Blog di Marco Castellani

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Propulsori di riserva per Voyager 2. Il viaggio continua!

Ce l’ha fatta. Pur ad una distanza abissale, ce l’ha fatta. Il Voyager 2 ha commutato al set di propulsori di riserva, per quanto riguarda le manovre di assetto della sonda. Il personale del Deep Space Network aveva inviato gli opportuni comandi all’inizio di novembre, per poi riceverne conferma dieci giorni dopo:  i comandi sono stati eseguiti con successo. Il viaggio continua.

Come spiega la notizia sul sito della NASA, il cambio è stato deciso al fine di limitare la potenza necessaria alla sonda, ormai trentaquattrenne, spegnendo i controlli che mantengono caldo il carburante dei propulsori principali. Sebbene infatti il tasso di energia generato dalle sorgenti nucleari a bordo del Voyager 2 continui progressivamente a diminuire, riducendo la richiesta di potenza da parte del sistema, gli ingegneri si aspettano che con questa modifica, la sonda continui a funzionare… per un’altra decade!

Il cambio consentirà alla sonda di utilizzare i propulsori finora mai adoperati, mentre continue il suo viaggio attraverso lo spazio interestellare, oltre il nostro Sistema Solare.

Una rappresentazione artistica della sonda Voyager 2. Crediti: NASA/JPL-Caltech

Le gemelle Voyager 1 e Voyager 2 sono state equipaggiate in origine con ben sei set – o coppie – di propulsori. Questi controllano l’assetto delle sonde, la stabilità, e gli altri dettagli del moto. I set si possono suddividere in tre coppie di propulsori primari, e tre coppie di propulsori di riserva (backup thrusters).

Ricordiamo che il Voyager 2 si trova al momento a circa 14 miliardi di chilometri dal nostro pianeta, cioè sta ormai attraversando gli strati più esterni dell’eliosfera – quelli dove il vento solare comincia ad essere rallentato dalla pressione del gas interstellare. Sono i veri confini del nostro sistema di pianeti, e per la prima volta nella storia una sonda – ancora operativa! – è in grado di attraversarli e di inviarci preziosi dati di tali remote regioni.

Dalla pagina Twitter di Voyager 2, un botta e risposta tra "la sonda" ed uno dei suoi affezionatissimi fans...

Come “curiosità informatica”, è interessante notare come anche il Voyager 2 da tempo usi Twitter (qualcosa che era assolutamente inconcepibile nell’epoca in cui la sonda venne ideata) per inviare messaggi di stato riguardo la sua posizione e le sue condizioni. Il numero dei follower è un ottimo indicatore della popolarità della sonda: al momento di scrivere questo articolo, gli iscritti risultano ben 29.354 (sì, ci siamo anche noi di GruppoLocale). Un altro caso in cui un social network viene usato in maniera “virtuosa” per comunicare ad un largo pubblico gli ultimi sviluppi di quella che può ben essere considerata tra le più grandi avventure tecnologiche del nostro tempo.

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Herschel, il Sistema Solare si capisce dall’acqua

Una delle molecole più interessanti che gli astonomi (e gli scienziati in generale) si possano trovare a dover studiare è senz’altro l’acqua. Come sappiamo, è assai abbondante sulla Terra, ed è anche indispensabile alla vita. L’acqua si forma piuttosto facilmente – se le condizioni ambientali sono favorevoli – tanto è vero che anche le regioni esterne del Sistema Solare sono piene di corpi “ghiacciati”. 

La ricerca di acqua al di fuori del nostro pianeta va condotta… da fuori (appunto), poiché l’atmosfera terrestre interferisce pesantemente su tale tipo di misure. E’ il campo di lavoro ideale per le sonde, come Herschel. Orbene, nel 2010 la cometa Hartley 2 si trovò a passare relativamente vicino alla Terra. L’occasione era davvero ghiotta, visto che la cometa proveniva dalla lontana regione della fascia di Kuiper, e solo l’orbita molto allungata permetteva questa incursione nei paraggi del Sole di un corpo proveniente dagli spazi più remoti. Gli strumenti di Hartley 2 si sono attivati e hanno stabilito che la composizione dell’acqua della cometa è molto simile  a quella degli oceani terrestri.Il fatto che la natura dell’acqua sulla cometa e sulla Terra sia molto simile, sicuramente rinforza l’ipotesi per la quale sarebbero proprio le comete ad aver portato l’acqua sul nostro pianeta.

