che devo sapere. Penso sia una cosa così, una cosa che viene e che non posso e non devo dominare. Che ne voglio sapere io, in fondo? Chi ha una comprensione veramente chiara e limpida di sé stesso? Mi basta capire cosa mi faccia stare bene, poi il resto non mi compete.
Certo che iA Writer ha questo, che apri il programma e ti viene voglia di scrivere. Ancora non sai bene cosa scriverai, anzi non lo sai per nulla affatto. Però questa cosa è certa, ti va di scrivere. L’interfaccia linda e pulita è proprio un invito. Le lettere scorrono grandi dentro la finestra e il preview istantaneo ti dà un gusto particolare. Questo forse, chissà, è perché sei abituato ai codici che compilano, cioè a scrivere in un modo ed aspettarti che quello che scrivi venga modificato, interpretato in qualche modo.
Quindi anche se è un poco rozzo in tante parti gli si perdona molto, perché è molto simpatico per il resto. Poi il fatto che fa venire voglia di scrivere, davvero non ha prezzo.
Ho fatto l’abbonamento anche ad Ulysses perché mi attira molto con tutte le sue caratteristiche spaziali straordinarie, ma poi non so perché a scrivere torno sempre qui. Quasi sempre qui, voglio direi. Quindi non so, magari toglierò l’abbonamento tra un po’ di tempo, risparmiando qualche soldo. Tutto sta a vedere se riesco bene a proseguire il progetto del quaderno di Astronomia qui dentro iA Writer. Che poi è sempre il solito dilemma, Ulyssess esiste solo per il mondo Apple, e io nel mondo Apple ho appena un piedino, cioè ho mantenuto l’uso dell’iMac avendo sostituito il mio vecchio con quello equipaggiato con M1. Bel prodotto, non c’è che dire. Però in questo modo sono sempre a metà, un po’ su Apple un po’ su Windows (e un po’ su Android per tutto il resto), e quindi l’integrazione direi che manca. Abbastanza manca.
Sempre più, quando vado in giro a raccontare le stelle mi capita di pensare che sto facendo il lavoro più bello del mondo. Proprio così. Un lavoro per cui è sicuramente valsa la pena studiare, è valsa la pena affrontare gli inevitabili momenti di aridità, le ineludibili frustrazioni.
Guardandomi indietro, perfino i mille ripensamenti – ma sarà per me questo lavoro? Mi corrisponde veramente? – e le pesanti, laceranti incertezze: tutto si ricompone. Tutto ha avuto la sua funzione, la sua importanza. Adesso lo capisco, tutto è stato necessario.
Le prime esperienze di pubblicazione di articoli scientifici e le borse di studio a Teramo, a Napoli. Il giro d’Italia per partecipare ai dottorati, presso le varie università. Cose ormai di molti, molti anni fa. Arrivavo il pomeriggio del giorno prima con il treno, cercavo gli alberghi più economici. La mattina di corsa alla prova scritta, dove trovavo tanti volti che avevo visto magari il giorno prima, in un altro luogo d’Italia. Bologna, Padova… città sfiorate per capire se avevano quello che cercavo. Se c’era strada per me. Quello a Roma afferrato infine in extremis, come ultimo tentativo prima di cercare un diverso lavoro. Il primo figlio (anzi, figlia) era già in arrivo: una ragazza che era anche lei alla prova scritta, saputo che mia moglie stava per partorire, mi chiese stupefatta e allora tu che ci fai qui?
Nemmeno più mi ricordo quando è successo, però è successo. Tutto è partito da lì, da quel giorno, in effetti. Da un pensiero, appena. Poi, sono le cose piccole, nascoste, che hanno più peso sulla vita. Ed in effetti, l’innesco, la cosa in sé, sarebbe proprio piccola, proprio trascurabile.
