Perché non uso Keynote

Qualche settimana fa sono andato in una scuola dell’infanzia, una esperienza molto bella che non avevo mai fatto prima. Avevo predisposto una presentazione molto semplice con a tema la Luna. Pochissime scritte (d’altra parte se l’uditorio non sa leggere, le scritte sono piuttosto inutili), molte figure, filmati. Qualcosa per interessare i più piccoli, cercando di non per annoiare.

La presentazione, iniziava così…

Avendo ormai fatto più di qualche conferenza qua e là, ho appreso qual è, dal lato tecnico, la cosa che porta meno problemi sia all’organizzazione che al relatore (me stesso, in questo caso). C’è poco da fare, quel che è più sicuro che funzioni, è avere una presentazione PowerPoint sul computer. Attenzione, non solo su OneDrive (e i suoi simili, tipo Dropbox e Google Drive e simili metodi per memorizzare altrove le cose tue), ma scaricata in locale, perché la rete non funziona quando ti serve davvero. E comunque, non puoi pretendere di trovarla in una scuola dell’infanzia. Devi avere la presentazione sul tuo computer, deve proprio essere lì.

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A peso d’oro…

A peso d’oro o quasi, non ho fatto i conti. Certo che la cosa quando l’ho scoperta mi ha colpito non poco. Ora vi spiego. Come confessato nell’altro post di ruminazioni sui programmi di scrittura, sono da tempo in oscillazione tra il mondo Windows e quello Apple.

E per togliermi un poco dall’impaccio, mi diverto a comparare le vie percorribili, nell’uno e nell’altro universo. Per esempio, che portatile sui 13 pollici mi piacerebbe comprare? Sì, forse non è una domanda drammaticamente urgente, ma mi capita di farmela.

Quale il ruolo del prezioso metallo in taluni accessori per computer?

Ed ecco il problema. Da una parte mi attira il Galaxy Book 360, per il fatto che si può rigirare come un calzino (tipo) e si trasforma agevolmente in un tablet di tutto rispetto, con schermo touch e pennetta per scrivere, di serie. Dall’altra faccio un pensierino sul nuovo MacBook Air con chip M2. L’Air vanta una risoluzione molto maggiore (2560×1664 pixel, contro 1920 x 1080 del Galaxy), però, va anche detto che solo quest’ultimo è AMOLED.

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Piccole donne crescono

Mi è piovuto in testa venendo in osservatorio, stamattina. Si può benissimo chiamare così, l’articolo che voglio scrivere oggi: piccole donne crescono. Perché il nuovo logo appena diffuso dall’Ente Spaziale Europeo (ESA) per i dieci anni di attività del satellite Gaia in fondo fa pensare a questo. E per tale motivo lo trovo geniale.

Faccio un piccolo salto indietro. Non è soltanto perché ci lavoro, nel gruppo scientifico di Gaia, che il suo logo originale mi è sempre piaciuto moltissimo. Quella bambina che guarda le stelle e quasi vorrebbe afferrarle, mi appare come simbolo vivo e palpitante del desiderio di conoscenza e di più – di unione con il cielo. E un po’ mi fa pensare alla mia Anita, la protagonista dei due volumetti di racconti (Anita e le stelle, La saggezza di uno sguardo) che sono stati preziosissima occasione di rapporto e di confronto con ragazze e ragazzi delle scuole. Con stelle in formazione, dunque, vorrei dire.

E ci sarebbe tanta umanità da raccontare. Incontri, persone e momenti di persone. Però torno alla missione. Per chi non se lo ricordasse, ecco qui il logo originale della missione Gaia.

Il logo originale della missione Gaia.
Crediti: ESA

Siamo ormai vicinissimi ai dieci anni dal lancio di Gaia, ecco il motivo della ricorrenza. Gaia, che poi è una missione ad importante contributo italiano, cioè è una cosa anche nostra in cui l’esperienza e la genialità di tanti ricercatori del nostro paese ha trovato un terreno su cui misurarsi ed eccellere.