Rappresentazione artistica del disco di gas e polvere intorno alla giovanissima stella TW Hydrae (Crediti: ESA/NASA/JPL-Caltech/WISH)

Ma non è tutto qui: la sensibilità degli strumenti di Herschel ha permesso anche di studiare il materiale in orbita intorno ad altre stelle, come TW Hydrae. La stella è poco più piccola del Sole, ma è molto, molto più giovane. Ad una età di appena 10 milioni di anni, possiamo pensarla come una stella “adolescente”. Fosse stata il nostro Sole, per i pianeti avremmo dovuto aspettare ancora decine o centinaia di milioni di anni!

Alla distanza di 175 anni luce, non possiamo pretendere troppo dagli strumenti di Herschel – non è possibile uno studio dettagliato. Ugualmente, la sensibilità della sonda ha permesso di trovare segnali di vapore acqueo e di determinarne locazione e temperatura. In particolare, il vapore risulta “strappato via” dai grani di ghiaccio dalla luce stessa della stella, ma si riscontra ad una temperatura di circa -170 gradi Celsius. Decisamente molto più freddo di quanto si riteneva finora. Trovare vapore a tale temperatura indica come questo debba essere presente in ampie zone del disco stellare.

Sono appena due esempi di come lo studio dell’acqua sia fondamentale per  la comprensione stessa delle modalità di formazione ed evoluzione del Sistema Solare. Molto ancora possiamo aspettarci di comprendere dall’analisi della distribuzione dell’acqua nell’universo a noi più prossimo: la storia di questa molecola e la storia della nostra stella e dei suoi pianeti, risultano fortissimamente allacciate.

Herschel Press Release

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Planck raggiunge i 500 giorni di osservazione

Esattamente due giorni fa, il 27 dicembre, la sonda Planck ha raggiunto i 500 giorni consecutivi di osservazione della volta celeste. Era infatti il 14 agosto del 2009 quando gli strumenti di Plank si aprivano a rilevare i primi dati.

Una volta ogni minuto, la sonda compie un giro su se stessa, in modo da mappare un intero anello di cielo. Pian piano, Planck è ormai arrivata alla sua terza survey del cielo e a più di metà della sua missione, che consiste nel mappare il cielo su ben nove diverse lunghezze d’onda, comprese tra 0,3 mm e 1 cm.

Come sappiamo, la missione principale di Planck è quella di mappare la radiazione cosmica di fondo, ovvero la sorta di “eco” del Big Bang che permea tutto l’universo, formatasi circa 400.000 anni dopo il “grande scoppio”. Ma c’è di più (se ce ne fosse bisogno…!), poiché la radiazione di fondo non è l’unica cosa che “brilla” nella regione delle microonde. Il gas e la polvere nella nostra stessa Galassia infatti brillano anch’essi nella stessa regione dello spettro, “disturbando” proprio la rilevazione del fondo cosmico.  La soluzione è proprio nell’ampia copertura di cielo garantita da Planck, che permette di isolare dal contesto (e dettagliare) anche il contributo galattico.

Scansionando il cielo più volte, la sonda sta costruendo una rappresentazione di quali componenti della Galassia si possono rilevare alle diverse lunghezze d’onda. La prima mappa completa del cielo ottenuta da Plack è stata rilasciata nel giugno di quest’anno, e già da questa è risultato chiaro il vantaggio di questa ampia copertura in area e in lunghezza d’onda.

La volta celeste come vista da Planck (Crediti: ESA/LFI and HFI Consortia)

Nell’immagine, la polvere localizzate nella Galassia è mostrata in blu e bianco, mentre il gas  è in colore rosa. Il gas e la polvere sono localizzate soprattutto nel disco della Via Lattea, che dalla nostra posizione si vede “di taglio”, a costituire la banda orizzontale che attraversa il centro dell’immagine.

