Blog di Marco Castellani

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Cultura

C’è un senso sbagliato che a volte accompagna la parola, un senso sbagliato perché foriero di una catena di fraintendimenti senza fine. Il senso sbagliato è (qui, e quasi sempre) nella separazione: specificamente, qui è nell’idea di cultura che divide, che tiene lontani, che erige barriere (tra chi sa e chi non sa). Che è elitaria, settaria, escludente. Tale senso è sapientemente inquadrato nella canzone di Giorgio Gaber, Il dente della conscenza.

C’è un senso corretto, naturalmente. Quello da recuperare. Lo trovo mirabilmente espresso in questo brano di Don Giussani, tratto dal testo Dare la vita per l’opera di un Altro:

Parlare di cultura, infatti, è parlare di tutto l’assetto umano della nostra presenza nel mondo, perché la cultura non è un esito ricercato dagli appassionati o dai competenti: la cultura è ciò da cui l’uomo trae tutto il suo comportamento, ciò a cui si ispira nel suo comportamento come origine di tutto, nel formularlo e dispiegarlo seguendo l’evoluzione delle cose e della vita, e nell’affermazione dello scopo ultimo di ciò che egli compie, cioè del suo destino.

Qui trovo finalmente quello che sto cercando. La cultura come l’assetto umano della nostra presenza nel mondo. Potente, come formulazione. Gravido di varie conseguenze. Intanto, come prima implicazione, riguarda tutti. Difatti non puoi non avere un assetto, non puoi tirartene fuori. E parimenti, nessuno può tirartene fuori. La cultura non è per pochi, non è per una casta, è di tutti e per tutti.

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Liberazione

Mai come in questi giorni è una parola importante. Ma se ci giro intorno riesco difficilmente a capire, ad entrarci dentro. A vederla in un modo definito, univoco. Mi rimanda molti significati, piuttosto.

Liberazione dall’invasore, come si celebra giustamente oggi. Ma chi è l’invasore? Soltanto un invasore esterno? Solo di lui mi devo preoccupare? Certo non è poco e non c’è da minimizzare, in alcun modo. Un’invasione che avviene nella storia è portatrice sempre di brutalità indicibili. Domandare pace sembra utopico a molti, eppure è l’unica strada. Papa Francesco lo dice, praticamente inascoltato dai media:

Per favore, per favore: non abituiamoci alla guerra, impegniamoci tutti a chiedere a gran voce la pace, dai balconi e per le strade! Pace!

Ed è giusto celebrare oggi la liberazione dal nazifascismo, avvenuta nel 1945. Ciò detto, voglio andare oltre. Ci sono altre invasioni di cui mi dovrei preoccupare? Questo porta alla domanda più sottile, cosa è una invasione? Mi invade chi entra nel mio spazio – fisico o di attenzione – senza il mio permesso, senza il mio consenso. Entra per fare come a casa sua, decidere di me, del mio corpo, della mia mente, secondo i suoi interessi. Non è una relazione con me, non c’è dialogo paritario, non c’è scambio sottile di esperienza. C’è prevaricazione, offesa, sfregio. Chi mi invade non vuole conoscermi, percepirmi come individuo, diverso da tutti gli altri. No, lui vuole sopraffarmi.

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Creatività

Argomento difficile, ma importante. Cosa significa essere creativi, come poterlo essere davvero? Mille ostacoli subito ci si pongono davanti, lo sappiamo. La creatività è per tutti un profondo anelito del cuore ed insieme, qualcosa che troppo spesso rimane congelata, ferma, bloccata.

Abbiamo idee meravigliose, alcune volte. Questo è il bello. Tutti le hanno, ci mancherebbe. Mentre passeggiamo in un parco magari ci piove in mente un progetto formidabile. Un libro, una serie di racconti, un sito web fatto in un certo modo, una nuova ricetta (quest’ultima cosa mi è un poco aliena, penso non mi pioverà in mente mai). Essere creativi è qualcosa di profondo, ma incontriamo molti ostacoli per realizzarci in questo senso (cioè realizzarci tout-court). Tutti incontriamo la sensazione, molte volte, di vivere con il freno a mano tirato.

Creare per vedere meglio, e viceversa.
Foto di Sharon McCutcheon da Pexels.

Se espongo qui un paio di riflessioni, vi raccomando però di prenderle per quel che valgono. Non ho pretese di illuminare particolarmente l’argomento, né tantomeno di esaurirlo.

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Affetto

Scrive Luigi Giussani in Generare tracce nella storia del mondo, che è un affectus, come quello che aveva Simone, così puramente è profondamente affezionato a Gesù, ciò che porta lontano la capacità di giudicare adeguatamente la realtà.

