Blog di Marco Castellani

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Il tempo della mela

Fin dall’inizio dell’avventura umana, la misura del tempo è stata fondamentale. Il tempo zero, l’istante dell’inizio dell’Universo, è sempre stato un punto privilegiato, luogo di accumulazione dell’interesse di ogni scienza ed ogni cultura, di ogni mito.

Per introdurmi ragionevolmente nell’argomento, faccio come si fa di solito, ovvero consulto wikipedia. La voce “tempo” è molto ricca, e tra l’altro recita:

La percezione del “tempo” è la presa di coscienza che la realtà di cui siamo parte si è materialmente modificata. Se osservo una formica che si muove, la diversità delle posizioni assunte, o se presto attenzione al susseguirsi dei miei pensieri o ai battiti del mio cuore, fatti fisiologici, e in ultima analisi, fisici, ciò certifica che è trascorso un “intervallo di tempo”. Si evidenzia “intervallo” a significare che il tempo è sempre una “durata” (unico sinonimo di tempo), ha un inizio e una fine.

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Capirete che è un tema in cui si può affondare ad libitum, perché è uno di quegli argomenti tanto proprio alla fisica come alla filosofia. In questo, il tempo segnala ciò che è tempo di comprendere, davvero: che non esiste una cultura “umanistica” contrapposta ad una cultura “scientifica”, ma sono semplicemente due approcci complementari, ambedue indispensabili. Anzi, sono uno. Parlare di “presa di coscienza” è legare il tempo alla profondità della cultura e del sentire umano, bel oltre il dato scientifico.

Purtroppo è accaduta una sorta di rottura di simmetria, che il compito della nostra epoca, dell’uomo del millennio appena iniziato, sarà di ricucire. Non con facili sincretismi, ma ideando un nuovo percorso, un cammino ancora inedito. Pazientemente, libera-mente, lavorando su sé stessi per poi intervenire efficace-mente sul contesto.

E’ che affondando nel tentativo di comprensione di cosa è il tempo che ci scontriamo, anche qui, con un sentimento di ultima impotenza (che mi pare un tratto squisitamente moderno), con una necessità di resa:

L’unico modo convincente di rispondere alla domanda “che cos’è il tempo” è forse quello operativo, dal punto di vista strettamente fisico-sperimentale: “il tempo è ciò che si misura con degli strumenti adatti”. Una analisi microscopica del problema tuttavia mostra come la definizione di orologio sia adatta solo a una trattazione macroscopica del problema e quindi non consenta di formulare una definizione corretta per le equazioni del moto di particelle descritte dalla meccanica quantistica.

Ed arriviamo facilmente al fatto che (permettetemi di metterla così)  il tempo esiste perché c’è l’Universo che lo giustifica,

in un certo senso l’intero Universo in evoluzione si può considerare il vero fondamento della definizione di tempo; si noti l’importanza essenziale della specifica “in evoluzione”, ossia in movimento vario, accelerato: senza movimento, senza variazione anche il tempo scompare!

Ma questo è davvero un tema enorme: affrontarlo prenderebbe una enorme quantità di tempo. Allora, per il momento vorrei volare più basso. Torniamo un attimo indietro: cosa si intende per “strumenti adatti” ?

Di orologi di diversa foggia sofisticazione ve ne sono infiniti, lo sappiamo. Vorrei adesso concentrarmi sull’ultimo arrivato: quello che dimostra il modo Apple di intendere il tempo, di misurarlo. L’Apple Watch è la declinazione del modo della mela, di come si può intendere un moderno sistema di misura del tempo. E’ il tempo della mela, dopo quel Tempo delle Mele dello scorso millennio, che fece sognare e commuovere moltissimi, tra noi non più giovanotti.

Che poi, essendo targato Apple (torno a parlare di mela al singolare), fa decinaia di altre cose, oltre che misurare il tempo. Cosa che peraltro dovrebbe fare assai bene, a leggere le specifiche: “mantiene uno scarto non superiore a 50 millesimi di secondo rispetto al tempo universale standard”.

Ma il punto non è la precisione. E nemmeno le diecimila cose che fa: ti controlla mentre fai attività fisica, mentre dormi (con chi dormi, forse…?), ti fa vedere le foto su Instagram, ti notifica email e messaggi Facebook, etc…

Il tempo, insomma, non sappiamo se sia relativo, ma certo – in questo modo – è relativizzato. E il tempo è così legato indissolubilmente al flusso erratico di notifiche e messaggi e allerte, di cui l’orologio (in questa moderna incarnazione) si fa  veicolo. Si può riprendere la frase di prima, traslandolo in versione più tecnologica, asserendo che “senza notifiche, il tempo scompare”.

Non so voi. Io sono attratto e spaventato allo stesso tempo. Attratto da cosa potrei fare con l’Apple Watch (il mio lato geek è letteralmente elettrizzato), spaventato del fatto che mi potrei così abituare ad avvertire le notifiche sulla pelle, tramite la discreta vibrazione dell’orologio, da non poterne più fare a meno. Da sviluppare una dipendenza.

Ma la cosa che mi preoccupa di più è un’altra. La dipendenza che mi terrorizza è quella dalla rete elettrica, non tanto da Internet. Fino a diciotto ore, dice. Anzi, per la precisione, dice fino a diciotto ore di autonomia. 

