Blog di Marco Castellani

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Un modo di cercare

Marte era molto diverso in passato. Più florido, certamente. Le nuove immagini che ci porta il rover Perseverance mostrano segni evidenti di quello che una volta era – con ogni probabilità – un corso d’acqua in rapido movimento. E non era solo, ma faceva parte di una estesa rete fluviale presente all’interno del cratere Jezero, l’area che il rover ha esplorato fin dalla sua fase di atterraggio, ormai più di due anni fa.

Queste rocce ci parlano di una storia di fiumi che scorrevano gagliardi…
Crediti: NASA/JPL-Caltech/ASU/MSSS

Comprendere questi ambienti una volta acquosi, aiuta senz’altro gli scienziati nel cercare quei segni di antica vita microbica che potrebbero ancora annidarsi dentro le rocce marziane. E potrebbero arrivare grandi sorprese.

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La difficile situazione in Ucraina

Di qualche giorno fa, la dichiarazione dell’Istituto Nazionale di Astrofisica, sulla situazione in Ucraina.

L’Istituto Nazionale di Astrofisica esprime la massima solidarietà alla popolazione e alla comunità scientifica dell’Ucraina ora sottoposta a una situazione molto difficile. Siamo a disposizione nell’ambito delle iniziative del Governo nel supportare azioni concrete di aiuto per i nostri colleghi ucraini con cui collaboriamo da anni. La scienza deve essere portatrice di valori universali di pace; in questo senso la comunità Inaf auspica che la ragione prevalga sulla sopraffazione, e che non si debbano interrompere le molte collaborazioni scientifiche frutto di tanti anni di rapporti positivi.

Riparto da qui, per capire chi sono, cosa sono, in questa contingenza. Riparto da ciò che mi definisce (qui, in ambito professionale). Prendo sul serio questa dichiarazione. Tra il fiume di parole di questi giorni (fate caso come, nel flusso verbale mediatico, l’affluente COVID abbia speditamente ceduto il passo a quello riguardante la situazione in Ucraina), scelgo quelle verso cui ho una appartenenza da giocarmi. Devo farlo, in ambito personale, come in ambito professionale. Che poi, lo sappiamo, è tutto collegato.

Una veduta della città di Kiev, in Ucraina

Si parla nel comunicato, di scienza come portatrice di valori universali di pace. Questo lo credo, questo lo scrivo e cerco di fare amicizia con questo concetto, nella vita quotidiana, per come posso. Penso ora anche al convegno internazionale La Scienza per la Pace che si è tenuto in Abruzzo quest’estate, a cui ho partecipato con interesse.

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La rivoluzione nel cuore

Se ci penso, mi sorprende quanto in fretta sia cambiato tutto. Funziona così, ti abitui ad un certo clima e pensi che sia immutabile, che sia il modo di vedere il mondo. I buddisti parlano di impermanenza mettendoci dunque in guardia: ma non ci siamo molto abituati, noi occidentali.

Sono cresciuto convivendo con la viva speranza (ed il progetto spesso impaziente) di cambiare il mondo. Ricordo bene, in questo senso, i miei tempi del liceo (siamo a cavallo tra i settanta e gli ottanta). Il mondo nuovo sembrava fosse veramente all’uscio, che stesse ormai premendo per entrare. Finalmente tutto cambia. Poco conta alla fine che mi sentissi “di sinistra” o meno, che guardassi alla sedicente rivoluzione proletaria con un senso di ammirazione o invece con paura. Perché in quel clima, in quell’aria che parlava di cambiamento imminente, c’eravamo dentro tutti. Destra o sinistra, dunque, io c’ero. Le cose si vedevano in un certo modo, si mangiava, si dormiva, si amava in un certo modo. C’era questa rivoluzione da fare: comunque le cose sarebbero cambiate. Presto. [Continua a leggere sul sito di Darsi Pace…]

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Scienza e coscienza

In realtà il titolo che hanno scelto è La Coscienza Metamorfica e la Co-creazione della realtà, titolo che potrebbe anche apparire altisonante. Tuttavia la cosa è quella, il tema è affascinante e forse non troppo praticato, ancora: cosa ci dice la nuova scienza riguardo al mistero della consapevolezza e se possiamo dirne qualcosa che ci aiuti a capire meglio noi e il mondo, tentativamente a vivere meglio nel nostro Universo, con idee ed attitudini adeguate all’incredibile mistero che ci circonda (mistero riconosciuto da tutti i grandi scienziati, come facilmente documentabile).