Ebbene, quanto sia dirompente questa frase mi arriva solo dopo un po’ di ragionamento. Sì, mi trovo ordinariamente dentro questa convinzione, che il giudizio sia obiettivo solo se mi riesco ad astrarre dalla contingenza, se riesco a spegnere le emozioni e gli affetti nell’atto della valutazione, se mi sento sufficientemente lontano da tutto, in equilibrio su un punto (che immagino) di stabilità. Come un pianeta svincolato da ogni orbita, da ogni pur vago moto di attrazione: nulla che mi attiri in modo particolare, tutto è in equilibrio. In questo framework, ogni cosa che cattura la mia attenzione, che muove il mio animo, può rappresentare una distrazione, una alterazione indebita di questo (alquanto fantomatico) equilibrio valutativo.

La frase di Giussani (che riguarda cielo e terra, l’eterno e il contingente) giunge a scardinare questo terribile pregiudizio, questo desiderio malato di pulizia e di imparzialità. Malato proprio perché irrealizzabile, semplicemente e puramente disumano.

Volendo rimanere sulla fisica, senza approfondire l’aggancio metafisico (ché ci vorrebbe ben altro spessore di scrittura) cono cose che ci indica anche la scienza, a voler davvero ascoltare (il fatto è che non ci piace troppo ascoltare, nemmeno cosa dice la scienza, quanto va contro il nostro assetto mentale di default). Abbiamo viaggiato tanto, da quando Galileo ha aperto la porta all’analisi scientifica del mondo, a questa potentissima possibilità di ordinare il mondo fisico secondo dei modelli, capaci perfino di fare predizioni su eventi futuri.

Abbiamo viaggiato tanto, abbiamo traversato mondi diversi, nei secoli. Mondi che assomigliavano un po’ a come ci sentivamo, alla coscienza che avevamo maturato nel viaggio, più o meno fin lì. Abbiamo attraversato territori in cui, un po’ gasati dalle cose che stavamo scoprendo, ci siamo sentiti in potere di comprendere l’intera evoluzione delle cose. E’ stato anche detto che sarebbe bastato avere più informazioni (posizione e moti delle particelle, per essere precisissimi) per predire le cose, fino al limite estremo.

Questo modello è superato, siamo andati ben avanti nel viaggio. Scoprendo nuovi territori. Ora sappiamo che aggregare informazioni su informazioni non sempre ci aiuta, nella comprensione. La realtà non è conoscibile con precisione infinita, ce lo dice anche la fisica quantistica, che anzi fissa dei limiti in modo che può anche apparire implacabile. Oltre un certo confine, il dato semplicemente non ha senso, il famoso principio di indeterminazione è sempre da riprendere, come spunto importante per riflettere.

Il fatto che l’accumulo di pura informazione non aiuti la comprensione, lo avverto già come individuo, come persona, prima ancora che nel lavoro di scienziato. Prendiamo una cosa molto attuale, il bombardamento di informazioni in questa pandemia, ad esempio. Ebbene, l’esposizione esasperata alle statistiche di contagio, guariti e deceduti, erogata con assidua determinazione da ogni medium, non faceva che generare in me rinnovata confusione, minor possibilità di capire ed entrare realmente negli eventi. Se sono onesto con me stesso, devo ammettere che – almeno per me – l’accumulo di dati equivale ad una perdita di reale conoscenza, che tale bombardamento insistente può essere usato (consciamente o no) per destabilizzare, spaventare, ultimamente per generare un senso di impotenza. La gran mole di dati spinti nella coscienza, senza che vengano riordinati ed allineati da una ipotesi di senso, genera questo senso strano di confusione, di progressiva opacità.

Perché manca qualcosa, appunto. Manca quello che Giussani chiama affectus, alla fine. E’ questo, è questo il fatto. E se vogliamo rimettere in gioco la fisica quantistica, possiamo farlo anche qui, e senza forzare nulla. Ed anzi, qui abbiamo una evidenza rigorosissima, confermata proprio da quella scienza che a volte giudichiamo più impersonale ed arida di quanto sia veramente. C’è una lezione semplice e potente, che possiamo derivare da tale ambito. Non è infatti possibile conoscere qualcosa senza esserne parte, così potrei tradurre, senza troppo tradire, l’evidenza che ci giunge ormai molto chiara, dalle ricerche. Conoscere un sistema equivale a modificarlo, sia pure in piccola parte.

Fermiamoci un attimo su questo. Sì fermiamoci, perché questo noi, oso dirlo, non lo abbiamo ancora capito. Non lo abbiamo capito proprio per nulla. Per una sorte di fenomeno inerziale, noi gravitiamo ancora intorno al positivismo ottocentesco, e gli ultimi (ma anche penultimi) risultati della scienza dobbiamo ancora digerirli. Magari li sappiamo, nella testa, ma non sono ancora scesi nel cuore. La testa è veloce ad impadronirsi di un concetto, ma poi perché giunga nella vita reale, nella pratica di vita reale e concreta, ci vuole molto tempo. Lo diceva benissimo Gaber, che cito spesso in casi come questo, se potessi mangiare un’idea, avrei fatto la mia rivoluzione (idee giuste o sbagliate, se non arrivano al cuore, non funzionano). Ora ed ancora, insomma, ci tocca questo lavoro, di far scendere le idee e le convinzioni, dalla mente verso il cuore, dal pensiero alla carne.