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Creare una nuova scienza e una nuova umanità

Viene qui pubblicata integralmente l’introduzione di Carla Ribichini al volume “Anita e le stelle: la saggezza di uno sguardo” appena uscito presso Amazon (in cartaceo e in digitale). Il volume ospita sei racconti scritti da Marco Castellani, che fanno idealmente seguito ai sei già apparsi nel volume “Anita e le stelle“. Le frasi scritte dai ragazzi della scuola Corradini, che compaiono nel libro tra un racconto e l’altro, si possono leggere a questo indirizzo.

Lo stato di salute della nostra umanità è grave, i giovani sono smarriti e disorientati, eppure sono fatti per credere, per trovare un significato, per cercare qualcosa più grande di loro. Si portano nel cuore un desiderio infinito di vita, perché la loro vocazione è la vita e Anita, la protagonista dei racconti di Marco Castellani, questa vita ce l’ha raccontata insegnandoci l’arte dello stupore e della contemplazione.

Semi della nuova umanità…
Carla Ribichini al lavoro con i suoi alunni (Istituto Comprensivo P.M. Corradini, Roma)

Marco Castellani è un astrofisico per formazione e professione ed un poeta per passione e vocazione; ha lavorato nelle classi della scuola media in cui insegno rivolgendosi a ragazzi appena dodicenni; pur nella diversità dei nostri ruoli la finalità educativa è stata la medesima, abbiamo condiviso contenuti e strategie e cercato insieme una nuova visione per sviluppare intuito, creatività, consapevolezza e libertà di pensiero. La scienza è stata solo il punto di partenza e il grande merito dell’autore è stato quello di averla inserita in una dimensione più profonda, di averla trasformata in letteratura e di averla tradotta come impegno per il mondo.

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Rodari, verso la premiazione

Bello far parte della giuria del Concorso Rodari, perché si è esposti alla fantasia di tante ragazze e ragazzi che, per una volta, si liberano dagli obblighi scolastici più consueti e si permettono di inventare storie, di percorrere l’universo esattamente con le loro storie (che vanno più lontano di qualsiasi astronave e qualsiasi sonda, e non inquinano).

E poi le storie sono tutto. Considero un privilegio far parte del Gruppo Storie di INAF, perché lavoriamo con i mattoncini stessi dell’universo, con le narrazioni di cui è intrisa la materia. Niente si dà senza narrazione. Forse una Storia grande regge tutte le altre, c’è chi lo pensa. Comunque, è una fitta intelaiatura di storie che rende tutto sempre e di nuovo vivibile, percorribile. L’universo è fatto di storie, ce lo dicevamo già nello svolgimento della prima edizione del concorso.

Ganni Rodari (1920-1980), un grande inventore di storie.

Gianni Rodari poi di storie ne ha create tante, ed è proprio bello che per l’occasione i ragazzi ne possano inventare ancora altre. Le storie sono sempre generative, sono delle proposte per la fantasia, si mettono volentieri in relazione: una chiama l’altra.

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L’infinito, presente

Da una riflessione su L’Infinito, di Giacomo Leopardi
L’Infinito è una dimensione dell’anima, dimensione ignorata e spesso invisibile, ma assolutamente presente nelle nostre vite; è quella coscienza globale che dà senso all’esistenza e la risolve.

Esiste un marchio d’infinito dentro ognuno di noi e aderire all’infinito che ci abita dentro è l’esigenza di ogni essere umano. L’uomo vive nelle pseudo sicurezze del mondo finito, si perde nella materia, la vuole dominare, è prigioniero nel mondo delle cose; come diceva Pascal, è posto tra i due abissi dell’infinito e del nulla, fra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo.       

                                                                                                                              

Duplice, quindi, è la natura umana, ma il centro pulsante della sua interiorità è proprio il bisogno di infinito che, riconosciuto e ascoltato, spinge l’essere umano ad andare oltre l’io di materia fino ad entrare nella coscienza del Tutto. E’ l’esperienza interiore quella che conta, in quel punto profondo nulla divide l’uomo dall’Infinito e dall’Eterno.