Di questo in fondo si è parlato nella chiacchierata di ieri in diretta sul canale di Spazio Tesla, in compagnia del poeta e filosofo Marco Guzzi, fondatore dei gruppi Darsi Pace. Sono onorato di aver avuto la possibilità di dialogare pubblicamente con lui, è stata una esperienza arricchente e densa di utili spunti di riflessione. A guidare le danze la sapiente regia di Laura Groppi e di Alberto Negri (amico con il quale ho registrato già un colloquio sull’esplorazione del Sistema Solare e un’altro dove si è provato ad allargare ulteriormente lo sguardo).

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L’opera della nostra guarigione

C’è sempre da stupirsi, di quanto un’opera di poesia, che sembra (a primo pensiero) quanto di più personale possa esserci, si possa rivelare inaspettatamente corale, posa dispiegare una sua potenzialità relazionale. Che certo all’inizio, non avresti detto.
No, affatto. Tu avresti pensato magari a lasciare questi tuoi versi in un cassetto, in un angolino di un hard disk, di un server di qualche grande azienda, in qualche Silicon Valley molto linda e molto all’avanguardia, dove tu incidi per un pezzettino, un pezzettino appena. Dove ci stanno le tue parole, riposano e respirano.
Poi la strada, sai. La strada. C’è la strada. Fatta di occasioni, di incontri. Quello con Marco Guzzi, intanto. Indubbiamente importante, per i tuoi anni recenti. Tanto che tu, vincendo la timidezza, avresti poi chiesto proprio a lui la prefazione per Imparare a guarire, il volume di poesie. E questa prefazione che c’è, ora c’è, c’è da tempo, ed è bella e solida e impreziosisce davvero queste pagine, le radicano più decisamente in un cammino di possibile guarigione, le restituiscono un accordo armonico di terapia, personale e forse anche un po’ comune. Che è poi quello che desideravi, quello che speravi.

Poi le cose ti sorpassano, e questa in effetti è (sempre) la tua unica speranza, che le cose appunto ti sorpassino, ti sorprendano e ti superino alla grande, e tu con tutte le immagini che hai di te, appesantito da tanti inutili pensieri, ecco, tu stesso rimani indietro. Ma sei felicemente indietro, perché se loro vanno avanti, va bene, lo sai che va bene. Va molto bene. Che diciamocelo pure, ormai è parecchio evidente, è chiaro, certo non sarai salvato per una tua abilità, per qualche tua guittezza, semmai, ma per una sovrabbondanza che arriva gratis (in allegra spudorata violazione di ogni regola di mercato) e che appunto ti sorpassa. E di molto.
Così dopo la lettura di Fabio Fedrigo di una poesia del volume, di cui hai già scritto, ora c’è questo altro regalo, la lettura che fa Pasqualino Casaburi di una particella dell’introduzione di Guzzi, e di alcune tue poesie (bella scelta, mi viene da dire).
Così mi scrive lui stesso,

Un filo sottile unisce le cose e tutte le creature. L’arte poi ha un suo particolare privilegio. Quello di lasciare dove passa una scia invisibile agli occhi, un’ armonia che RI-suona vibrando nel cuore. Quando le passi accanto succede anche questo. 

Pur non conoscendo Marco Castellani di persona (e poi, voglio dire, in questo periodo sarebbe stato oltremodo difficile che ciò fosse avvenuto) mi sono incontrato con il suo scrivere, ed è stato un colpo di fulmine. Il gancio è stato la sua vicinanza ai gruppi Darsi Pace, laboratori creati da Marco Guzzi, una persona alla quale mi sento molto legato per le affinità di pensiero. 