Per apprezzare il contributo della radiazione di fondo bisogna guardare la parte alta e bassa dell’immagine, lontano dal disco galattico. Confrontando l’emissione a tutte le lunghezze d’onda, gli scienziati stanno mettendo insieme i mattoncini per raggiungere una comprensione molto più accurata dell’universo primordiale. Un lavoro di questo tipo prende molto tempo, tanto che per un paio di anni non si prevede di avere risultati (qui la pazienza è d’obbligo, se si vogliono avere risultati “solidi”).

Gli astronomi stanno anche studiano, naturalmente, la polvere ed il gas della nostra Galassia, che segnala efficacemente i luoghi di intensa formazione stellare. Planck sta costruendo mappe di formazione stellare a vasta scala, perché possano poi essere studiate da altri strumenti, come il Telescopio Spaziale Herschel.

La nostra Galassia, comunque, non è l’unica ad essere osservata da Planck. Nel gennaio del prossimo anno, sarà reso disponibile un catalogo di galassie lontane, come pure una lista di regioni ben localizzate di formazione stellare nella Via Lattea.

UK Space Press Release

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PLATO, scoperta e studio di pianeti extrasolari

La missione PLATO è una delle tre selezionate dall’ente spaziale europeo (ESA) per lo studio di fattibilità nell’ambito di un programma chiamato “ESA Cosmic Vision” 2015-2025. Lo scopo principale della missione è lo studio di sistemi planetari extrasolari tramite identificazione ed analisi dei “transiti” (il passaggio del pianeta davanti alla sua stella).

PLATO (PLanetary Transits and Oscillations of stars) è arrivata quasi all’esame finale. A metà dell’anno prossimo (giugno 2011) ci sarà infatti la scelta di due missioni da finanziare, in una rosa di tre, tra le quali c’è appunto anche PLATO. Il suo obiettivo è la completa caratterizzazione dei pianeti e delle loro stelle ospiti. Questo implica l’analisi sismica delle stelle attorno alle quali orbitano i pianeti. Tramite PLATO si confida di poter ottenere stime precise di età, massa e raggi delle stelle, che sono parametri importantissimi per ricavare le stesse quantità, questa volta per i pianeti.

Una delle idee portanti del progetto è che tutti i sistemi planetari che PLATO scoprirà potranno essere successivamente osservati da Terra e dalla spazio, con altri strumenti (ecco perché PLATO è stato pensato per rilevare solo le stelle più luminose, ma in un amplissimo arco di cielo). Questo, allo scopo di completare la caratterizzazione dei parametri delle orbite, e definire le proprietà fisico-chimiche dei pianeti e delle loro atmosfere.

PLATO è ideato per cercare pianeti attorno a stelle brillanti. In particolare l’attenzione del progetto è verso pianeti simili alla Terra, ovvero piccoli pianeti in orbite con durata paragonabile ad un anno attorno a stelle di tipo solare.

Una immagine di fantasia di un pianeta in transito davanti alla sua stella (Crediti: NASA, ESA and G. Bacon)

Tra i requisiti scientifici primari sono stati individuati  cinque “campioni” di stelle (al momento i cataloghi sono in corso di definizione), per un totale di più di 250.000 oggetti stellari. Il monitoraggio fotometrico è abbastanza lungo (si pensa superiore ai tre anni). Come già accennato, il campo di vista è molto ampio… anzi davvero enorme: superiore ai mille gradi quadrati (per un veloce confronto, si pensi solo che CoRoT copre appena quattro gradi quadrati, e Keplero arriva a circa cento). La copertura di cielo di PLATO è stimata attorno al 42%, davvero un punto di forza per la missione.

L’equipaggiamento osservativo è di tutto rispetto: abbiamo ben 34 camere a largo campo, divise in quattro set di otto camere ognuna. Ogni set punterà la stessa zona di cielo (per massimizzare il rapporto segnale/rumore); in più sono previste due camere “fast” che dovranno fornire informazioni di “colore” raccogliendo la luce in due diverse bande.

