Come andrà a finire?

Spesso ce lo chiediamo, come andrà a finire? Domanda legittima in diverse circostanze: quando magari non intravediamo lo sviluppo di qualcosa che ci sta a cuore, quando vorremmo soltanto correre in avanti, quasi scavallando il tempo, nell’ansia incontenibile di sapere. Che poi le cose hanno un loro svolgimento, spesso si definiscono proprio nel tempo, così che non sempre è realmente produttiva questa fuga dal presente.

Tutto questo è – se possibile – ancora più vero anche quando intendiamo la domanda nel più ampio senso possibile, cioè riferendola al cosmo. Come andrà a finire il tutto? Che ne sarà, nel tempo, di questo nostro universo fisico? La ragione calcolante vuole risposte precise, pretende dati quantitativi, a volte ignorando che le risposte vengono solo passando attraverso delle fasi, impregnandosi con ciò di cui si sta trattando. Insomma, non è detto che la domanda sia sempre e comunque ben posta, anche se la curiosità è comprensibile e legittima.

Di tutto questo discorro con Gabriele Broglia, sempre sotto la attenta ed affettuosa guida tecnica e regista di Emanuele Giampà, nella sesta puntata della serie di Darsi Spazio, puntata che rappresenta anche la chiusura di stagione (e mai titolo potrebbe dunque essere più appropriato) per questo primo ciclo di conversazioni.

L’episodio si apre con una citazione di Federico Faggin (un post dal suo account X) ed una di Marco Guzzi (dal suo volume Dalla fine all’inizio) che ci aiutano ad imboccare (credo) il giusto sentiero, per arrivare poi a discutere delle varie (interessantissime) teorie della fine del cosmo, per come le possiamo delirare alla luce delle conoscenze attuali.

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Tra batteri e leopardi, tutta la vita di Marte

Certamente la ricerca di vita extraterrestre è oggi uno dei filoni di ricerca principali per quanto riguarda l’esplorazione dello spazio. Il fatto, tanto semplice quanto esplosivo, è che per la prima volta siamo in grado di intendere dei segni che prima ci erano inaccessibili. Segni che potrebbero indicare, finalmente in modo non ambiguo, che vita c’è – o c’è stata – in ambienti esterni alla Terra.

Ovviamente i primi posti dove cercare sono gli ambienti planetari del Sistema Solare. Tra questi, Marte è da sempre un candidato interessante. Non tanto per il suo stato attuale, quanto per come poteva essere in passato: si dice, caldo ed umido, con mari e fiumi simili alla Terra: tuttavia, la questione è ancora controversa.

L’immagine qui sotto è nuova e parecchio interessante in tal senso, poiché ci mostra una zona molto ristretta dalla superficie del pianeta con dei segni “a macchia di leopardo”.

Crediti immagini: NASAJPL-CaltechMSSSPerseverance Rover

Macchie di colore chiaro sulle rocce marziane, ognuna circondata da un bordo scuro, sono infatti state individuate proprio all’inizio di questo mese dal Perseverance Rover della NASA (il rover opera sul pianeta rosso dal febbraio del 2021). Soprannominate (con non troppa fantasia) macchie di leopardo a causa della loro apparente somiglianza con i segni caratteristici sul mantello del famosi predatore terrestri, questi curiose configurazioni sono attualmente in fase di studio, con la possibilità nemmeno troppo remota, che siano state create da antiche forme di vita marziane.

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Ma dove sono tutti?

Famosa la domanda che fece Enrico Fermi mentre lavorava ai laboratori di Los Alamos nel 1950. Si parlava di un avvistamento UFO riportato dalla stampa, la conversazione si spostò poi su argomenti correlati, fino a che Fermi sbottò, Dove sono tutti?

È il celebre paradosso di Fermi: se l’universo è pieno di pianeti adatti alla vita, appunto, dove sono tutti?

In questa conversazione tra me e Gabriele Broglia – la quinta della prima serie di Darsi Spazio, sempre sotto la attenta guida di Emanuele Giampà – parliamo proprio di questo. E di dove cercare la vita, semmai si possa trovare.

E pariamo anche – citando un denso articolo di Giuseppe Tanzella-Nitti – del perché la fede non sia affatto “minacciata” dall’eventuale contatto con extraterrestri.

Buona visione!

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Darsi Spazio (in video)

C’è bisogno di portare il cosmo più decisamente dentro le nostre vite: la sua “rimozione” è infatti funzionale all’assetto neoliberista del sistema in cui siamo avvolti, perché estraniandoci dalle stelle diventiamo solo più predisposti al consumo e al consenso verso un “ordine del giorno” dettato dalle oligarchie: proprio come quei “polli di allevamento” di cui già Giorgio Gaber parlava profeticamente anni fa. C’è bisogno delle stelle come fattore che contribuisca e inneschi la vera rivoluzione, l’unica ancora possibile, l’unica sempre possibile.