Leopardi, pastore errante, si interroga sull’esistenza umana e ci dà un’umile lezione di coraggio e di forza. La sua poesia è una vera e propria ricerca di consapevolezza e affonda le sue radici nel dolore; rifiutando e  allontanando ogni tipo di consolazione, ci insegna la dignitosa accettazione del destino umano.  Leopardi cerca la verità, lotta eroicamente per superare l’inquietudine e la sofferenza e porta la lotta dalla biblioteca paterna al mondo. Riconosce solo l’uomo, che rimane il suo punto fermo; è un uomo solo e sofferente, ma non sconfitto, l’accettazione della sua disperata condizione lo rende, anzi, più forte e consapevole.

A noi che abbiamo perduto il senso della vita, della lotta, del coraggio e della ricerca, Leopardi insegna a resistere eroicamente “contro le magnifiche sorti e progressive”, insegna a combattere e a portare in profondità la lotta, insegna a rimanere fermi nella visione stretta della siepe, perché solo da lì si può vedere oltre, ritrovare e accogliere l’Infinito.

Leopardi non rifiuta questo passaggio obbligato attraverso la sofferenza, l’attraversa con tutti i suoi sensi, (mirando odo m’è dolce) poi, però, non rinuncia all’idea dell’Assoluto e, con un esercizio spirituale di contemplazione, (nel pensier mi fingo) superando la bugia che siamo solo materia, ci insegna uno sguardo diverso e una visione superiore. Attraverso il pensiero, con un movimento circolare di spazio e di tempo, si collega e si affida dolcemente al Tutto dimostrandoci che l’uomo è fatto di infinito, sicuramente piccolo di fronte all’universo, ma infinitamente grande e consapevole per poterlo immaginare, contenere e cambiare.                       

Avrebbe mai potuto scrivere questa poesia perfetta se non avesse avuto l’infinito dentro? Il poeta è per tutti noi una guida spirituale, la sua poesia, a scuola, ci spinge a rivoluzionare la pratica educativa, diventando abili costruttori della nostra vita, disposti ad accogliere l’infinito.

La poesia è una soglia tra il visibile e l’invisibile e ci dimostra che abbiamo due modalità diverse di conoscere: oltre la conoscenza razionale e sensoriale, c’è una conoscenza che nasce nella sfera spirituale; una mente pensa e l’altra, più profonda, sente, percepisce e immagina. La ragione umana non basta mai a se stessa e il compito fondamentale, soprattutto a scuola, è di natura emozionale: liberare lo spirito creativo, creare risonanze, innescare sentimenti e pensieri positivi, potenziare le dimensioni umane quali entusiasmo, passione, accettazione, coraggio, motivazione e ricerca.

Questa capacità di visione è fonte feconda e l’Infinito diventa significato di sé e serbatoio di possibilità e risorse davvero infinite.

Esercizi di consapevolezza: il mio bisogno di infinito.

Fare esperienza dell’infinito è per gli adolescenti una vera e propria presa di coscienza e rimarrà per sempre un’esperienza indelebile, anche quando la sofferenza e il dolore sembreranno vincere e voler dire l’ultima parola su tutto.

Infinito astratto, concreto
Infinito colorato penetra senza permessi.
Mi pervade. 
 

Lorenzo 

Certe volte si ha bisogno di credere in qualcosa che ti dia conforto.
In quel momento entra in gioco lui, l’Infinito.
Vorrei perdermi dentro di lui, toccarlo e abbracciarlo.
Mi sento in pace con lui.
La mia pace è infinita. 
 

Nicholas

Come un raggio di sole, l’infinito soffia nell’oscurità dei miei pensieri.  

Fatima 

 Ho bisogno di infinito, ho voglia di toccarlo, sentirlo, vederlo e annusarlo. Ho bisogno di quella sua particella che mi fa cambiare e mi fa sentire un uomo divino. 