Dai testi poetici del filosofo e poeta Marco Guzzi è stato appena un passo per ritrovarmi dentro l’atmosfera dei versi di Marco Castellani. Ho apprezzato così il suo lavoro di astrofisico, lo studio della fisica dell’Universo, come territorio infinitamente esplorabile come del resto quello della sua poesia che mi si è presentata davanti un giorno, grazie ad una piccola raccolta dal titolo accattivante, Imparare a guarire

Ho trovato in quelle parole uno spiccato senso di profondità dell’essere ed allo stesso tempo la semplicità e la gratitudine di esserlo.

Questo mi ha portato a provare a far RI-suonare quelle parole con la mia voce per vedere le emozioni di ritorno. 

Dapprima ho fatto e riascoltato gli audio. Poi avendo saputo, tramite Elena, una mia amica di Roma, dell’iniziativa culturale ideata da Happening Cult ho provato anche io a fare un piccolo video con alcune poesie di Marco ed inviarlo alla redazione. 

Happening-cult in questo periodo di chiusura in casa ha creato questa vetrina di poeti in erba e non, ma anche di semplici lettori, che prestano la loro voce e diffondono ancora di più la bellezza della poesia. 

È stato un’esperienza nuova per me dovermi cimentare con la dizione (le pause soprattutto) ma soprattutto dover citare espressioni e parole che comunque fanno parte di un universo intimo. È per questo che non finirò mai di ringraziare Marco Castellani.

Vorrei correggere il tiro, solo per l’ultima frase, un po’ eccessiva magari. In realtà sono io a ringraziare Pasqualino, per la sua dedizione appassionata a questa piccola opera. Che nella misura in cui è la guarigione nostra, sorpassa e lascia indietro anche ogni valutazione sulla capacità poetica, essendo questi testi “a servizio” per un cammino.
Così che anche in questi periodi di chiusura, la realtà ti viene a trovare e ti stimola, ti porta ad una apertura inattesa. A uscire dalle tue private lamentazioni, e tornare a fare i conti con il noi. L’opera della guarigione è comune, è sociale, è politica.

E’ insieme, prima di tutto.

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Adesso

Capita che una poesia, nel tempo, si scavi un suo sentiero. Si provi a vivere anche in altre forme, esplori altre modalità comunicative. Capita che una poesia sia così, rappresenti una occasione di relazione e dialogo, un pretesto per stabilire ponti, rinsaldare connessioni. Esplorarne di nuove, anche.
La poesia che si è data da fare, che si è scavata il suo sentiero, è stata Adesso, che compare nel volume Imparare a guarire (Di Felice Edizioni, 2018).

Un amico, è stato il tramite. Perché le cose vanno in questo modo, corrono lungo il filo di amicizie, su binari invisibili e forti, di reciproca stima. Usano questi canali, questi ponti meravigliosi e lucenti tra le nostre interiorità. Quelle nostre parti interne così spesso avvertite come chiuse, come ambienti senza finestre, senza comunicazione.
Il pensiero creativo è fatto così, è relazionale, direi coniugale per eccellenza. Tende sempre a mettere insieme, mai ad isolare. A far baciare le cose tra loro, non a metterle di schiena. Parlo di creatività e non specificamente di arte, per riposare su un termine che non spaventa (o spaventa di meno), e perché non mi sto riferendo tanto al risultato quanto alla attitudine.
Porsi in attitudine creativa è come iniziare a cucire. A cucire dei ponti. Primo, tra le parti interne di me stesso, lenendo ed unificando, ammorbidendo le asprezze, realizzando connessioni tra l’inconscio e la parte razionale, tra le varie parti di me che normalmente non vogliono parlarsi, non desiderano veramente coniugarsi, appunto, e ordinariamente si voltano di schiena. Secondo, tra me e gli altri. Ma è un movimento inevitabile: nella misura in cui sono più unificato, mi relaziono più naturalmente con l’altro, lo vedo meglio, e mi faccio vedere allo stesso tempo, in modo più autentico. Sono un pelo più tranquillo, abbasso le difese, permetto all’altro di entrare in me (se lo desidera), lasciando uno spazio più largo di accoglienza. E’ come dire, vieni, non ti verrà fatto del male. Frase che ci fa sempre bene ascoltare, che fa bene al cuore, alla pelle, al sorriso, agli organi interni. Rimette a posto un sacco di cose, dentro e fuori di noi. E lo fa (appunto) adesso, lo fa nel momento presente, nell’attimo preziosissimo che stiamo vivendo.
Fabio Fedrigo, che ho sempre ammirato moltissimo per la sua abilità con cui “interpreta” alcuni testi del poeta e filosofo Marco Guzzi, si è reso disponibile a questa avventura. Di Fabio, mi rapiscono totalmente le sue letture, della poesia L’ora della ricreazione, ad esempio. Ma soprattutto, quella. Se c’è una poesia dove sento l’interpretazione di Fabio come parte integrante del processo creativo, come componente imprescindibile della riuscita, è certamente L’ultima lezione. Estrae dal testo, ogni significato più nascosto, lo porta in evidenza in modo brillante, perentorio. Così perentorio che mi lascia senza fiato, alla fine. Il suo lavoro di scavo nelle parole mi arriva, come un dono.
Questa ampiezza timbrica ed espressiva di Fabio la sento presente anche nella mia piccola poesia. Aggiunge quel qualcosa che già legittima, a mio avviso, il passaggio della poesia dal testo al video, al multimediale. Non è più solo mia (se mai lo fosse stata), ormai è frutto di una collaborazione, è un’opera comune.
Un’altra amica, Antonietta Valentini, si è resa disponibile e ha messo a servizio la sua perizia nella gestione e montaggio video, accostando in modo elegante la voce di Fabio ad alcune immagini che ho scattato nel parco sotto casa, in tempi diversi.
Vi risparmio considerazioni riguardo il significato della poesia. Mi appare supponente ogni atteggiamento che voglia indirizzare la comprensione della propria (piccola, piccola) opera, privando così il fruitore di una libertà essenziale – quella dell’interpretazione personale – attraverso la quale partecipa come protagonista nella dinamica del processo creativo.
Spero che vi piaccia!