Come questa cosa qui. Non esiste la conoscenza impersonale, oggettiva, di un fenomeno. In realtà, non è mai esistita. Ci piaccia o meno, faccia o meno a botte con quello che crediamo di credere, ma è così. La conoscenza implica sempre la partecipazione, in qualche grado. Per una persona, ma direi per un essere vivente, è una partecipazione essenzialmente affettiva, la possibilità della conoscenza.

Senza questo affetto, pensiamo di comprendere, valutare, giudicare, ma siamo semplicemente dentro una specie di simulazione mentale, non siamo vicini all’oggetto che dovremmo conoscere, siamo confinati su un universo parallelo, inconsapevolmente schiavi dei nostri preconcetti.

E’ una bomba, quello che dovremmo confessarci ora, senza più nasconderci dietro ad improbabili oggettività. Una esplosione universale, davanti alla quale siamo spesso totalmente inadeguati, ovvio. Ma non per questo dobbiamo impedirci di dircelo: una conoscenza adeguata della realtà viene soltanto da un amore ad essa. Davvero, la ragione conosce nella misura in cui essa ama.

Qualcosa di così deflagrante, che in fondo l’abbiamo sempre saputo. Le grandi tradizioni ce lo hanno sempre insegnato. Ma forse ora è il momento giusto, per ritrovare come nostro, quello che ci è sempre appartenuto.

Con un rinnovato affetto, ovviamente.

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Allineamenti

In questa confusa ed asfissiante profusione di interventi, opinioni e pareri su diffusioni di virus e strategie per fronteggiarle (in senso fisico, psicologico, spirituale e quant’altro), leggo con quel residuo ancora vivo di interesse un pezzo di Luca Cimichella sul blog Darsi Pace. Il post ha un titolo piuttosto significativo, “Dal deserto globale. Uno sguardo”. Ed è uno sguardo che intanto apre ad una domanda che – anche in mezzo a questo fiume di parole – fa bene ascoltare, fa bene rilanciare.
La domanda che però quasi nessuno sembra farsi è: c’è soltanto questo? Siamo sicuri che un evento di questo tipo, assolutamente unico nella storia degli ultimi decenni, non abbia a celare un senso più vasto e complesso, non riducibile alle sue conseguenze immediatamente negative?
E dovrei dire grazie per questo bel pezzo (che vi invito a leggere), questo realismo alla fine rallegra, lo dico davvero. Rallegra esageratamente di più dei tanti slogan e appelli e tanti “andrà bene” di cui si percepisce lo sforzo volontaristico (e dunque, triste) anche lontano mille miglia. Quello sforzo volontaristico che un post su “Jung Italia” individuava ed etichettava senza mezzi termini, appena pochi giorni fa
Infantili e vuoti slogan come “#AndràTuttoBene; Ne usciremo più forti di prima (forse più compromessi sicuramente); siamo forti siamo italiani!”, ed altre rassicurazioni che potevano andar bene se avessimo avuto 6 anni, oggi più che mai sono deleterie per la metanoia e la trasformazione che ci spetta (o che ci travolgerà crudelmente più di ora) a livello individuale e collettivo.
Ecco la cosa che avrei voluto dire, avrei voluto esprimere se non temessi di essere troppo divergente (poco allineato) rispetto al sentire comune. O almeno, a quello che traspare nell’esperienza social che ora è diventata così preponderante nelle nostre giornate, tra l’altro. Ora, che non abbiamo possibilità immediata di contatto diretto. Ecco, viene detto che non soltanto queste affermazioni non sono utili, ma addirittura sono pericolose. Perché smorzano la necessaria trasformazione che può avvenire in noi, se non tamponiamo immediatamente questo disagio. Se ci abituiamo (silenziando la nostra voglia di dare e darci consigli) a guardare, senza giudicare.
Arrivo al punto. In questi riferimenti, questi allineamenti, presi qui come esempio, come spunto, trovo che vi sia come una prospettiva, un punto di fuga, la possibilità di cogliere l’occasione, la scommessa così pazza che in questa fatica e anche dolore ci sia nascosta anche, appunto, un’occasione.

Trovare significativi certi allineamenti, è anche questione di come si guarda…
Al proposito, già Julian Carron parla di questa “occasione”, in un intervento sul Corriere della Sera di alcuni giorni fa. Una occasione, aggiunge in chiusura, “da non perdere”.