Interessante e innovativa (ed anche … rischiosa) l’idea di far svolgere una gran parte di attività di elaborazione dei dati direttamente a bordo della sonda. Questa è di fatto una necessità, perché altrimenti il flusso richiesto di dati verso terra sarebbe così elevato da risultare tecnicamente improponibile. Già così – tra scienza e informazioni di gestione della sonda – si prevede di dover gestire una vera valanga di dati (circa 110 Gbits al giorno)

Nel Progetto PLATO in Italia sono coinvolti numerosi istituti scientifici. Sono oltre quaranta i ricercatori (tra cui il sottoscritto…) coinvolti in questa prima fase del progetto. I maggiori contributi del team italiano si attendono su diversi aspetti: identificazione delle regioni di cielo dove puntare i telescopi, definizione dei cataloghi di oggetti stellari da far “digerire” a PLATO prima del lancio, stima delle capacità fotometriche delle camere,  studio dell’attività delle stelle indagate da PLATO, stime preventive del numero di pianeti extrasolari che PLATO potrebbe scoprire… insomma, ce ne è di roba da fare.. sperando che PLATO passi l’esame finale, a metà del prossimo anno.

Auguri PLATO! GruppoLocale seguirà da vicino il tuo percorso verso (speriamo) la realizzazione ed il lancio: a proposito, se tutto va bene, PLATO partirà nel 2018. Sembra lontano ma non lo è. I lavori fervono…

Maggiori informazioni e altri dettagli sul sito italiano di PLATO.

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Le sonde marziane ed il cloud computing…

Il team del progetto che ha costruito e che mantiene in opera le sonde Spirit ed Opportunity, è destinato a diventare, in NASA, il primo ad impiegare tecniche di “cloud computing” per la gestione delle missioni giornaliere delle sonde.

Tra gli addetti informatici se ne parla molto, negli ultimi tempi. Il cloud computing è un modo abbastanza nuovo per guadagnare in flessibilità nelle risorse di calcolo, “ordinando” capacità a seconda del bisogno – prelevando le risorse dalla “nuvola”, ovvero da server connessi tramite Internet, dei quali spesso non si conosce la locazione fisica o il numero – pagando solo per le risorse effettivamente utilizzate, evitando sprechi.

Il NASA Mars Exploration Rover Project ha adottato questa strategia la scorsa settimana, per il software ed i dati che il team utilizza per sviluppare le attività giornaliere dei due rover. John Callas, project manager, spiega: “Questo è un cambiamento del modo di pensare alle risorse dei computer e all’immagazzinamento dei dati, allo stesso modo a cui si pensa all’elettricità, oppure ai soldi nel conto in banca. Non devi tenerti tutti i soldi nel portafoglio. Piuttosto, quanto ti servono vai ad uno sportello bankomat e li prelevi. I tuoi soldi rimangono al sicuro, e la banca ne può tenere pochi o tanti, come preferisci tu. Per i dati va nello stesso modo: non ne hai bisogno di tutti quanti al medesimo tempo. Possono essere tranquillamente memorizzati da qualche altra parte, e li puoi ottenere in ogni momento tramite una connessione Internet. Quando abbiamo bisogno di maggiori risorse di calcolo, non è necessario istallare più server se possiamo prendere ‘in affitto’ la capacità necessaria per il tempo che ci serve. In questo modo non andiamo a sprecare elettricità o aria condizionata per dei server che aspettano di essere usati, nè abbiamo a preoccuparci riguardo l’obsolescienza di hardware e sistema operativo”.

Spirit ed Opportunity sono atterrati su Marte nel gennaio del 2004, per una missione la cui durata era stata prevista di appena tre mesi. Sappiamo bene come è andata, poi… Le estensioni della missione sono inaspettatamente continuate per più di sei anni! Opportunity è correntemente attiva, e questo richiede una pianificazione giornaliera da parte di un team di ingegneri del Jet Propulsion Laboratory, come pure di scienziati nel Nord America ed in Europa. Spirit è rimasta invece in silenzio dal marzo di quest’anno, e si pensa che sia in uno stato di ibernazione a basso consumo di energia per affrontare l’inverno di Marte.