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Il risveglio dell’umano

E’ uscito venerdì scorso (per ora soltanto in formato ebook) il nuovo libro di Julián Carrón, Il risveglio dell’umano (BUR Rizzoli). Il testo è una conversazione del teologo spagnolo con il giornalista Alberto Savorana. A tema, come ci si potrebbe attendere, la presente emergenza sanitaria e le sfide che questa comporta nelle vite personali di ognuno.
Una lettura semplice (ma non banale) che finalmente, al di là delle cifre sui guariti e sui deceduti che ci viene fornita quotidianamente con precisione esasperante, aiuta nel cammino di trovare un senso a quello che sta accadendo. Cosa ancora più importante, un senso personale. Un significato non “precotto” o fornito intellettualmente, peraltro.
E’ piuttosto un significato che richiede, in ogni persona che accolga la sfida, una postura attiva e non meramente recettiva.

In accordo con la “scuola” dell’Autore (che è alla guida del movimento ecclesiale di Comunione e Liberazione), infatti, il libro è un invito gentile a mettersi all’opera, a mettersi al lavoro nel cammino di scoperta di come questo periodo apparentemente “sospeso” possa essere usato per incamminarsi con più decisione verso la verità di sé.
Niente astratte dottrine, niente regole disincarnate, ma l’attenzione cordiale verso testimoni di una possibile pienezza, verso ogni “segnaletica” di un modo più vero di stare nel reale. Un testo che procede in un dialogo fitto e costante con quanto è stato detto e scritto sulla presente emergenza relativa al Coronavirus (al proposito si apprezza decisamente non solo l’ampiezza ma anche la freschezza dei riferimenti proposti, alcuni così recenti da arrivare alla data del 5 aprile di quest’anno).

L’uomo che si risveglia, si comprende dalla lettura, è l’uomo che riscopre, o meglio ricostruisce con questo lavoro di cesello quotidiano, la propria identità. E torna bene una frase che estrapolo dal libro di Marco Guzzi, Dizionario della lingua inaudita, laddove egli avverte che

Dobbiamo ricostruire la nostra identità, 
capire chi siamo in quanto occidentali,
europei, cristiani e nichilisti. E per fare questo
dobbiamo confrontarci, anche solo culturalmente
e a prescindere da qualunque adesione di fede,
con la novità assoluta della rivelazione cristiana,
su ciò che fa dell’evento di Cristo
l’inizio di una storia nuova sul pianeta.