Questo potrebbe essere, dopotutto, il lavoro. Il lavoro da portare avanti, senza fretta e senza perfezionismi, in questo tempo così particolare. Almeno per chi non è direttamente impegnato in un reparto rianimazione o in una corsia d’ospedale, o che si trovi davanti un destino particolarmente sfidante. In ogni caso, accogliere la propria condizione (o quanto meno, lavorare verso questo obiettivo), che poi è un monito di sempre, qui diventa particolarmente urgente, stringente. In parole povere (e tremendamente sfidanti), dire sì a ciò che sta accadendo. Allinearsi con delle forze cosmiche, se ci piace dire così, smettendo di esercitare febbrilmente questa nostra sterile opposizione, che piace tanto ad una parte di noi.
E il mio commento potrebbe, o forse anche dovrebbe, finire qui (quindi potete smettere di leggere, se volete).

Tuttavia da astrofisico, mi interessa in particolare l’accenno “cosmico” che viene svolto nel già citato post di Luca, con il preciso riferimento all’allineamento dei pianeti e all’asteroide in transito vicino alla Terra. Molto interessante. E che muove – allinea e disallinea – molte parti in me. Alla prima lettura, devo ammettere, una di quelle parti è saltata sù, stracciandosi le vesti ed esclamando (metaforicamente) “ma che c’entra questo? Cadiamo nell’astrologia, ancora, nel ventunesimo secolo!”.
Così ho preso tempo, quella parte l’ho lasciata gridare e sfogarsi e snocciolare positivismo spicciolo per un poco e anche ragionevolezza scientifica un tanto al chilo e – a vesti ormai stracciate (tanto non posso uscire di casa, pazienza, penserò dopo a rendermi presentabile) – ci sono tornato sopra, con il desiderio, appena, di allargare lo sguardo. Quando i pensieri si fanno guerra, meglio aspettare. Attendere un nuovo allineamento, una prossima armonia. Lasciando entrare aria, gustando sottilmente un delicato scompaginamento dei miei luoghi comuni.
Da un po’ di tempo, infatti, ho preso il gusto di pensare che ci può essere qualcosa di interessante nel lasciare aperti dei varchi nel mio universo spesso troppo solido, quasi marmoreo, assai pericolosamente stazionario, del mio modo “usuale” di vedere le cose. Del resto il mio modo di vedere le cose è (opinione mia) spesso saturo di “buon senso”, ma anche terribilmente poco eccitante: spesse volte, parecchio noioso.
E ho provato a ragionare, passando oltre la mia emozione istintiva di rigetto. Ho provato a far dialogare parti di me stesso, che avevano preso direzioni opposte, senza nemmeno salutarsi. Chissà, però è interessante, comunque, almeno come una ipotesi di lavoro. Intendo, che il cosmo, l’universo, “risponda” a quello che accade nella storia umana. L’idea, ecco, alla fine mi piace. Ha qualcosa dentro che, se mi calmo, trovo attraente. Certo, scientificamente la cosa è facilmente confutabile, almeno con le conoscenze scientifiche di oggi.
Molti miei illustri colleghi, riderebbero. Nessuna delle quattro forze che governano tutto il mondo fisico – per come lo capiamo oggi, e gli esperimenti ci dicono che lo capiamo piuttosto bene – può giustificare il fatto che un allineamento di pianeti possa avere una influenza che non sia appena men che impercettibile, in quel che accade sulla Terra. I conti, volendo, si fan presto a fare (tranquilli, non li faccio qui).

Ma diciamolo finalmente: il fatto che fisicamente non si spiega, beh non spiega ancora nulla.

Ne parlavamo proprio qualche sera fa, a tavola con la mia figlia minore. Anche lei mi diceva, “Beh papà, ma non tutto quello che accade è spiegabile con la fisica”. Io inizialmente, istintivamente ho borbottato, “beh, tutto quello che accade nel mondo fisico, però sì.” Poi mi sono corretto, “anzi no. Se credo ai miracoli, devo già dire di no”.

Quando sono credente (scrivo quando poiché trattasi, in certo modo, di una cosa dinamica), cerco di credere ai miracoli, ovvero provo a mantenere aperta la finestra della possibilità ad interventi del Mistero, che esulano dal mio schema delle cose (ma, Signore aumenta la mia piccolissima fede, sempre). Credo all’intervento possibile del divino, in lieve lieta leggiadra spericolata scanzonata violazione dei “comandamenti” fisici e matematici.
Ma se ammetto che il sistema regolatorio della fisica (così roccioso, in apparenza) in linea di principio possa essere violato, ho aperto una porta che poi non posso permettermi di chiudere a mio piacimento. Ho ammesso che possono succedere cose – nel mondo fisico – che la fisica non spiega. E non spiegherà mai (non è nemmeno roba di fisica quantistica, oggi tirata per la giacchetta ogni volta che non si capisce qualcosa). Cioè, la cosa sarebbe questa, alla fine: la fisica modella quel che accade nel mondo. Ma non tutto quel che è accade nel “mondo fisico” è spiegato dalla fisica.

