Balsami per l’autunno

Il cosmo e la poesia (X)

Dice Carlo Rovelli, già citato il mese scorso, che

Nulla ha esistenza in sé, tutto esiste solo in dipendenza da qualcosa d’altro, in relazione a qualcosa d’altro … le cose sono “vuote” nel senso che non hanno realtà autonoma, esistono a, in funzione di, rispetto a, dalla prospettiva di qualcosa d’altro.

Cosa mette in connessione stabile scienza e poesia? Le pone in condizione di mutua dipendenza, per dirla con Rovelli? Entrambe cercano di farci comprendere l’ambiente in cui viviamo, lo spazio che occupiamo. E rendercelo più abitabile. Tutto qui, se con ambiente intendiamo tanto quello esterno (lo spazio propriamente detto) quanto quello interno (sentimenti, emozioni). Le connessione tra i due spazi sono virtualmente innumerabili, tanto che secondo diverse correnti di pensiero, in realtà si tratta di un solo spazio: celebre la frase di Agostino, l’anima è in qualche modo, tutto.

Sostengo che la poesia esiste solo in funzione di qualcosa che gravita al suo esterno, così come la scienza. Ogni nuovo testo poetico, se riuscito, è anche e soprattutto una investigazione cosmologica. Ogni produzione poetica è anche un lavoro di ricerca, che estende e raffina le ricerche precedenti, smentisce alcune tesi, ne conferma altre.

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Da ogni punto di vista (ovvero, diventare panoramici)

In che senso possiamo sostenere che l’universo è elegante? Ed ancora, come possiamo accorgerci di questa eleganza, e che conseguenze può avere? Che conseguenze concrete – intendo – per la nostra esistenza su questo pianetino che ruota intorno ad una piccola stella situata nelle periferie di una enorme galassia a spirale?

Ottima conversazione nella serata, lo scorso lunedì, per la serie Io divulgo forte di Radio Incredibile con Andrea Cittadini Bellini e Valeria Tassotti. Siamo partiti dal rapporto tra scienza e fede ma presto il dialogo si è allargato ad altri temi e altre provocazioni. Alla fine, saremmo andati avanti per ore: l’affiatamento era perfetto e il dialogo scorreva senza intoppi.

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Quegli universi, ancora da gustare

Alla fine, cosa mette in connessione stabile scienza e poesia? Ritengo che sia molto semplice: come forse abbiamo già scoperto, percorrendo le varie tappe di questa rubrica.

Provo a dirlo in un modo sintetico. Entrambe cercano di farci comprendere l’ambiente in cui viviamo, lo spazio che occupiamo. E rendercelo più abitabile. Tutto qui, in fondo: certo, se con ambiente intendiamo tanto quello esterno (lo spazio propriamente detto) quanto quello interno (sentimenti, emozioni). Le connessione tra i due spazi sono virtualmente innumerabili (secondo diverse correnti di pensiero, in realtà si tratta di un solo spazio: celebre la frase di Agostino, l’anima è in qualche modo, tutto), e l’indagine appassionata in essi procede sempre nelle due direzioni, interna ed esterna. Altrimenti si lascia fuori qualcosa. Qualcosa altrimenti si spezza, e i frammenti dispersi, proiettati con violenza verso orbite irregolari, rendono tutto più opaco, più doloroso, meno trasparente. Inquinano lo spazio.

“La poesia apre nuovi universi”, immagine generata mediante Copilot Designer di Microsoft

Mantenere l’unità di tutto è essenziale, ormai non è più un optional. Oggi non basta la sola poesia, non serve la sola scienza. Sono zoppicanti, se pensate da sole. Serve cementare la loro profonda amicizia, urge anzi – pur bruciando le tappe – suggellare il loro matrimonio [Continua a leggere sul portale Edu INAF]

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Aprire un cammino

Tornato ieri a sera, dalla piccola tournée di due giorni, due incontri con tante persone, per raccontare le novità del cielo. Due incontri per declinare il titolo che mi era stato assegnato, suggestivo ed impegnativo al medesimo tempo: L’universo elegante mostra la sua danza di futuro.

Come per anni precedenti, ho raccolto l’invito cordiale di Gianluigi Nicola, presidente della Associazione Italiana Teihard de Chardin, a venire a raccontare, la sera di sabato 21 a Diano Marina e la mattina del 22 presso il Monastero di San Biagio, a Mondovì.