 Cosmin 

Cuore e mente insieme formano un grande e accogliente infinito che mi avvolge,
mi sento il centro del mio infinito, lontana dal mondo, sola con me stessa e sto bene. 
 

Alessia 

Il mio infinito mi parla, ha la mia stessa voce.
Facciamo gli stessi movimenti e le stesse smorfie.
Non sono ancora quella magnifica creatura.
Ma lo diventerò e sarò il mio infinito.
 

Monica 

Mirando sovraumani silenzi e profondissima quiete…
Mi calmo e trovo la pace.
Il silenzio cauto del vento
mi culla.
Mi sento protetta, libera e indomabile come l’aria.
Non ho più confini. 
 

Monica 

Mi sovvien l’Eterno…
E mi travolge nell’immensità
Ascolto l’infinito silenzio di un colle addormentato,
il suo respiro legato al mio
in questa fragilità.
Mi addormento e mi calmo
Nel riposo dell’eternità. 
 

Marika 

Il pensier mio…
Ormai stanco,
Si rannicchia nell’immensità di un tramonto
che mette in pace l’anima,
i pensieri grigi, come se non fossero mai esistiti,
annegano nell’acqua profonda
e il cielo si arrossa.
 

Davide 

Mi sovvien l’Eterno…
Mi avvolge, mi travolge, mi coinvolge e mi porta in un Infinito pacifico e armonioso
io mi sento libero.
 

Andrea 

Mirando sovrumani silenzi e profondissima quiete….
Mi tuffo nel mio oceano infinito, scivolo nell’acqua, sento il vento accarezzare la schiuma delle onde,
Ritrovo il mio respiro
E mi sento bene. 
 

Alessia

Tra questa immensità s’annega il pensier mio…
tra queste infinite colline
tutto è pace,
Il vento soffia e
Il mio cuore è libero.
 

Aurora 

Mirando sovrumani silenzi e profondissima quiete….
Si risveglia il mio cuore, e nel fresco mattino

d’inverno, batte soave.

Mentre un cielo infinito si apre davanti a me. 

Valerio

Il tempo si è addormentato nel sole del pomeriggio
sotto fronde di immense querce,
è ricoperto da scricchiolanti foglie secche.
Abbagliata dagli ultimi, candidi raggi di sole, mi perdo nel silenzio infinito.
 

Aurora 

Il tempo si è addormentato nel sole
del pomeriggio
Tutto è immobile nella quiete di un respiro dormiente,
I fili d’erba sono cullati dal fruscio lento di una quercia secolare.
Il sole solitario,
anche lui,
si scioglie
nei freschi profumi e
nei morbidi pensieri
di questo tardo pomeriggio primaverile.
E questa mia costante frenetica agitazione è sopraffatta
Dal desiderio di eternità.
 

Marika 

Il tempo si è addormentato nel sole
del pomeriggio.
Le onde inarcate sono ferme
davanti agli imponenti scogli.
Nel vento ancora riecheggiano
I bianchi profumi e le pacate voci
provenienti dal mare.
Mi sento piena, leggera e serena
non più invasa dall’irruenta fretta.
Sono libera. 
 

Monica 

La luna con i suoi occhi
guarda gli infiniti spazi
sui quali regna assieme
al silenzio eterno
che eterno non è.
Tutto si compone,
tutto si spezza;
che siano vite o oggetti
il cielo infinito affligge tutti.
 

Giacomo

L’infinito mi sovviene
Quando sento la pace calare;
Infinito è ciò che, a guardarlo,
si nasconde dietro ogni cespuglio,
Infinito è la voglia dell’umano
Di vivere questa ardua vita,
lasciando la luna calare,
e su questi campi farla poggiare. 
 