Un pensiero appena. Ho pensato che sarebbe stato bello scrivere dei racconti, delle poesie, intorno al tema unico di un parco. Sì, un tranquillo parco cittadino, un’oasi quieta e sempre, un intermezzo verde in mezzo ai palazzi, uno spazio di accoglienza nel bel centro delle attività delle persone, dell’essere perpetuamente mobile delle cose. Per la cronaca: abitare in prossimità di un parco, non è estraneo affatto a tutto questo.
Insomma, uno spazio verde come area di scambio, zona salutare di sosta per i pensieri e gli avvenimenti. Anche, terreno neutro, spazio riconciliante. L’ho pensato così, in modo leggero e spontaneo. L’ho pensato quando ancora non ero per niente sicuro che questa cosa di scrivere facesse per me, che la potessi veramente prendere sul serio. L’ho pensato quando pensare a questo mi sembrava nient’altro una giocosa pazzia. L’ho pensato come una cosa fresca, infantile, possibile, interessante. L’ho pensato quando solamente sapevo che scrivere mi piace, mi fa star bene. E nient’altro.
Dopo, ho attraversato tanti momenti, di entusiasmo, di fatica, di stallo. Ho smesso e ho provato a fare altro. Ho smesso e ho provato a non far nulla. Infinite volte. Ho scritto un romanzo (con delle parti un po’ deboli e altre, credo, abbastanza interessanti). Ho messo insieme delle raccolte di poesie, l’ultima si chiama Imparare a guarire. Ho pubblicato poi un libro di racconti divulgativi per ragazzi, Anita e le stelle.
Sì tutto bene, tutto bello. Però intanto questo progetto rimaneva lì, quieto. E aspettava. Non se lo sognava, di farsi da parte definitivamente. Ogni tanto mi interrogava pure, tipo Marco che vogliamo fare di questa cosa? Io ovviamente non rispondevo, oppure adducevo scuse. Della serie, sì sì poi ci penso, vedi ora sto finendo questa cosa, sono molto occupato… Allora aspettava, lui. Con pazienza. Ogni tanto si rifaceva vivo. Sono qui, ti ricordi eh? Che vogliamo fare? E io, ovviamente, procrastinavo. Altre scuse, pretesti, tentativi di dilazione, distrazione. Tutti hanno qualcosa che chiama, in questo modo. Tutti cercano di sfuggire, di prendere tempo. E io non faccio certo eccezione.
Anche, un muro denso di obiezioni: la più tenace è sempre la solita, non sono capace, ma poi chi sono io per scrivere? E comunque, come lo pubblico? In effetti (lasciando perdere il resto, per ora) pubblicare una cosa così non è facilissimo, se non sei famoso. Intanto i mesi, anche gli anni, come loro abitudine, passavano. Venne il momento in cui pensai di usare una piattaforma come Wattpad per pubblicarlo, a puntate. Però un po’ di riflessione, e un po’ di osservazione, mi convinse che Wattpad è ottimo per brevi racconti romantici per adolescenti (lo dico con il massimo rispetto), cosa in cui io purtroppo non sono bravo per nulla, ma poco adatto a questo tipo di progetto, dove ci sono capitoli anche parecchio lunghi e certi momenti sono un poco più introspettivi.
E insomma. Le cose andavano avanti, la vita pure, e un angolo del mio spazio mentale era comunque occupato da questa cosa. Questo progetto, che ne facciamo? Ogni tanto lo riprendevo, alternavo fasi di esaltazione per certe parti, di sconforto per altre.
E niente. Alla fine le parti che mi piacevano hanno prevalso. Certe parti mi corrispondono talmente, che non potevo lasciarlo invecchiare, così incompleto. Mi sono messo a lavorare, riprendendo la lotta anche sui due racconti più lunghi: che mi hanno fatto tribolare e tremolare abbastanza, fino a che non ho sentito un sapore che iniziava a piacermi, anche lì. In generale, l’ampio intervallo del tempo di composizione mi ha aiutato, mi ha condotto a sperimentare stili diversi, a osare in certi punti, a tentare modalità espressive particolari.