Immagine artistica di un rover NASA in esplorazione di Marte. Crediti: NASA/JPL/Cornell University

Ai Jet Propulsion Laboratory fanno notare come il progetto dei rover sia perfetto per il cloud computing; difatti esso si appoggia su una comunità di utenti assai distribuita, che agiscono in maniera collaborativa. Il vantaggio del cloud computing allora è di poter fornire le risorse all’utente da posizioni a lui vicine, guadagnando sul tempo di interazione.

In più, il fatto che le missioni si siano rivelate così inaspettatamente longeve, ha comportato il fatto che il volume di dati impiegati ha superato abbondatemente i piani iniziali, il che rende particolarmente attraente la possibilità virtualmente illimitata del cloud computing stesso.

Ecco un’altra dimostrazione di una missione longeva che si giova, via via, del progredire della tecnica durante il suo (esteso) tempo di operatività. Potrebbe venirne in mente almeno un’altra assai nota… ok, chi ha pensato al Programma Voyager ?? 😉

NASA JPL Press Release

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Il Sole ruba l’aria di Marte? MAVEN indaga…

Il pianeta rosso sanguina… No, non sangue vero e proprio, ma la sua atmosfera, che si disperde progressivamente nello spazio. Il principale indiziato è proprio il nostro Sole, che starebbe utilizzando il suo stesso “respiro” – il vento solare -insieme alla sua radiazione, per derubare Marte della sua stessa aria. Il “crimine” è di una certa rilevanza, poiché potrebbe aver condannato la superficie stessa del pianeta, che un tempo appariva senz’altro promettente per la vita, ad una fredda e sterile sopravvivenza.

Alcune caretteristiche scoperte su Marte, come letti di fiume disseccati, od anche la scoperta di minerali che si formano in presenza di acqua, ci hanno fatto capire che un tempo Marte possedeva una atmosfera abbastanza consistente, ed era caldo abbastanza perché la sua superficie fosse gratificata dal fluire di acqua allo stato liquido.

Putroppo, in qualche modo, l’atmosfera spessa – che garantiva il perdurare di queste condizioni favorevoli alla vita – è stata dispersa nello spazio. Decisamente, niente è stata più come prima: Marte è rimasto freddo ed asciutto per miliardi di anni, con una atmosfera ormai molto sottile, mentre ogni traccia di acqua allo stato liquido veniva rapidamente dispersa nello spazio ad opera della radiazione ultravioletta del Sole che colpiva ormai indisturbata la superficie del pianeta.

Una visione "artistica" della sonda MAVEN, un investigatore di prestigio per l'enigma del furto dell'atmosfera marziana (Crediti: ASA/Goddard Space Flight Center)

Simili condizioni sono proibitive per ogni forma di vita che conosciamo, sebbene sia sempre possibile che la vita marziana, in caso, abbia deciso di “andare sottoterra”, dove l’acqua allo stato liquido ancora può esistere, e la radiazione solare non può arrivare.

Come accennato, il sospettato principale è il Sole, e l’arma del “delitto” sarebbe il vento solare. Tutti i pianeti nel nostro sistema sono continuamente bombardati da tale flussi di particelle cariche che si estende dalla superficie della nostra stella allo spazio circostante. Sulla Terra,il campo magnetico del nostro pianeta scherma efficacemente la nostra atmosfera, riuscendo a deviare lontano la maggior parte delle particelle: difatti il vento solare fatica ad attraversare i campi magnetici (essendo costituito da particelle cariche, queste vengono deviate dal campo magnetico su altre rotte).

Per quanto il meccanismo descritto appaia al momento come la causa più probabile per la dispersione dell’atmosfera marziana, vi sono però altre interpretazioni che attendono una verifica sul campo (ad esempio, il bombardamento intenso da parte di asteroidi potrebbe avere un ruolo non marginale nella dispersione dell’atmosfera). Questa sarà presto possibile attraverso la missione MAVEN, che esaminerà tutti i modi in cui Marte sta disperdendo la sua preziosa atmosfera, anzi ne potrà addirittura scoprire dei nuovi.

NASA Press Release

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La Solar Probe Plus, dentro la torrida atmosfera solare…

L’agenzia spaziale statunitense ha iniziato lo sviluppo per una prossima missione dedicate all’esplorazione del Sole, ad un livello di dettaglio finora mai raggiunto. Il progetto senza precenti, prende il nome di Solar Probe Plus, ed è destinato ad essere lanciato non prima del 2018.