Ripeto, non è così scontato. Molti molti miei colleghi, più bravi e intelligenti di me, non sarebbero d’accordo.
Ma io insisto, su questa linea.
Del resto, se a Natale acconsento a che i pastori furono guidati verso la grotta del Bambinello da segnali celesti (stella cometa, leggasi), poi come faccio a dimenticarmelo un attimo dopo, diciamo già prima di Pasqua?
Ecco il punto di quello che volevo dire. Mi pare che qui ci manchino dei modelli, esattamente. O io comunque, non li ho ancora assimilati, se ci sono.
Qui ci vuole un modello che ritrovi una congiunzione tra cielo e terra, per cui quel che avviene da una parte influenza quel che accade dall’altra, senza per questo cadere nella superstizione o nella “magia”. Che riprenda molta sapienza trattenuta nell’antica astrologia (del resto prima non era separata dall’astronomia propriamente detta), in una luce nuova.
Posso sbagliarmi, ma ho la sensazione che sia un’avventura ancora molto da percorrere.
Sarebbe bello dire, giunti a questo punto, che stiamo provando a farlo in AltraScienza, sarebbe bello ma penso un po’ troppo da spacconi, da esagerati, vista l’enormità del compito. Diciamo piuttosto, che proviamo a sintonizzarci su questa esigenza, a capire e vedere chi con più autorità e autorevolezza di noi, porta avanti in modo convincente questa istanza.
A volte puntare le antenne, è tutto ciò che serve. Ricercare un allineamento di forze, assecondare una strada che ci vien incontro, lasciarsi andare al fluire pacato delle stelle, delle galassie.
Soprattutto, direi, adesso. Soprattutto adesso.

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Colori

Viviamo in un’epoca ancora ammalata di razionalismo, e di conseguenza siamo ben poco abituati, ai colori. Intendo, non ci facciamo veramente caso, non ne percepiamo la portata (tranquillamente) rivoluzionaria.

Nel senso che i colori hanno qualcosa a che vedere con il guardare le cose, e questo è ovvio. Ma non semplicemente con il vederle, ma con l’osservazione attenta che percepisce la poliedricità, la complessità di quel che si guarda, la sua irriducibilità ad un pensiero prefissato, ad un pensiero praticamente già pensato, che volesse archiviare frettolosamente l’atto dell’osservazione. Ecco, una modalità di osservazione così è perpetuamente rivoluzionaria, si capisce.

Ma questo, soprattutto. La sfida a non archiviare in fretta il dato. 
Siamo in un’epoca in cui le cose si consumano in fretta, in cui è forte la tentazione di non vivere a fondo qualcosa, ma di metterla via per fare spazio sempre ad altro. Qualcosa di altro sembra sempre la cosa più importante (geniale la frase a prima vista tutto è secondario della bellissima canzone I sacchi della posta del Battisti “secondo periodo”). Così noi tendiamo a fare le cose di corsa, ad estrarre rapidamente il succo appena pensiamo di aver capito quale sia (che poi spesso lo perdiamo, non è una grande scoperta). E la cosa migliore per farlo, è archiviare il dato di osservazione etichettandolo con un pensiero, o peggio un giudizio. E passare oltre, cercando qualcosa in perpetuo, non trovando facilmente un punto di riposo. 
Ma i pensieri, le etichette mentali, sono sempre in bianco e nero, sono qualcosa afferente ai toni del grigio. Il problema è solo questo, alla fine: è che non sono a colori. 
I ragionamenti, le varie tesi ed antitesi, anche un certo gusto per la dialettica… sono tutte faccende in bianco e nero. Come i vecchi televisori prima dell’avvento del colore. Dopo un po’ che guardavi un telegiornale, un (vecchio) film, uno sceneggiato, quasi ti scordavi che non vedevi i colori. Ci stavi pure, lì dentro, certo. Ti sembrava di essere a tuo agio in quella rappresentazione di universo. E ti dimenticavi di questo, che non stavi vedendo alcun colore. La cosa più grave in assoluto, è che ti sembrava non ti mancassero, pensavi di poterne fare a meno.

In realtà ti eri accontentato di qualcosa di meno, del vivere davvero la realtà, per tutto quel che è (ecco cosa è grave, accontentarsi è grave, per quanto contiene di rassegnazione, è una diminuzione del vivere). E diciamolo pure, un po’ ti veniva anche facile, ti veniva comodo, non dovevi fare sforzo. Perché non dovevi aprirti più di tanto, in fondo.

Infatti, il colore presuppone una attitudine ad uscire da sé, almeno in parte. A lasciare scorrere via i pensieri, per osservare veramente la realtà. Il colore può anche suggerire un punto di riposo, o almeno suggerire che un punto di riposo si trovi fuori dal proprio baricentro, che graviti esterno ai propri pensieri. 