Intanto mi veniva l’idea per l’ultimo capitolo, quell’idea così semplice ma così… boh, questa non ve la dico, ma mi piace tanto. Ritengo sia abbastanza originale: perlomeno, io non ricordo di averla incontrata in nessun libro. Però se leggete, non saltate avanti: non si fa, non vale.
Insomma è qui, lo potete trovare su Amazon, per ora in formato ebook, magari tra un po’ anche a stampa. Ma ci pensate. Quante cose possono accadere intorno ad un parco? Quante situazioni sussistono in modo sincrono, simultaneo, avvengono lungo questo incredibile tracciato polifonico multipista che è la vita? Quanti linee d’azione parallele insistono in uno stesso luogo, gravitano in una stessa area? Non lo comprendiamo, non lo percepiamo con la mente lineare, razionale. Questo è logico. Noi ci occupiamo di una cosa alla volta, laddove in uno stesso istante si svolgono infinite storie, si snodano innumerevoli eventi. Dovremmo aprirci un minimo alla irriducibile intelaiatura polifonica del reale, certo: ma è proprio difficile.
Sì, il reale è polifonico, mentre i pensieri sono monofonici, e spesso, purtroppo, anche cacofonici. Quando pensiamo il reale lo riduciamo ad una tessitura monofonica, di cose che si succedono una per una. Ma è una riduzione incredibile, una compressione quasi intollerabile. Il pensiero a volte si rinchiude in sé stesso, fa guerra a tutto ciò che potrebbe modificare il suo procedere a spirale sempre sugli stessi percorsi, il suo ostinarsi al giro del criceto nella ruota. Fa guerra all’ipotesi del nuovo, alla possibilità anche episodica e laterale di una inaspettata felicità. Ecco, le persone in questi racconti, a tratti se ne accorgono, questo loro lo avvertono. Magari non riescono ad uscire a questa consapevolezza, in modo lucido e determinato. Ma si accorgono.
Ecco, allora la faccenda è riprendersi il pensiero luminoso, aperto e felicemente incompleto, limpidamente provvisorio. In questo libro provo a sporcare le parole che uso, a sporcarle di questa polifonia di vita, di questa felice imperfetta incompletezza delle situazioni. La parola che non si sporca di niente, non tira su umori odori e sapori, come una buona pasta tira su il sugo, non vale nulla. E basta, insomma. Non ce ne facciamo nulla di cose troppo terse, troppo pulite.
Credo di aver chiaro cosa volevo raccontarvi, dopotutto. Desideravo che anche le storie più affastellate, complicate, si affacciassero ad un margine di speranza, all’apertura infinitamente interessante della possibilità, del fatto che niente è detto, che l’universo è in movimento accelerato, che nessuna situazione è statica. Volevo dirlo innanzitutto a me, e dirmelo nella unica maniera in cui so parlare a me stesso, nella maniera che mi riesce meglio, scrivendo.
A volte poi, mentre me lo dico, un altra, un altro, intercetta il mio discorso, lo trova interessante. E questo è veramente bello. Qualcosa che ha a che fare con ciò che pomposamente si chiama arte ed è accessibile, nella sua magnanimità, non solo ai conclamati grandi artisti ma a tutti noi nella misura in cui ci rendiamo disponibili a lasciare che un po’ di noi stessi venga usato da altri, senza che noi si detenga il controllo, si reclami il copyright emozionale.
Diciamocelo tutto, la sfida è questa. Tu, scrittore, vorresti avere questo controllo, dici tante belle parole ma vorresti controllare come la gente usa quello che scrivi, vorresti dire la tua, spiegare, evidenziare, manifestare, fare il critico di te stesso. Chiaro, il tuo ego spinge in questa direzione. Ma è un lasciar andare che ci vuole, un lasciare andare che è necessario. In questo caso, un ammettere che il ruolo del lettore è altrettanto creativo e inventa cose e le fa vivere tra le tue parole, che tu nemmeno hai idea. Nel caso migliore, il lettore fa l’amore con le tue parole, in un modo che tu non te lo immagini nemmeno. Le parole sono tue, ma le connessione che attivano, sono personalissime, sono di chi ti legge.