Giacomo 

Lavorare con i giovani è una delle esperienze più belle che si possa fare; senti che, al di là di ogni credo, basta l’uomo, non quello prigioniero dell’ego, l’uomo creativo, cosciente di sé, della sua profondità e della sua dimensione infinita. Promuovere la letteratura significa produrre energia creativa, educare la coscienza critica e favorire la costruzione del pensiero e il potere delle emozioni. 
Quando mente e cuore sono abituati a vivere nel finito, sono sofferenti; c’è bisogno, allora, di immergersi nella realtà espansa della coscienza, avere fiducia nelle leggi interiori dell’essere umano e familiarizzare con il proprio infinito. 
Ricordo ai ragazzi che la poesia è un percorso privilegiato di conoscenza, porta alla luce cose che agli uomini distratti sono nascoste, fortifica e insegna a vivere, conferisce senso all’esistenza e dona il coraggio di superarne la precarietà, immaginando una realtà nuova e creando il cambiamento. 
La poesia leopardiana ha impresso nel cuore dei ragazzi insegnamenti che costruiranno le loro vite: ha insegnato che il trascendente è radicato nella loro esistenza, necessario e irrinunciabile, e che l’infinito del cuore è perfettamente connesso con l’infinito del cosmo. I ragazzi hanno imparato a cercare l’infinito nella radice stessa del dolore e a sentirsi fragili e imperfetti senza rinunciare ad aprirsi a tutte le possibilità della vita, per diventare uomini liberi.

Carla Ribichini insegna materie letterarie nell’I.C. Corradini di Vermicino ed è ideatrice di un progetto innovativo che prende il nome di EDUCAZIONE VISIONARIA. E’ coautrice del libro La scuola visionaria. Un’altra scuola è possibile.

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Una scuola che guarisce

Il post sul blog della scuola recita proprio così, c’è una scuola che diventa ogni giorno poesia. Ed è forse la cosa più bella, e al contempo più concreta, più solida, più antiretorica che si possa affermare, sull’educazion. Perché la poesia ha questo in comune con ciò che ci appare normalmente “con i piedi per terra”, cioè con la scienza: è estremamente concreta. In fondo, poeti e scienziati fanno lo stesso mestiere, è ormai assodato. Sarà forse per questo, mi chiedo, che c’è chi prova a farli… entrambi? 

L’incontro con le seconde classi dell’I.C. Corradini di Roma, sul mio libro Imparare a guarire, non è niente di improvvisato o estemporaneo, ma è il coronamento di un lavoro veramente bello che hanno fatto gli insegnanti – la professoressa Carla Ribichini e le sue colleghe – in un arco ormai di diversi mesi, direi con allegra costanza. Lavoro molto radicato e concreto, che abbiamo riportato in varie sedi, tra cui il blog della sezione educativa dell’Istituto Nazionale di Astrofisica.

Lo penso, questo lavoro, come qualcosa che cresce, che irrobustisce, che accende una piccola ma consistente luce di speranza: per questo ha valore, direi oltre le nostre piccole persone. Per questo è importante. Per questo, ancora, sconfessa e fa esplodere – direi dall’interno – tante analisi anche giustificate, ma in fondo (mi pare) inutilmente e pericolosamente rinunciatarie, che vengono fatte quotidianamente sullo stato dell’educazione in Italia. 

C’è davvero una scuola diversa, una scuola visionaria e bella, che rispetta ed onora le emozioni e per questo cerca di farle crescere e germogliare su un terreno sano, colorato, morbido. Cerca di aiutare i ragazzi a guarire, a fiorire nella loro splendida unicità. Non certo massificando, omologando, preparando al mondo del consumo: no, niente di tutto questo. Lo fa, piuttosto, entrando a piccoli passi nella diversità meravigliosa di ognuno di loro, custodendola e onorandola con intelligente amorevolezza, accompagnandola con delicata sensibilità: premessa indispensabile perché possa fiorire, nel tempo, al suo tempo. 
Per questo ci si serve utilmente anche della poesia, delle poesie. Il mio sincero riconoscimento va dunque ai professori dell’Istituto Corradini che hanno visto nel mio recente libro uno strumento di lavoro, leggendovi delle potenzialità d’utilizzo che io stesso non avevo affatto messo a fuoco con tale limpidezza. Per questo,  ci siamo ritrovati, mercoledì 31 di ottobre, insieme ai ragazzi, agli insegnanti e ai genitori interessati, per celebrare insieme questo lavoro che è intrinsecamente poetico, in radice.