A volte poi c’è questo, i colori non li vogliamo vedere, li vogliamo quasi cancellare. Come se per guarire potesse bastare questo, eliminare il colore di una storia, di un rapporto. Proprio questo canta Branduardi in una bellissima canzone, chiamata appunto Colori
E’ il volto tuo che ho disegnato,
Mi son seduto ed ho aspettato:
Ho usato il nero per i capelli
E rossa sabbia per la tua bocca.
Verrà la pioggia e lo laverà,
Confonderà i tuoi colori,
Quando il vento sarà passato
Sarò alla fine guarito.

Ma nessuna rimozione ci porta a stare meglio, ce lo insegna la psicologia. Dobbiamo far pace con i nostro colori, con i colori del mondo, con i colori dell’esperienza che abbiamo, del mondo. E’ un lavoro, a volte necessario. Ogni terapia psicologica, ogni percorso spirituale, deve portare a ritrovare colore nel mondo, per esempio.

Quindi, è questo. I ragionamenti sono in bianco e nero: anche quelli nuovi nuovi, appena stampati, paiono uscir fuori da un vecchio televisore, alla fine. Infatti non danno mai vera gioia, i ragionamenti (la gioia è una cosa parecchio colorata, in ogni caso). Danno attaccamento, questo sì. E motivi di polemica, di accorpamento o divisione, questo sì. Cose per ingannare il tempo, dimenticandoci di voler essere felici, insomma. Si possono fare molte cose, dimenticando il nostro cuore e la sua fame di colore.

Non l’arte, però.

L’arte, quella ha qualcosa di molto più a che fare, con i colori. Per le arti figurative è difficile negarlo. Ma anche un bel romanzo è a colori, per esempio. E’ assolutamente evidente. Anche se è stampato in caratteri neri su foglio bianco, come lo apri subito si sprigionano i colori. Pure la scienza, se non perde la sua carica di meraviglia, è a colori. Perché lo è la curiosità, quella che spinge a voler capire il reale. E potremmo approfondire il discorso verso il Mistero, pensando ai colori nella Sacra Scrittura: qualsiasi cosa si creda, si potrà convenire che un libro davvero importante (per molti, appunto, sacro) non può assolutamente prescindere dai colori, non può limitare in alcun modo il suo approccio alla realtà.

Il colore è la prima cosa, la più immediata e disponibile, che ci dice, ci suggerisce, che c’è ben altro che i nostri pensieri. A volte è un’ancora di salvezza di una potenza indescrivibile, perché ci rimanda ad un mondo di emozioni e passioni, dove già ci sentiamo più a casa. A volte è il modo con il quale una misteriosa bellezza ci raggiunge, ci sussurra, ora pensi in bianco e nero, ma rimani calmo, i colori ci sono, non lo vedi che ci sono? I colori, alla fine, ritornano. 

A volte la percezione – anche fuggevole – di un mondo segreto a colori, è tutto quel che ci serve.


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Accelerazione

A volte non ci rendiamo conto di come le cose siano in accelerazione, sia a livello umano che a livello cosmico, e dunque non facciamo quell’utile lavoro di decifrazione del dato, che ci consentirebbe – nei tempi lunghi che richiede – di vivere su questo piccolo pianeta in modo forse un pelino più consapevole. Di capire, insomma, un poco meglio, cosa sta accedendo.

Appare indubbiamente assai efficace la traslazione della storia dell’universo nell’intervallo di tempo – assai più “comprensibile” a livello umano – di un secolo appena, operazione che compie il filosofo e poeta Marco Guzzi, in un video recente (estrapolato dal corso Darsi Pace). Davvero ci fa capire come le cose si stiano muovendo con una furia di accelerazione impressionante. E mi fornisce lo spunto per qualche piccola considerazione a sfondo cosmologico.

Allacciate le cinture, la velocità è in aumento… 

Va subito detto che, come viene anche specificato in apertura del video, questo lavoro di ricomprensione è possibile soltanto adesso: appunto, solo da pochissimi anni, da quando abbiamo scovato (andando a vedere le “pieghe” impercettibili dell’eco primordiale del Big Bang) questo valore, i fatidici 13,82 miliardi di anni che rappresentano (secondo le stime più recenti) l’età dell’universo.

Insomma, tutto questo interessante discorso, sarebbe stato semplicemente privo di senso financo per il giovane Einstein, cresciuto nella percezione – allora incontestata dagli scienziati – di un cosmo esistente da sempre, e sempre uguale a sé stesso. Incomprensibile, perfino per lui. E parliamo di un uomo che ha rivoluzionato la fisica moderna, definendo un quadro concettuale in massima parte ancora valido. Insomma Einstein, non Keplero. Un uomo del novecento. Un uomo molto vicino a noi, nella linea temporale. 
Già. E’ incredibile come accelerino le cose. Se ci penso, non posso trattenere la meraviglia. Ancora da bambino, ricordo come fossi sicurissimo che domande come “quanto è grande l’universo” oppure appunto “quando è nato” non appartenessero all’ambito dell’indagine scientifica, né vi sarebbero mai potute appartenere, semplicemente perché strutturalmente  refrattarie ad ogni indagine empirica.