E che sia così, l’ho capito anche nell’ultimo giro di revisione, che è stato supportato da amiche ed amici. Che mi hanno arricchito e istruito, così che gli ultimi aggiustamenti, si può dire, sono stati fatti, insieme. E insieme si va più lontano, anche nella scrittura.
Questo è un fatto, incontestabilmente. E come si dice in un racconto di questo libro, un solo fatto, sorpassa mille pensieri.
In effetti questa è una delle piattaforme di blogging più antiche. Anzi, è stata la piattaforma da cui tutto è partito. Il fenomeno blog, messo un po’ in sordina dall’esplosione dei social, sembra parte di un web antico, eppure ancora c’è. Blogger – risalente al secolo scorso, addirittura – è stata come sappiamo comprata da Google, ed è attiva tuttora. E dopo varie opzioni, diverse prove, diverse scelte, sto ricominciando ad apprezzarla. In confronto al tasso di innovazione e alla velocità di variazione di tanti ambienti come WordPress, Medium, etc – diciamolo subito – è una specie di dinosauro, di bradipo, insomma in movimento lento.
Lentissimo.
Blogger ha questo, di suo. Può far passare anni, senza che venga introdotta alcuna modifica. Interi anni (un anno, per un progetto Internet, equivale a mille secoli nel mondo reale). Tanto che ti chiedi se sia rimasto acceso solo per caso, magari qualcuno in Google si è dimenticato di spegnere l’interruttore. Tipo, non so, chi lo chiude Blogger stasera? Ok, faccio io. Ricordati però prima che vai via, eh.
Blogger è una faccenda per cui, nel suo blog (sì esiste un blog dedicato), può passare tranquillamente più di un anno da un post al successivo. Per esempio, il penultimo post è di marzo 2017, e l’ultimo è di maggio del 2018. Insomma con tempi dilatati tanto che pensi, beh, ma c’è ancora qualcuno lì?
Però nella sua lentezza, nella sua impermeabilità a ogni meccanismo social, ha i suoi pregi.
Per essere uno strumento gratuito, ne ha diversi. Per esempio, un controllo completo sul tema. L’editor dei temi arriva a livello delle linee di codice, permettendo di effettuare online delle modifiche il cui unico limite è la conoscenza del codice HTML e dei CSS di chi vi si trova in mezzo. WordPress, nella sua versione dot com, non permette che minime modifiche.
Ha poi una sua essenzialità, che trovo molto adeguata per siti personali o comunque di pretese relativamente modeste.
Blogger permette anche di associare un nome a domino senza pagare nulla, come del resto fa Tumblr (e basta, credo). Certo, i temi di WordPress sembrano più carini, nella media, ma si può sopravvivere lo stesso.
Si potrebbe continuare con elenco di pregi e difetti, ovviamente. Certo che alla fine è tutta questione di gusto, è una questione più emotiva che razionale. Così nell’espressione in rete la parte del cuore gioca un ruolo fondamentale, ora e sempre, anche quando si vorrebbe fare rotta verso una asetticità e un pragmatismo più elevato.
Meno male che non è così, meno male che anche qui possiamo sempre ripartire dalle emozioni, forse la parte che più di ogni altra attende di essere trasmessa in rete, per creare risonanze ampie e virtuose, fuori dalla litigiosità coatta di tanti social. Ci vuole una presa d’aria, un momento di tranquillità.
Dove pesare le parole, levigarle, assestarle. Assecondarle.
E fare spazio all’idea di… riprendersi questo spazio.
Dopo vari tentativi, diversi esperimenti, WordPress, VPS, Medium….
Scrivere senza distrazioni è probabilmente la frase più usata (ed abusata) per il software di scrittura al computer. Visto che il minimalismo va ancora abbastanza di moda, è sempre un lancio elegante ed efficace. Però questa volta direi che l’appellativo risulta abbastanza azzeccato.
iA Writer è la mia attuale opzione per quanto riguarda la scrittura creativa (racconti, poesie), per una serie di ragioni che accennerò in parte, se vorrete seguirmi.