Per questo ci serve il cielo: non è un qualcosa di lassù, un qualcosa qualsiasi. Un qualcosa staccato da noi. Serve nella nostra vita quotidiana, nella vita affannata di mattine corse verso il metrò con magari la pioggia già appiccicata addosso, oppure di incastramenti metallici in lentissimo movimento sulla tangenziale, la testa piena di cose da fare e magari di ruminazioni sulla serata precedente o su quella scadenza saltata o su quella persona che vorremmo conoscere meglio o quell’altra che conosciamo ormai da una vita ma che proprio ieri abbiamo trattato – ancora una volta! – con stizzita sufficienza, non pensando al mistero stellato che lei, che ogni persona, è nel cosmo.

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Cercando nuova vita (il metano ci dà una mano)

Era un antico refrain pubblicitario, in realtà: il metano, ci dà una mano. E già la mente indugia sui bei tempi passati, comprende anche ogni epoca aveva le sue suggerite priorità, i (tenacemente) sussurrati ordini del giorno. Come accade oggi, in pratica. Né più né meno. Solo che liberarsi è sempre più difficile. Ma questo è già un altro argomento e ci porterebbe fuori strada.

A parte notare quanto questi semplici slogan si incastrino nella memoria e vengano fuori a distanza di decenni, se c’è (come qui) appena un appiglio. Il che può anche apparire inquietante, per certi versi.

Però qui il metano non ci dà una mano per l’uso più o meno virtuoso dell’energia (fateci caso, qualsiasi cosa viene sempre soprannominata pulita oppure verde a seconda delle priorità del momento), piuttosto ci aiuta a capire quanto siano vivibili dei luoghi molto lontani. Argomento, dunque, ben più serio di uno slogan pubblicitario o di una tecnica per acquisire consenso sociale.

L’immagine di fantasia ritrae il pianeta (a destra) attorno al quale orbita una luna (al centro), con la stella madre sullo sfondo (a sinistra). Crediti: Ahmad Jabakenji (ASU Lebanon, North Star Space Art); Data: NASA, ESA, CSA, JWST

Dove altro potrebbe esistere la vita? Una domanda di sempre che sempre più trova nuove risposte, in quest’epoca. Nel 2019 si scovò un esopianeta con una significativa parte di vapor d’acqua in atmosfera, il pianeta K2-18b. Con la sua stella madre (K2-18, lo so non è un gran nome…), vive a circa 124 anni luce da noi. Ben più grande e pesante della Terra, orbita comunque nella zona abitabile della sua stella.

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Abell 3322, bello e lontano

Si chiama Abell 3322 ed è un ammasso di galassie piuttosto grande. Per la cronaca, al centro si trova la galassia 2MASX J05101744-4519179 (lo so, non è esattamente un nome facile da ricordare, fortunatamente è improbabile che vi troviate a doverla citare in una conversazione con gli amici).

L’ammasso di galassie Abell 3322
Crediti: ESA/Hubble & NASA, H. Ebeling

Importantissimo è studiare gli ammassi come questo, perché da questi studi dipende molto della nostra comprensione dell’evoluzione della materia (oscura e luminosa) in queste gigantesche strutture cosmiche. Le quali si rivelano anche prodigiosi “telescopi naturali” che amplificano la luce di oggetti da noi lontanissimi, attraverso il fenomeno delle lenti gravitazionali.

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Il mistero di CW Leonis

Bene, cosa stia accadendo intorno alla stella CW Leonis, la stella al carbonio più vicina di tutte, non è per nulla chiaro.

La stella al carbonio CW Leonis vista da Hubble
Crediti: ESANASAHubbleT. Ueta (U. Denver), H. Kim (KASI)

La stella appare di colore arancione a motivo del carbonio disperso nei suoi strati atmosferici, proveniente dalle reazioni interne di fusione nucleare.
Questo è ben compreso. Quello che desta meraviglia – ed è bellissimo a vedersi – è la complessità della nebulosa intorno alla stella, il suo splendido intreccio di strati, indicazione preziosa di quel che ancora non siamo riusciti a comprendere.

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Marte all’ultravioletto

Non è certo il pianeta Marte che vediamo di solito, perché queste immagini sono acquisite in banda ultravioletta, invisibile agli occhi umani. Sono state prese dalla sonda MAVEN, in luglio dell’anno scorso e a gennaio dell’anno presente. La sonda è entrata in orbita intorno al pianeta rosso (per i nostri occhi) a settembre del 2014, dunque si avvicina al decennio di attività.

Immagini di Marte all’ultravioletto
Crediti: MAVENLaboratory for Atmospheric and Space Physics, Univ. ColoradoNASA

L’ultravioletto ci rivela un Marte ben differente da quello che conosciamo, mettendo in risalto particolari di solito invisibili. Le nuvole appaiono in colori bianchi e blu, mentre l’ozono ad elevata altitudine tinge il pianeta di un forte color porpora. A sinistra, la calotta polare appare di colore bianco, ma come si vede, si restringe molto durante la stagione estiva dell’emisfero meridionale. A destra, la regione polare dell’emisfero settentrionale risulta ben nascosta dalle nuvole di ozono.

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