Mi sbagliavo. E mi sbagliavo di grosso.

La storia della scienza ha dimostrato, in pochissimi anni, come domande che erano rimaste – praticamente da sempre – appannaggio del mito o della religione, abbiano inaspettatamente trovato una risposta compiutamente scientifica. Ovvero, falsificabile, perfezionabile, verificabile a piacere. Ha spazzato via in pochi decenni convinzioni ed architetture di pensiero (come quella dell’universo stazionario) che duravano da millenni interi, che hanno permeato il sentire di generazioni e generazioni.

Piuttosto impressionante. Una rivoluzione più epocale del modo di concepire il cosmo, forse non è pensabile, in tutta la storia umana. Ed avviene, praticamente, adesso.
Non i nostri nonni, non i nostri padri. Non gli antichi, o gli uomini del secolo scorso. No. Siamo esattamente noi – voi che avete l’ardire di leggere queste righe (altra cosa incredibile, a pensarci) – nel punto preciso di svolta della storia umana, nel punto esattissimo in cui l’universo si osserva e “dice qualcosa” su di sé. Prende coscienza, in un certo senso. Perché noi, perché siamo nati adesso? Viene il capogiro a cercare di capirlo, a cercare soltanto di figurarcelo.
C’è un’altra cosa, ancora più generale, che si innesta sorprendentemente bene in questa catena di evidenze. Non solo la storia dell’uomo sulla Terra è in furiosa accelerazione, ma anche, come abbiamo scoperto da pochissimi anni (e che peraltro è valso un premio Nobel a tre tizi di nome Saul Perlmutter, Brian Schimdt e Adam Reiss), l’universo stesso è impegnato – a livello globale – in una espansione accelerata, che pare non conosce né fatica né ostacoli.
Fino a pochissimi anni fa si pensava piuttosto ad un Universo in fase più o meno di rallentamento, che si sarebbe prima o poi avviato verso una progressiva contrazione, avendo ormai esaurito la spinta iniziale (perdonatemi la grossolanità di questa sintesi, ma per capirci). I dati, come spesso accade, si sono fatti largo prima di tutto forzando la mente degli stessi scienziati, increduli di fronte a quanto essi stessi stavano scoprendo.
Il quadro attuale, in estrema sintesi, è questo: una (ancora) misteriosa energia, agisce spingendo ogni cosa lontana da ogni altra, accelerando a ritmo furibondo questa espansione già impressionante.
E dunque. Perché scopriamo solo adesso (e di conseguenza, lo”viviamo” solo adesso) il fatto che l’intero universo sia in accelerazione? Pensiamo ancora che sia casuale?

Non sono esattamente sicuro che le cose che scopriamo attraverso la scienza – come quelle che elaboriamo attraverso l’arte e le altre discipline che definiscono la consapevolezza del tempo presente – non abbiano un preciso significato per noi, qui ed ora. Non ci aiutino a definire un compito, un lavoro (che c’entra perfino con il motivo per cui siamo nati, oserei dire). 

Allora, dobbiamo proprio farlo questo lavoro quotidiano, dobbiamo innestare queste considerazioni cosmologiche proprio ed esattamente nella percezione di vita dell’uomo di oggi, nella sua carne, nel suo stesso respiro. Anche per questo la scienza è patrimonio comune, anche per questo la scienza è importante. Per tutti, ma proprio per tutti.

Perché un cosmo che ci parla (e che di nuovo, magari, si fa raccontare), con il quale recuperiamo un atteggiamento di relazione, è il segno di un ritrovato (benedetto) desiderio di camminare verso l’unità di noi stessi, è un segno – strano ma vero – di un possibile ritorno verso un maggior equilibrio mentale e una compiuta apertura della coscienza.