Bisogna dire subito, è multipiattaforma. Esiste per OS X, iOS, Android e — tra pochissimo — anche per Windows. Dunque puoi veramente portare il tuo lavoro dappertutto, qualsiasi computer o tablet o telefonino tu stia portandoti appresso in un dato momento. Puoi iniziare con il MacBook, per dire, poi spostarti sul tablet e quando sei fuori casa, dare una ritoccatina alla tua opera usando lo smartphone.
Nella ricerca di ambienti adeguati di scrittura, ho fatto un viaggio abbastanza articolato, che è partito — tralasciando ora la preistoria — dall’infatuazione per Scrivener (sul quale ho compiuto tutta la lunga opera di revisione del romanzo Il ritorno), per muoversi poi su Ulysses, ed approdare infine a iA Writer. Provato quasi per caso, poi piano piano è maturato l’interesse e direi quasi la passione. Certo il passaggio da Ulysses a iA Writer — in particolare — non è stato facilissimo, perché abbandonare un ottimo software, con delle eccellenti caratteristiche, non è mai facile. Eppure l’esigenza di poter avere accesso alle mie cose anche sui dispositivi mobili Android, alla fine ha prevalso.
In questo, la scelta di Ulysses di passare ad un modello di business che prevede un abbonamento mensile, in luogo dell’acquisto del software, ha dato anche lui una mano, lo devo ammettere. Senza entrare adesso in accurate disanime dei vari modelli per finanziare uno sviluppo di software, direi solo, in questa sede, che non è un modello a cui io sia particolarmente affezionato. Ho già troppi abbonamenti (Netflix, Spotify…) per accollarmene un altro a cuor leggero.
Ed eccoci. Da diversi mesi uso iA Writer sia per la prosa che per le poesie. Certo, c’è da abituarsi al fatto che si deve lavorare in Markdown, che per i più — magari abituati a Word — può essere un attimino spiazzante. Eppure dopo un pochino ti ci abitui, e anzi inizi ad apprezzare il vantaggio indiscutibile di lavorare con file di puro testo, essenzialmente l’unico formato che rimane leggibile in un tempo abbastanza lungo (fatte salve le iscrizioni rupestri).
Il racconto Venti Passi su iA Writer, (a sinistra in formato Markdown, a destra il rendering)
Nel Markdown la formattazione è tenuta al minimo (l’idea è che pensi a quello che devi scrivere e rimandi gli abbellimenti per dopo), ed è integrata nel testo ASCII. Così se parti per la Luna un anno o due e poi torni, non è apri l’ultimo Word e scopri che i tuoi files non sono più leggibili. In linea di principio, un qualsiasi stupido editor di testo, te li presenta in formato leggibile.
Ok, vai. Se devi, vai… Ma hai salvato tutto in Markdown, prima di partire?
La qual cosa, mi piace.
E del resto, anche Ulysses sposava già la stessa filosofia. Avendo già sofferto il cambiamento all’uscita da Scrivener, ora soffro un po’ di meno.
La chiave di tutto — a mio modo di vederere-— è la possibilità di esportare in una ampia serie di formati: per terminare l’ultima parte di lavoro, dove sia necessario. Ad esempio, puoi esportare in formato Word e finire l’ultima revisione lì. Siamo pratici: è assai difficile che un editore — o una piattaforma di autopubblicazione — accolga i tuoi lavori redatti in uno splendido Markdown. Ti chiederanno piuttosto un “bel” file Word, se non magari un PDF.
Ed ecco il trucco.
Tutto il backstage (il 99% del lavoro) lo fai in Markdown, e poi l’ultimo ritocco lo apponi esportando in Word e sistemando quelle due o tre cosette (impaginazione, caratteri, etc…) di cui in fase creativa potevi tranquillamente non occuparti.
iA Writer ha di suo diverse caratteristiche comode ed interessanti (e anche qualcosa in meno di Ulysses), ma è inutile che vi faccia perdere tempo elencandole tutte. Le trovate nella loro pagina web (come è normale che sia).