Non è un libro che cambia la vita, questo di Carrón: è un libro che semmai aiuta a porsi in una strada per cui la vita può cambiare. O meglio, può cambiare la percezione che ne abbiamo, rinegoziando nel profondo le cose che crediamo di sapere. Ed anche – ed è forse il suo valore più denso – può aiutare a scoprire una utilità anche in questo periodo apparentemente “sospeso”. 

Per tutti, non solo per chi lotta in corsia, ma anche per chi deve “semplicemente” rimanere in casa.

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Solo la (tua) vita, convince

Devo ammettere che all’inizio ero anche un poco perplesso, approcciandomi al volume “La vita è l’opera“, una autobiografia di Marco Guzzi, ideatore dei gruppi Darsi Pace (con i quali lo scrivente entrò in contatto ormai diversi anni fa). Essendo dichiarata come autobiografia, il timore di una operazione con una certa dose di connotazione narcisistica, devo dirlo, mi è inizialmente affiorato alla mente. 

Abbiate pazienza, con me. Non avevo ancora capito (e qui mi permetto un gigantesco spoiler) che avevo tra le mani uno dei pochi libri che si possono davvero leggere, adesso.
La faccenda, se vogliamo dirla tutta, è che il sottotitolo – come capisce ogni lettore dopo aver voltato anche un modesto numero di pagine – è fondamentalmente una balla.
Sì care Paoline, stavolta avete barato: giunti al ventunesimo volume della gustosissima collezione Crocevia (le cui variopinte copertine formano adesso una allegra adunanza di colori, nello scaffale), chissà come mai, ma l’avete fatta sporca. Il sottotitolo, una biografia è chiaramente una deviazione dalla verità, non ci sono scuse. 

Una felice deviazione, dovrei aggiungere a questo punto. Una sperticata sottovalutazione, nel complesso.
Perché è ben di più di una biografia, ed al contempo (come vi dicevo poco fa) è l’unico modo possibile, adesso, per ragionare su alcuni temi importanti, mantenendo alto l’interesse di chi legge. 

Perché l’autobiografia è così avvincente, adesso? Perché proprio adesso, in questi tempi estremi, abbiamo bisogno di testimoni, non appena di incontrare verità disincarnate. Il fatto che tutto l’argomentare sia innestato su una vita reale, che sia non appena proclamato ma vissuto, rende le cose più vere, le rende potenzialmente vivibili anche per noi. Le rende esattamente, una proposta per noi.

Quello che disse Luigi Giussani già negli anni Novanta parlando ad un gruppo di responsabili del suo movimento, risuona oggi di una attualità quasi sconcertante, «Il grande problema del mondo di oggi non è più una teorizzazione interrogativa, ma una domanda esistenziale. Non: “Chi ha ragione?”, ma: “Come si fa a vivere?”».

La cosa stupefacente, per me, è capire come questa frase oggi, proprio in questi giorni, si possa prendere alla lettera, anzi che lo si possa fare soprattutto oggi: sì oggi, barricati in rifugi domestici per il virus, chiusi in ambienti fisici (e spesso mentali) ristretti, desiderosi quanto mai di una finestra di apertura, di un punto di fuga che però non sia una diversione sterile, ma sia piuttosto un radicamento, forte, in cose che contano, in poche grandi cose (per dirla ancora con Giussani). Ma per carità, in un modo vivo e fresco, di nuovo finalmente vivibile, gustabile, direi quasi spalmabile sulla pelle. Respirabile, se volete. Insomma, molto concreto. 

In fondo è la rassicurazione robusta e lieta, del si può vivere così che ci serve, in questo periodo. Non ci serve veramente altro. Dice Guzzi in un altro testo (e lui sa che mi piace da matti), che noi esseri umani “non abbiamo bisogno di molto altro, ma solo di infinita consolazione” (per il dettaglio, si trova adesso all’apertura del volume “Facebook, il profilo dell’Uomo di Dio”). Ed allora, facciamola corta. Basta con i discorsi. Solo di questo abbiamo bisogno. Infinita consolazione. Di verità disincarnate ed astratte, di speculazioni intorno ai massimi sistemi davvero non sappiamo più cosa farne. 