La sonda in fase di ideazione, avrà la grandezza di una piccola automobile. La cosa interessante è che si tufferà nell’atmosfera solare, a poco più di sei milioni di chilometri dalla superficie della nostra stella. Da tale posizione “privilegiata” dovrà esplorare una regione che nessuna sonda ha mai potuto investigare. A tale scopo la NASA ha già selezionato cinque progetti scientifici che dovranno servire a svelare alcuni dei più grandi segreti che il nostro Sole ancora cela agli scienziati.

Un'immagine di fantasia della Solar Probe Plus, mentre raccoglie dati avvicinandosi "temerariamente" alla nostra stella.... (Crediti: JHU/APL)

Uno dei misteri più grandi che si spera di risolvere, è anche molto semplice a raccontarsi: gli astronomi non si spiegano ancora come mai l’atmosfera solare esterna appaia agli strumenti sensibilmente più calda della superficie visibile del Sole. Un’altra questione che aspetta di essere risolta ha a che vedere con i venti solari e con il meccanismo stesso della loro origine. Sono questioni  – come sottolinea Dick Fisher, direttore della divisione di Eliofisica dell’ente spaziale americano – che aspettano una soluzione da decenni. La missione Solar Probe Plus ha tutte le carte in regola per portare gli scienziati verso la definizione di un modello solare che spieghi questi “misteri”.

Come si può ben comprendere, l’ambiente nel quale la sonda è destinata ad operare sarà tutt’altro che “amichevole”: sebbene apparentemente ancora distante dalla superficie del Sole, infatti, la sonda dovrà vedersela con temperature superiori ai 1400 gradi centigradi, e con “sbuffi” assai intensi di radiazione solare.

Che dire, decisamente non è un posto da visitare con equipaggi a bordo…. !

NASA JPL Press Release

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LRO fotografa il sito di atterraggio dell’Apollo 12

Quattro anni dopo il successo della missione Apollo 11, la NASA varò la numero 12 delle missioni Apollo: era il lontano  12 novembre 1969. Esattamente 40 anni più tardi, il Lunar Reconnaissance Orbiter ha individuato e fotografato il sito di atterraggio.

Ragioni di sicurezza avevano dettato, per questa tra le primissime missioni lunari con uomini a bordo, un sito di atterraggio in posizione equatoriale, su una distesa di lava sufficientemente piatta: la scelta cadde allora su un sito prossimo a dove la sonda Surveyor 3, senza uomini a bordo, era atterrata due anni prima, nella parte ovest dell’ “Oceanus Procellarum”. Inoltre si sarebbe potuto prelevare delle parti della sonda ormai inattiva (per la precisione, fu attiva dal 20 aprile al 3 maggio del 1967) per portarla all’attenzione degli ingegneri delle missioni lunari, cosa che effettivamente venne fatta dagli astronauti.

Le immagini dalla sonda Lunar Reconnaissance Orbiter mostrano il luogo di atterraggio dell’Apollo 12. Sono anche visibili, nella stessa area, i siti di atterraggio delle sonde Intrepid lunar module descent stage, experiment package (ALSEP) e del Surveyor 3. Le impronte degli astronauti sono indicate con delle freccie bianche. L’immagine nel complesso è larga poco più di 800 metri.

Crediti: NASA/Goddard Space Flight Center/Arizona State University

Sappiamo bene che la missione fu un successo e si svolse senza problemi. In tutto, l’Apollo 12 riportò più di 32 kg di campioni lunari. Da questi preziosi campioni gli scienziati impararono che il cratere da impatto “Copernico” si fornò circa 810 milionidi anni fa; inoltre furono trovati ben quattro tipi differenti di basalto, di età molto diverse di quelle trovate dall’Apollo 11; altri campioni di roccia fecero comprendere ai ricercatori qualcosa della notevole complessità del suolo lunare, destinato ad essere ancora studiato nelle successive missioni Apollo.

Davvero, la missione fu – da tutti i punti di vista –  un successo incredibile…

NASA LRO Press Release

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