La cosa che più mi piace, e che mi fa affrontare e superare anche qualche asprezza ancora presente nel software (esempio, una qualche differenza nel rendering del Markdown quando si usi un ambiente OS X rispetto alle applicazioni Android), è però qualcosa di più immateriale, se possibile, del software medesimo.
Ed è l’attitudine. La scelta del focus, se volete. Facciamo sempre questi due esempi, che sono uguali ed opposti, tanto per capire. iA Writer punta ad essere disponibile su ogni piattaforma (no, a parte il VIC 20, che ora ha un segmento di mercato abbastanza ridotto). In soldoni: c’è per OS X, iOS, Android e — ormai ci siamo — per Windows. Ulysses, per parte sua, si indirizza esclusivamente (e/o elitariamente…) al mondo Apple (OS X e iOS).
iA Writer con il suo sbarco su Windows rende — grazie al cielo!— anche il mio Surface 4 un attrezzo adeguato al mio lavoro di scrittore (suona alquanto pomposo, lo so, ma in fondo come bisogna chiamare uno che scrive?). E spazza via i piccoli residui di incertezza che ancora potevo avere, in caso li avessi avuti (forse sì, non è certo).
Solo Apple oppure Apple e resto del mondo? Niente di male o di esecrabile in entrambi i casi, ma è ovvio che tale scelta di fatto si ritaglia una porzione di mercato e specifici utenti, già di per sé. Se io mi trovo bene con il mio mix OS X + Android + Windows (Surface 4, appunto), è ovvio che Ulysses non potrà essere la mia prima opzione. Più articolato è il caso di chi si muove già dentro un ecosistema tutto Apple, in quel caso potrà scegliere solamente in base alle caratteristiche e al modello di business.
Ah, da non dimenticare. Per lavorare ovunque è necessario e sufficiente che il lavoro sia memorizzato sul cloud, come si dice oggi. iA Writer mi permette di appoggiare i files su Dropbox (o Google Drive) in modo di poterci accedere da qualsiasi dispositivo, in qualsiasi momento. E anche di sentirsi un po’ meno preoccupato del crollo randomico di qualche unità a disco, proprio nel momento in cui stai per mettere l’ultima parola sul manoscritto sul quale hai faticato per un congruo numero di mesi.
E’ un progetto attivamente sviluppato, e alcune nuove caratteristiche che stanno per essere implementate, me lo rendono ancora più piacevole.
First alpha of iA Writer Web Collaboration went out. … If you want to try it now, join our Alpha community on Google+ with the link below, then activate the Alpha version following the instructions in the pinned message https://t.co/M7retGMgmd
E’ come avventurarsi in un territorio nuovo. Sempre nuovo, ma segretamente amico. Come scoprire percorsi sottilmente fraterni. Percorrerli è avvertire delle misteriose corrispondenze, attivare delle risonanze che altrimenti resterebbero inespresse.
Tale è l’avventura poetica, nella sua essenza. Credo che la poesia rivesta un ruolo di perpetuo mistero, di splendida ostinata irriducibilità al senso del comune vivere. Chissà. Forse perché viene proprio per illuminare, per rischiarare il comune vivere, e dunque vuole, vuole farlo, deve farlo — necessariamente deve — da una prospettiva diversa.
Riguardo proprio adesso le mie povere poesie, quelle che piano piano sono venute, stanno venendo alla luce dopo la raccolta In pieno volo. E mi accorgo che è in opera lo stesso meccanismo, la stessa officina è attiva, è (ri)aperta. Soprattutto, capisco da dentro che la poesia si nutre di un enorme rispetto verso il potere della parola, vorrei dire, di ogni singola parola.
Lo capisco proprio dalla strategia compositiva. Che non la decido io, non la pianifico io, ma mi viene dettata da qualcosa, dall’esterno. Io di mio ci metto poco o niente. O meglio, ci metto tutto nella decisione di cedere a questo invito, a starci a questa avventura creativa, o a bloccare, a scappare, a defilarsi, a cercare di definirsi altrove, altrimenti.