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Poltrona

E’ sempre bene, soprattutto quando si ragiona dell’attualità politica, arrivare quanto prima al nucleo reale della faccenda. Dando spazio a quello che pensano i poeti, per esempio.
Non conosco nulla al mondo che abbia tanto potere quanto la parola. A volte ne scrivo una, e la guardo, fino a quando non comincia a splendere. (Emily Dickinson)
Ora che un nuovo governo inizia la sua attività, è più che mai importante capire con che parole poter fare amicizia, in che narrazione dimorare. Certo, in politica si danno sempre molte narrazioni, diverse fin dall’inizio, per la tavolozza di parole che vengono adottate per descrivere la stessa cosa, la medesima azione, la identica situazione. E non è un caso. Difatti, ha ragione Emily, non esiste niente al mondo che non abbia tanto potere come la parola. La ragazza ha appuntato una verità assolutamente poetica ed insieme totalmente politica, non c’è che dire.
Un oggetto molto comodo ed anche molto evocato, di questi tempi.
Allora è vero, che ognuno si può avvoltolare nella narrazione che preferisce, in cui (per motivi psicologici, sociali, familiari, di amicizie, di percorsi culturali e spirituali) si sente più a suo agio. Però mi sento di dire, attenzione: questo non è senza limiti, senza confini. Non è tutto un relativismo, un omnia licet. Ci aiuta in questo proprio la poesia, con quel peso di rispetto che da sempre tributa alle parole. Che non possono essere tirate eccessivamente da una parte o dall’altra, senza che la forzatura appaia evidente (se appena, la si voglia vedere).
Un po’, mi ci fa pensare un bell’articolo che apparso ieri sul sito di Avvenire, dal titolo emblematico Si fa presto a dire poltrone. Essendo adombrata fin dal titolo, una questione di linguaggio (ovvero una questione molto più essenziale e viva di quelle in cui indugiamo per pigrizia, quando pensiamo di trattare di fatti) mi sono interessato.  E ne sono contento.
Infatti, mi pare che il toro venga finalmente preso per le corna. Scendendo fino all’uso del linguaggio, alla sua rimodulazione, si affronta la vera sostanza delle cose.

Così gli accordi tra i partiti, su cui si fonda l’esercizio della democrazia, vengono relegati a “inciuci”, i cambi di maggioranza diventano “golpe”, i seggi, gli scranni parlamentari e governativi sono “poltrone”. 

Rimando alla lettura dell’articolo, e intanto mi cimento in una minima considerazione politica. Potrà piacere o non piacere questo nuovo governo (io un po’ spero, per molti motivi), ma dovrebbe essere acclarato che ci si stia muovendo nella piena legittimità costituzionale, che nessuna strana manovra di palazzo abbia attentato alla volontà popolare. Costituzione alla mano (quella che tanti difendevano al sangue prima del referendum, per poi allegramente riporla tra i libri dello scaffale alto, quello che nessuno prende mai), il primo dato dovrebbe essere questo.
Leggo ad esempio (articolo 92) che,

Il Governo della Repubblica è composto del Presidente del Consiglio e dei Ministri, che costituiscono insieme il Consiglio dei Ministri. Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei Ministri e, su proposta di questo, i Ministri.

Esattamente quello che è successo ora, come era del resto accaduto all’atto di formazione del governo precedente. Tutto secondo Costituzione (le cui parole sono precise, e poeticamente fondanti).
Eppure da una certa parte (gli sconfitti? gli esclusi? ma secondo un normale gioco democratico), si sta tentando – in questi giorni, in queste ore – con sciagurata insistenza, una grossolana rimodulazione del vocabolario descrittivo, uno spostamento inopinato di narrazione. Che trovo assai irritante, proprio perché sleale verso il linguaggio – una cosa che ogni persona appassionata di poesia sente di dover difendere ed amare. 

Fateci caso, certi esponenti politici in questi giorni, mettono e metteranno sempre la parola (piuttosto impropria, per scrannipoltrone e la parola (semplicemente orribile) inciucio in ogni loro considerazione politica. L’intento è palese: generare irritazione e scontento. Ed è un brutto intento, secondo me. Tra l’altro, pochissimo poetico, anzi per nulla. Sia perché l’obiettivo della poesia, e di ogni agire poetico, è diametralmente opposto, essendo teso verso una modulazione di sentimento positivo e costruttivo (questa è la poesia, niente può cambiarla, grazie al cielo: tesa ed appesa ad una vibrazione positiva del mistero del reale). Sia perché sleale con quell’arma potentissima che sono le parole. Che vanno sempre usate con rispetto, pena la degradazione della qualità di pensiero e dunque di vita.
Vuol dire che non si può criticare questo governo (o altri governi)?
Certamente non vuol dire questo, anzi. Si può criticare ferocemente, aspramente, in modo sanguigno. Da destra, da sinistra, si può e probabilmente si deve. Sempre però – attenzione – tramite l’uso proprio delle parole. L’idea qui è di non riposare su luoghi comuni, tristi quanto (come dicevamo) scorretti. Insomma, se si vuole opporsi, si faccia per bene, lavorando di fino, limando le giuste parole, incontrando con la fatica del pensiero nuovo l’intersezione con i fatti, riscontrando e delineando scenari alternativi, costruendo narrazioni potenti e differenti. Sempre spiazzanti, mai adeguandosi al pensiero pigro, alle parole usate ed abusate. Abusare delle parole è un crimine, vuol dire far del male alle gente. 
Una narrazione politica deve essere un po’ come una buona poesia: deve rispettare le parole (il profondo mistero che esse veicolano), e deve sempre sorprendere, almeno un po’.
Altrimenti, ci possiamo davvero mettere in poltrona (quella vera), e farci un sano sonnellino. In attesa, speriamo bene, di tempi migliori.

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