Si tratta, in fondo, di imparare a guarire tutti insieme, facendo appoggio sul nostro stare insieme – non in senso volontaristico, ma per esercitarci in una mutua comprensione, una feconda reciproca  compassione. Con noi, per radicarci al compito ed insieme al territorio (siamo ai bordi di Roma, al confine dell’Impero), graditissimi ospiti alcune persone dell’associazione Frascati Poesia tra cui Rita Seccareccia.

Ed è stata, veramente, una celebrazione, o se volete, una festa. Questo è il carattere, sempre perso ma sempre da ricercare, dell’uomo nascente, che è magari debolissimo in tutto ma forte in questo desiderio di luce, pace ed integrità. Forte, in questo inesausto anelito di rinascere fuori da ogni menzogna e ogni roboante retorica, per un pensiero nuovo che sia, innanzitutto, un respiro profondo, un respiro fiorito, che lo redime perpetuamente e redime perpetuamente ogni cosa intorno. Già credere in questa possibilità, crederci davvero, è invitare l’universo ad ordinarsi in tale senso:  è una cosa attiva e rivoluzionaria insieme. 
L’incontro si è svolto tra lettura delle poesie del libro, impreziosite dalle emozioni e dalle impressioni che avevano suscitato nei ragazzi, e musiche e danza, in un alternarsi lieto che chiama molto concretamente all’unità di ogni espressione artistica. Soprattutto, vivendo questo evento, mi era chiaro il potere di guarigione, la carica terapeutica di tutto quanto stava avvenendo. In queste occasioni mi diviene proprio lampante. Ero in un posto, in un angolo di spaziotempo, dove i ragazzi possono – insieme agli adulti – depositare amorevolmente i propri crucci, le proprie tensioni di persone in crescita, e celebrare il dono di essere vivi, in fondo. Farlo in modo consapevole, non distratto come ci propone la società del consumo. Farlo in modo vivo da donne e uomini vivi, quali siamo. Questo angolo di spaziotempo diventava così improvvisamente e dolcemente il centro, il luogo dove le cose vengono in luce, vengono (ri)create, diventano nuove.
Per questo la poesia. di tutto questo la parola, in Questo Universo, è un vettore, un enzima formidabile. Infatti questo Universo ama farsi raccontare, e molti doni si ricevono – io penso – per questa nostra disponibilità al racconto, alla parola.

Come scrivono bene i ragazzi, con profondissimo intuito, la parola poetica è questo strumento quasi taumaturgico, che compie mille e mille meraviglie, che si pone come ponte sopra il razionalismo esasperato da una parte e le tentazioni dell’irrazionale, dall’altra. Proponendo un percorso sano di ragionevolezza, sano e morbido, sano e sorridente.
Tutto è avvenuto nella tranquilla familiarità di un ambiente che fa dell’accoglienza la sua cifra più evidente, almeno per il sottoscritto. E se queste impressioni che registro sembrano enfatiche, non è per una tensione retorica, ma è perché io al Corradini mi sento a casa, devo dirlo. E non c’è protagonismo o affermazione o esibizione di talento o simili sterili situazioni. Affatto, direi. C’è un senso piacevole di officina, un senso d’essere tutti – appena – lavoranti in quest’opera, che ci sorpassa e ci trascende. 
E ci trascende alla grande, ma con allegria, offrendocene anche a noi, di quell’allegria sottile e profonda – così diversa da quella forzata della civiltà della distrazione – che rimane dentro, rimane sotto, in fondo al cuore, e che lo alimenta, nei giorni dell’autunno dove freddo e pioggia non fanno più dimenticare a lungo che c’è il sole a cui riscaldarci, comunque. 
Sì, c’è il sole di quest’opera comune, che aiuta noi adulti e aiuta i ragazzi, forse appena un po’ (ed è moltissimo) nell’opera di costruzione e di perpetua, rinnovata e rinnovante, guarigione.