Ma il guaio è questo, che ogni altra strategia di definizione è appena una pretesa e non è più una resa, è una pretesa celebralistica di costruzione di un diverso piano di riflessione di sé. Come tale, è uno sforzo, non è un riposo. Il riposo è solo nell’adesione ad un compito, nell’acconsentire a sviluppare il seme secondo le sue direttive (che non decidi tu, non decido io), a lasciar esprimere, a farsi da parte.
Scrivere, quando c’è la spinta per scrivere, non è indulgere nel proprio ego. E’ tutto il contrario, semmai: è accettare di farsi piccolo, di farsi attraversare, di farsi strumento. È mettersi a servizio. Bloccare questo, bloccare tutto questo, voler intervenire ad interrompere questo mirabile, misterioso, cosmico dipanarsi, è la pretesa egoica, è lo sforzo volontaristico, l’ideale parossistico di definirsi da sé.
Non c’è bisogno di essere Ungaretti, per scrivere poesie. Non c’è bisogno di essere pubblicati da un grande editore, né da uno meno grande. E’ tutta una cosa interna, una cosa molto più interna. Riguarda la connessione che hai con tutto il resto, riguarda anche un po’ (assai più di un po’) il senso del (tuo) vivere, il senso di essere su questa terra, adesso. Se ti accorgi che non puoi farne a meno, se le provi tutte ma l’impulso di scrivere non ti molla, comunque non ti molla (piuttosto, lui aspetta che tu la smetta di cercare i modi per defilarti, poi ti torna a chiamare)… Ancora, se nello scrivere capisci meglio il mondo, o entri in un mondo che capisci meglio, dove ti trovi meglio, forse è proprio il segno che tu devi scrivere.
E allora il problema non è più quanto sei bravo o sei efficace, il problema non è più quanto riesci a “sfondare” con le tue poesie. Se te le pubblica Mondadori o se girano solo a fascicoli tra i tuoi parenti ed amici. No, queste sono ennesime proiezioni esterne, non riguardano il centro, il tuo centro. Qui sei ancora tu che sei insicuro e vuoi comandare il gioco, vuoi vedere tutto il pacchetto senza iniziare veramente a viverlo, vuoi ragionare e controllare. Non è questo, non è questo il centro.
Il tuo centro è essere onesto riguardo una certa chiamata. I cui esiti mondani non sono assolutamente cosa di cui tu ti debba occupare, anche se innegabilmente le gratificazioni possono aiutare, e anche tanto (nessuno può negarlo).
Le gratificazioni servono, anche perché rassicurano di un cammino preso. Ma non sono prevedibili, calcolabili, programmabili. Io, per dire, l’ultima cosa che pensavo, mentre andavo sistemando le poesie di In pieno volo, chiedendomi se mostrarle ad altri o tenerle per me, è che una professoressa di scuola media se ne sarebbe innamorata tanto da farle leggere in classe, e proporle addirittura nel programma di esame dei suoi ragazzi. Eppure, è successo. Non sono state pubblicate da un grande editore, ma intanto questo è successo. Ed è una bella gratificazione. Dunque anche le gratificazioni non le puoi mettere in conto prima, in alcun modo. E questo è un bene, perché ti svincola da ogni gretto calcolo “costi/benefici” e da ogni ragionamento piccolo borghese tra tempo impiegato e “riuscita” dell’opera.
Ma io oserei dire che la gratificazione più grande la ricavi proprio ed intimamente ed esclusivamente nell’assecondare il flusso, nel lasciar esprimere il senso dell’universo che fluisce nelle cose, nelle persone, in te che scrivi. Finalmente, scrivi.
Scrivere poesie è inerentemente un cammino iniziatico, è qualcosa che non puoi esaminare compiutamente da fuori senza sporcarti le mani, sporcarti le mani con le parole.