Sono state due occasioni per fare il punto sulle scoperte astronomiche degli ultimi cinque anni, comprendendo così come l’indagine del cielo – come il cielo stesso, del resto – è in fase di espansione accelerata, così che perfino durante gli anni del COVID si sono susseguite una serie di scoperte straordinarie, come di esplorazioni mai tentate prima.

In una manciatina di mesi, infatti, siamo andati a prender sassi sugli asteroidi, abbiamo lanciato nello spazio un telescopio gigante, abbiamo forse capito perché l’universo non si è azzerato subito dopo la sua nascita in un megascontro tra materia e antimateria, abbiamo indagato il sottosuolo di Marte ma ci abbiamo anche svolazzato sopra, con il primo drone planetario, abbiamo ascoltato il mormorio del tappeto di onde gravitazionali che pervade lo spazio, abbiamo trovato acido ribonucleico aggrappato stretto sopra un asteroide, abbiamo riallacciato i contatti con una sonda lontana ventiquattro miliardi di chilometri alla quale si era guastato il computer … e si potrebbe continuare. Ma avete compreso già.

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Subito e sempre, all’opera

Lo scriveva già Luigi Giussani negli anni Ottanta, nel celebre testo Il senso religioso (forse uno dei suoi testi più moderni, ancora leggibilissimo adesso):

L’atteggiamento scientifico – nel senso proprio del termine – già sappiamo che non potrà esaurire l’attenzione all’esperienza. Proprio per “esperienza” viviamo moduli e fenomeni che non si riducono all’ambito fisico-chimico.

C’è infatti un’idea di scienza, quel senso proprio appunto, che ormai avvertiamo subito come parziale. Perché appunto, non esaurisce l’attenzione all’esperienza. Da questa attenzione, credo, bisogna ripartire per recuperare l’umano, che è l’unica cosa che ancora – in questo clima pazzesco di distruzione e devastazione, in questo teatro di guerra planetaria – davvero l’unica cosa che ci può ancora interessare.

Ma attenzione. Qui l’unione di Terra e Cielo deve subito entrare in gioco, per non ricadere in ennesime parzialità. Qui la cosmologia interiore e quella esteriore devono unirsi, anzi si rende necessario intraprendere un percorso, dalla prima alla seconda (e ritorno). Attivare, riattivare, questo salutare ricircolo.

Perché tutta questa crudeltà planetaria che i telegiornali ci portano in casa ogni sera (nociva anche a subirla, tanto che sarebbe meglio spegnere e fare meditazione), si nutre del vecchio modello riduzionistico, e cresce sulla dimenticanza di Sè, della propria regalità.

Dice la pagina del convegno Scienza e Spiritualità – dalla quale già sto attingendo alcuni spunti – che si è appena tenuto a Prato, nella bella cornice del Monastero San Leonardo al Palco

Chiacchere e approfondimenti, nella pausa caffè…

L’essere umano, con i piedi ben piantati a terra, ha sempre alzato gli occhi verso il cielo, sia alla ricerca dei confini fisici dell’universo, sia alla ricerca di dimensioni altre. Ma qual è l’attuale visione scientifica del cosmo, dell’uomo e delle relazioni, anche simboliche, tra questi due universi? E quanto ci stiamo dimenticando di essere ponte tra Terra e Cielo, tra infinitamente piccolo e infinitamente grande?

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Come andrà a finire?

Spesso ce lo chiediamo, come andrà a finire? Domanda legittima in diverse circostanze: quando magari non intravediamo lo sviluppo di qualcosa che ci sta a cuore, quando vorremmo soltanto correre in avanti, quasi scavallando il tempo, nell’ansia incontenibile di sapere. Che poi le cose hanno un loro svolgimento, spesso si definiscono proprio nel tempo, così che non sempre è realmente produttiva questa fuga dal presente.

Tutto questo è – se possibile – ancora più vero anche quando intendiamo la domanda nel più ampio senso possibile, cioè riferendola al cosmo. Come andrà a finire il tutto? Che ne sarà, nel tempo, di questo nostro universo fisico? La ragione calcolante vuole risposte precise, pretende dati quantitativi, a volte ignorando che le risposte vengono solo passando attraverso delle fasi, impregnandosi con ciò di cui si sta trattando. Insomma, non è detto che la domanda sia sempre e comunque ben posta, anche se la curiosità è comprensibile e legittima.