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Iniziare a guarire

Le cose vengono un po’ da sole, è noto. O meglio, non sono sotto mai sotto controllo, sotto il tuo controllo. Sarebbe infatti superfluo dire che non avevo idea – non la avevo affatto – che questa onda , questa onda di necessità di guarigione sarebbe risultata così feconda, sarebbe stata intercettata, ripresa, rilanciata, in ambiti importanti, ma differenti da dove queste poesie sono nate.

L’ambito educativo, intendo. La costruzione della nuova umanità se non attraversa una istanza di guarigione, di vera guarigione, è soltanto l’ennesima violenza ideologica. Roba da scappar via, a gambe levate. Non disturbare, non distorcere, non deviare, riportarli a casa, a questo punto. Bring the boys back home, in caso. 

E’ per me già un grande risultato, da guardare con tremore e commozione, quello che è nato dal lavoro sul libro Imparare a guarire (Di Felice Edizioni, 2018), lavoro che nel contesto de La Scuola Visionaria hanno intrapreso i ragazzi dell’I.C. Corradini di Roma. Sotto la guida – che avverto illuminata e docile – della professoressa Carla Ribichini, questi ragazzi hanno iniziato  un po’ di tempo fa a lavorare sulle poesie del volume. Facendole veramente fiorire, oltre ogni mia possibile previsione.

E’ quando ciò che hai scritto, si rende seme di una nuova avventura, indizio di primi passi di una nuova umanità, di una prospettiva di crescere e guarire, ecco: è allora che tutto ciò che puoi fare, che devi fare, è rinunciare all’analisi, metterti da parte, e osservare. Zitto e guarda, insomma. Con gratitudine. 

Osservo allora ciò che nasce, che fiorisce, senza (troppo) interferire. Contento appena di essere un vettore di questa fioritura, un semplice ed umile lavorante in questo campo, sempre da dissodare e da tener pulito. Qualcosa che passa attraverso di te, ma non è tuo, di cui ti rendi strumento ma che non puoi possedere. Non c’è, probabilmente, motivo più grande per essere riconoscente. 
Ripercorro i primi segni di questo lavoro, le prime tracce luminose, con commozione. Leggo quello che hanno scritto i ragazzi, piccole donne e uomini di seconda media, e cerco di farmi da parte,  voglio farmi da parte, lasciando parlare soltanto il loro purissimo desiderio di guarigione. Un desiderio che non può che avere riverberi nella società, nel mondo, dalle cose più vicine, alle stelle. Non è infatti, di per sé, un desiderio contenibile, addomesticabile, non è un desiderio con dei bordi, dei limiti, delle frontiere. 
Così scrive Aurora, schiudendo un tesoro di candore e di sincerità soffusa,

Parte tutto da un semplice presupposto:
perché ci ammaliamo? Perché il nostro ego ci dà questo pensiero fisso:  stare male,  stare male dentro,  pensare di non andare bene, di non essere abbastanza. Stiamo male e non sappiamo guarire, è questo il vero dolore.
Voglio imparare a guarire dentro, a curarmi non con le medicine, anche se ho una mamma farmacista, ma magari con le dolci e morbide parole di una semplice poesia melodiosa.                                                                               
Tutto questo mi insegna a cambiare e a guarire.

Ora, guardiamo, guardiamoci dentro. In poche righe, c’è tutto, c’è veramente tutto. La fotografia della situazione in cui ci troviamo, la condizione umana com’è, fuori da tutti gli orpelli, gli abbellimenti e le maschere. Con una sincerità disarmante. Stiamo male e non sappiamo guarire, è questo il vero dolore. Quante parole inutili, quante ne spendiamo ogni giorno: tutte le parole che non dicono questo! Le parole che non dicono questo sono volgari, perché perdere deliberatamente tempo in chiacchiere è volgare. Meglio allora – chessò – una coraggiosa infrazione, una decisa irriverente trasgressione: perché lì, almeno lì, la ricerca della felicità non è ancora elisa, fermata, abortita. Davanti a parole inutili, no, io non ce la faccio più.