E’ qualcosa che non puoi comprendere senza entrarvi dentro, entrarvi dentro con la mente e con il cuore e con il corpo, senza bagnarti di parole con tutto il corpo. Prenderle, lisciarle, gustarle, cambiarle…
Non si tratta tanto di capire qualcosa, ma di vivere qualcosa. Di assecondare una esigenza misteriosa che è profondamente radicata, diciamo pure una chiamata, e mettendo da parte ogni pretesa egoica di verifica e controllo, dire io ci sono, ed entrare nel sentiero di queste parole, di questi versi, non sapendo assolutamente dove potrà condurti.
Non so come mai, ma tendo a girarci intorno. A procrastinare, a evitare l’argomento, anche con me stesso. A trovare mille altre cose che devono essere fatte, comunque fatte, prima di mettersi a scrivere.
A cose che sono più importanti, più urgenti. Più.
Poi magari chi ti pubblica? Il mercato è una cosa complicata, una giungla…
Eppure ormai lo so. Scrivere non è una cosa che si fa per avere un prodotto. O meglio, si fa anche per questo. Ma non è questo, in fondo. Chi sente questo bisogno lo sa.
Questo bisogno che è una elezione ed insieme una specie di condanna, in un certo senso.
Eh sì, perché non sei mai completo, non sei mai a posto, se non scrivi. Se il tuo strato più interno non è rassicurato sapendo che tu stai scrivendo.
Non puoi barare molto, verso lo strato più interno. Verso i ragazzi giù nel basamento, come direbbe Stephen King. Loro, loro lo sanno. Lo sanno se stai adducendo scuse, e non ti mollano. Non ti lasciano in pace.
Puoi provare, certo. Distrarli, per un po’. Alcool, sesso, o qualcosa di più pericoloso. Per ingannare i ragazzi giù nel basamento, insomma. Ma dura poco. Quelli ripartono più furibondi di prima, se non li ascolti. Con conseguenze destabilizzanti sulla tua vita psichica, manco a dirlo (più tu non li ascolti più devono battere forte, è il loro compito: il loro compito è che tu segua il tuo compito).
Del resto, lo sai. Fai finta di non saperlo, ma lo sai.
Bene. Allora dillo.
Scrivere è la tua medicina.
Ecco perché sono pensieri insensati, consigli inopinati, quelli secondo i quali tu prova, se poi tra qualche anno non vieni pubblicato, smetti e fai altro.
Peggio, quelli ci sono già troppi che scrivono, nessuno che legge.
Insensati. Folli. E pericolosi, per di più.
Come dire, prendi questa medicina, è necessaria alla tua sopravvivenza. Poi tra due anni, anche se vedi che ti fa bene, ti fa vivere: beh, di colpo smetti.
Quale medico oserebbe dire una cosa del genere?
Eppure si collega ancora troppo lo scrivere alla sua riuscita mondana. Che è importante, è rassicurante, è bellissima. Peccato che non sia la variabile fondamentale. Quello che decide della tua vita.
Van Gogh non vendeva un quadro, per anni ed anni. Niente, non glieli compravano. Eppure dipingeva come un pazzo, insisteva, insisteva. Aveva qualcosa da dare al mondo, qualcosa che comunque non poteva tenere dentro.
Vincent Van Gogh, Paesaggio da Saint-Rémy, 1889
Non hai deciso tu questo impulso di scrivere. Lo sai bene. Se avessi potuto, ne avresti fatto a meno, preso come sei dallo struggimento per una vita “normale”.
Eppure.
Eppure c’è. Se c’è è per un motivo.
Se non lo onori, se ti fai vincere da manie di perfezionismo e dal non sono bravo abbastanza avveleni te stesso e l’universo.
L’universo se ne frega se tu sei bravo abbastanza — non è compito tuo deciderlo.
L’universo (diciamo) reagisce se ti muovi lungo il tuo campo di forza o no. Se è deciso che tu devi scrivere, che sei qui apposta, ogni tuo commento in proposito, ogni tua esitazione, è frutto di amor proprio.