Di tutto questo discorro con Gabriele Broglia, sempre sotto la attenta ed affettuosa guida tecnica e regista di Emanuele Giampà, nella sesta puntata della serie di Darsi Spazio, puntata che rappresenta anche la chiusura di stagione (e mai titolo potrebbe dunque essere più appropriato) per questo primo ciclo di conversazioni.

L’episodio si apre con una citazione di Federico Faggin (un post dal suo account X) ed una di Marco Guzzi (dal suo volume Dalla fine all’inizio) che ci aiutano ad imboccare (credo) il giusto sentiero, per arrivare poi a discutere delle varie (interessantissime) teorie della fine del cosmo, per come le possiamo delirare alla luce delle conoscenze attuali.

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Vivere per raccontarla (in terrazza)

Appena esco sulla terrazza dell’Istuto Comprensivo Fratelli Bandiera, mi rendo conto di essere sbucato in un nuovo universo. Ho capito. L’ascensore che mi ha portato al terzo piano deve essere in realtà una navicella che si tuffa una specie di wormhole, che sbuca appunto in questo spazio nuovo.

Più fresco, ampio, aerato. Decisamente più vivibile, rispetto al suolo.

Da qui ammiro Roma da una posizione speciale. La vedo dall’alto, indulgo con la vista sulle luci calde delle case, che si stagliano piacevolmente sull’azzurrino della sera: nel complesso, mi sento catapultato nel bel mezzo di qualcosa di silenziosamente grande. E sono immediatamente più sereno.

Già, la posizione geografica (latitudine, longitudine) dice poco o nulla, su come vivi un certo posto. Spesso l’altezza da terra cambia tutto. E ad ogni livello c’è un modo diverso di vivere lo spazio, l’ambiente. Ad esempio una piazza. Come qui, in Piazza Ruggero di Sicilia. Che è una piazza di Roma anche se Ruggero non lo era (chiaro). Ma sono sicuro, andrebbe ugualmente bene anche un vicolo di Roma, come cantava un grande Lucio, in una splendida canzone che si cuce bene al momento, La sera dei miracoli. Le sere d’estate a Roma hanno la loro magia speciale e Lucio, pur non essendo romano, se ne era ben accorto.

È la sera dei miracoli, fai attenzione
Qualcuno nei vicoli di Roma
Con la bocca fa a pezzi una canzone
È la sera dei cani che parlano tra di loro
Della luna che sta per cadere
E la gente corre nelle piazze per andare a vedere
Questa sera così dolce che si potrebbe bere
Da passare in centomila in uno stadio
Una sera così strana e profonda
Che lo dice anche la radio
Anzi, la manda in onda…

La Luna stavolta non sta per cadere ma, grande e bella, sembra sia serena in cielo lì dove stà, soddisfatta d’esser guardata. Questa terrazza, che poi fu del noto maestro di scuola Alberto Manzi, ci spiega la simpaticissima maestra Titti, è decisamente sbilanciata sul cielo. Alberto, celebre per la sua rubrica televisiva “Non è mai troppo tardi”, insegnò proprio in questa scuola dal 1954 al 1987.

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Un aperitivo… spaziale!

Per chi si trova in zona di Roma e avesse voglia di passare un mercoledì sera un poco diverso dal solito, vi aspetto presso la merenderia Meré (via Ridolfino Venuti 47) il 19 giugno dalle 19.30, per parlare di telescopi spaziali, puntini blu (indovinate…) ed oggetti lontanissimi (spoiler, le sonde Voyager).

Ma soprattutto, di come avesse ragione Alan Sorrenti il quale – nonostante qualche purista non gli riesca a perdonare di avere abbandonato la sperimentazione di Come un vecchio incensiere all’alba di un villaggio deserto – nella sua svolta easy pop, verso la fine degli anni Settanta enuncia (non ci è dato sapere se in maniera consapevole o meno) clamorose verità astronomiche nel testo del brano Figli delle Stelle.

Quindi sarà possibile ascoltare un astronomo che spiega queste cose (il sottoscritto, come potete immaginare) mentre – valore aggiunto di indubbio interesse – si potrà sorseggiare un aperitivo e mangiare qualcosa di contorno. Per informazioni e prenotazioni, potete contattare gli amici di Meré al numero riportato sul sito, o tramite Facebook ed Instagram.

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