Però non ci si ferma lì, non si ferma lì, lei: c’è la tensione a cambiare, a curarsi non con le medicine, ovvero a non tamponare il disagio appena, ma lavorare in profondità (guarire dentro) per avviare una guarigione reale, non appena farmacologica. Questa guarigione, infatti, si nutre di parole, e queste parole possono certo essere dolci e morbide, parole di una semplice poesia melodiosa. La parola guarisce: questa è l’ipotesi positiva, la partenza di un viaggio. Questa è anche, se ci pensiamo, l’assunto di base di ogni approccio di guarigione, anche sotto l’aspetto direttamente psicoanalitico. Un rapporto terapeutico, proprio nel senso più ortodosso del termine, è fatto di parole. 

E una poesia, guarda caso, è ugualmente fatta di parole.

Qui riscopro io stesso, come in filigrana, l’origine profonda del titolo della raccolta, Imparare a guarire. Qui dunque arriva Aurora, giovane donna di seconda media che in tre frasi, in tre frasi appena, giunge sicura al punto d’origine, giunge certa al focus da cui tutto germoglia. Ciò che insegna a cambiare e a guarire, appunto. Mi piace l’accostamento delle parole cambiare e guarire, mi rimanda a quanto scrive Marco Guzzi nella prefazione al mio volume,

Imparare a guarire significa innanzitutto entrare in una dinamica esistenziale di trasformazione continua, significa mettere in discussione le nostre abitudini mentali e comportamentali, significa aprirci ad un radicale ricominciamento

Ci sarebbero molti interventi da citare, e magari si troverà un modo di raccoglierli, esporli, dare loro il rilievo che meritano. Per ora li conservo nel cuore, li riprendo nei momenti di oscurità, tanto possono fare luce, possono riscaldare, risanare. Strumenti di guarigione essi stessi, in pratica.

Riporto qui solo una altra suggestione, quella di Monica

Lo squarcio è una ferita aperta. E’ la fine fredda  delle mie cellule e, allo stesso tempo, uno spettacolare punto da cui ricominciare. Voglio essere come un globulo bianco e avere la forza di continuare, riempire e risanare tutte le ferite della mia pelle mortificata. Guardare oltre la crosta per quanto grande.  Non abbassare il capo, non farlo più!

Pero, che bello. Che bello percorrere, quasi scorrendo il dito, quasi toccandole, ripercorrere la scelta delle parole, soffermarsi, goderne.  La fine è un inizio, endings are just beginnings, penso. La fine fredda delle mie cellule – quella fine che non è più discorso, tempo a parlare trascorso, scende fino dentro le cellule – è al contempo uno spettacolare punto da cui ricominciare.  Cioè la crisi, la ferita aperta, è anche e soprattutto un punto di ricominciamento. Dipende insomma dalla prospettiva con cui guardi, probabilmente dipende da questo, carnalmente ne dipende.

Anche qui alla denuncia della condizione, segue rapida, incisiva, la tensione a progredire, a ricominciare, a risanare. E chiude con una spettacolare apertura verso una insurrezione. Perché poi tutto è uno, tutto converge al punto di guarigione. E ciò che ad oggi non parla di guarigione, non interessa, non interessa proprio più nessuno. La guarigione, che è anche sociale, che diventa irresistibilmente politica. Diventa materia da elaborare per una nuova umanità. 

Non abbassiamo il capo, non lo facciamo più.
Nel percorso di guarigione troviamo una nuova ragione, per essere al mondo,
per essere anche nel mondo. 

Me lo dicono, me lo suggeriscono due piccole donne,
in preannuncio nascosto di apertura, in incipiente,
risonante, tiepida fioritura.

Posso fidarmi, dunque. 

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