Non sappiamo che farne perché non ci sono utili, non ci aiutano più, perché ormai la nostra coscienza moderna, la nostra potenziale consapevolezza – ci piaccia o no – è oltre l’asfittica disamina di torti e ragioni, di istruzioni per l’uso della vita che non abbiano sangue e carne, dentro. E’ inevitabilmente, storicamente oltre, e nessun ritorno indietro è più tollerabile. Soprattutto ora, che siamo stanchi di giochetti dialettici, che i giochetti dialettici sono fragorosamente saltati in aria, spazzati via finalmente, da questa infausta ed inattesa emergenza sanitaria.
E per inciso, se dopo, si tornasse come nulla fosse, alla contrapposizione dualistica di torti e ragioni, al combattimento fragoroso ed inutile delle mille opinioni, rimbalzate da un pagina di giornale ai social e viceversa, beh avremmo davvero perso una occasione. Che è presente, senz’altro presente, pur in mezzo a tanta sofferenza. 

Che poi se vogliamo, non c’è che da riscoprirla questa verità, in fondo non c’è da inventarsi nulla. 

Perché questo è anche il centro del messaggio cristiano, come evidenziato nel libro: nessuna verità disincarnata, la verità è una Persona. Lo ripetiamo da millenni, ma forse non l’abbiamo ancora ben capito, nel complesso. Meglio, non abbiamo assaporato tutta la aerea, sconfinata benefica larghezza ed inedita spaziosità di questa posizione, sempre nuova. Ma addentrandosi nel testo, questo si può anche non capire chiaramente, o non capire subito, e il fascino ti raggiunge ugualmente. Non ci sono ulteriori concetti da mandare a memoria, ci sono – Deo gratias! – cose che accadono.
Non è appena chi ha ragione che ci interessa, ma come si fa a vivere, perché la faccenda è questa, nel periodo presente, ogni sistema astratto che ci appagava tanto (in apparenza), è semplicemente saltato. Così è un aggancio biografico che appena ci può interessare, adesso. Così questo libro – e certamente altri, sullo stesso registro – oggi ci interessa particolarmente. O meglio, solo questo tipo di libri oggi si può realmente leggere, come saggio. 

Certo ci sono i romanzi, un buon romanzo attraversa i tempi ed è fruibile in ogni situazione. Ma come saggio, ecco, siamo qui, questo è ciò che è possibile leggere. Nessuna trattazione formale oggi regge. Questa sì, perché una vita è lo specchio di mille vite, ogni vita è una proposta alla nostra vita. 

Un libro esattamente per questi tempi, dunque. Sono tempi estremi, in cui solo una verità incarnata, una verità vivente, una verità non di concetti, ma di sangue circolante, ci può prendere.
Perché adesso ogni ulteriore diversione, deviazione, è semplicemente intollerabile. E allora si attraversano i temi eterni della cultura, della fede, della tecnica e dello sviluppo dell’uomo, della felicità e della politica, del matrimonio e della sessualità, della psicologia e del rinnovamento nella Chiesa, della morte e della creatività ma in modo ancora possibile, in modo ancora felicemente, carnale.

Ed è un piccolo ma robusto inno alla gioia quello che ne deriva, capace di ristorare e rincuorare il lettore smarrito di fronte agli eventi, donando un senso e una direzione, ragionevoli e (nonostante tutto) gioiosi, perché alla fine – fatemi dire così – non si tratta della vita di un tizio, che puoi conoscere o meno, puoi aver incontrato o meno. Non si tratta di essere esposti ad altre nozioni, a dotte speculazioni, riguardo la biografia di Marco Guzzi, riguardo i gruppi Darsi Pace, riguardo a questo o quello. Non sono ennesimi appigli perché tu “ti faccia un’idea”, metta un’etichetta alla cosa e passi avanti. 

No, ed è questo il bello. Alla fine capisci che si tratta della tua vita, e l’abilità semplice e potente di chi intervista (Francesco Marabotti) e chi racconta semmai, è sul rimanere ancorati a cose concrete di una vita, che scopri con piacere che riguardano direttamente la tua, di vita.

E la ristorano di una proposta, salutare.

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