Sono esitante. Per adesso, l’orologio è l’unica cosa tecnologica che posso dimenticare di attaccare alla spina e ricaricare, ogni santa notte. Per ora.Ma il tempo passa. Gli orologi si aggiornano. E questi fanno appunto duecentomila cose.

Ma si scaricano.

E l’idea di arrivare a casa e attaccare tutto ai vari ricaricatori, non mi esalta.

Se poi vagassi nel deserto, in meno di un giorno si spegnerebbe tutto. Telefono, tablet, e ora perfino l’orologio. Tutto. Meno l’idea che a volte, troppa tecnologia – forse – non aiuta a vivere in maniera più umana. A viversi bene il tempo.

Forse.

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Celebrità… galattiche!

NGC 3185 si trova a circa 80 milioni di anni luce da noi, nella costellazione del Leone. Al centro della galassia c’è un nucleo compatto ma molto brillante, che ospita un buco nero di grande massa. Buchi neri di questa categoria possono avere masse anche pari a migliaia di volte quella del Sole.

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La galassia NGC 3185 (Crediti: ESO/Hubble & NASA)

NGC 3185 fa parte di un piccolo gruppo di appena quattro galassie, chiamato Hickson 44. Un’altra galassia che fa parte del gruppetto è NGC 3190. Come vedremo, è una galassia ben più famosa della sua compagna, per motivi che travalicano certamente l’ambito astronomico…

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La galassia NGC3190, vista da un telescopio (Crediti: ESO)

A prima vista forse il nome può non dirvi niente, ma se siete utenti Apple e se di recente vi è capitato di inizializzare un computer con la meletta, sicuramente vi siete trovati davanti ad uno sfondo azzurrino con una maestosa galassia che campeggia in primo piano: è lei, probabilmente la galassia più diffusa sui nostri schermi 🙂

La galassia NGC3190, vista da un computer Apple...

La galassia NGC3190, vista da un computer Apple…

La cosa interessante – che probabilmente molti ignorano – è che nel tempo abbiamo assistito ad un vero e proprio (silenzioso) “cambio di galassia”. Con OS X “Lion”, la galassia in effetti era quella di Andromeda (come hanno risposto alcuni lettori nel piccolo quiz che abbiamo lanciato stamattina sulla nostra pagina Facebook), dopodiché, all’uscita della successiva versione “Mountain Lion” la galassia è cambiata in NGC 3190. Peraltro, in questo caso, non è subito stato chiaro agli utenti di che galassia si trattasse: ci è voluto un po’ per scoprirlo 🙂

Per essere un po’ pignoli, in realtà la foto usata da Apple è alterata (come si può facilmente scoprire cercando un po’ su Internet): sono state aggiunte diverse stelle “finte” nelle zone più lontane dalla galassia, e – operazione ben più distruttiva! – sono state “eliminate” diverse piccole galassie nei dintorni di NGC 3190. Dunque una foto reale, sì. Ma anche un pochino di fantasia.

Che avreste fatto voi? Vi sareste accontentati di aggiungere una dominante blu, o sareste intervenuti su stelle e galassie come i grafici Apple?

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Cambridge, iPhone ed integrazione

Allora, in… splendida variazione ai miei convincimenti di nemmeno troppo tempo fa, ora vi sto per spiegare come mai mi trovo (abbastanza) bene con un iPhone. Certo potreste pensare che io non sia lo stesso che scrisse il post di circa un anno fa –  eppure lo sono (a parte l’età, naturalmente).

E’ che esistono delle altre considerazioni che pure si possono fare.
Una è appunto quella del software, della quale abbiamo già parlato. E’ vero che sia il market Android che quello iOS – i due più grandi – hanno tonnellate di software per tutte le esigenze, gratis e a pagamento. Però rimane vero che può accadere di non trovare quello che si cerca in un ambito, e trovarlo nell’altro.
Non ho fatto mai mistero del fatto che io appassionato di scrittura (non ne posso fare a meno) e come tale ho la mia brava scelta di applicazioni per registrare i miei pensieri e tradurli in sequenze di bit (quello che un tempo si faceva usando carta ed inchiostro). Nemmeno ho mai nascosto di essere insanamente innamorato di DayOne per tutto quanto riguarda la gestione del diario personale. Di DayOne mi ha colpito subito la (peraltro innegabile) eleganza. Con il tempo si è fatto sempre più ricco di caratteristiche invitanti (tag, foto, ricerca, etc), in modo tale che ormai mi è diventato praticamente indispensabile (e… no, non mi danno un euro quelli di DayOne, sfortunatamente).

Una stradina di Cambridge, verso sera…

Un’altra applicazione per scrivere che amo tanto – e che si trova sono in ambiente Apple – è Momonote. Deliziosa per archiviare citazioni, pensieri, estratti di testo da siti web, ordinandoli per tag.

Così, se ci penso, il fatto che DayOne e un’altra manciatina di app siano disponibile solo per sistemi iOS e OS X ha contribuito in maniera non irrilevante al mio “cedimento” verso iPhone 5. Cedimento consumatosi nel mese di novembre dello scorso anno, complice l’occasione del mio compleanno.

Mi si dirà, va bene, ma esistono miriadi di applicazioni analoghe anche per Android. Sì è vero. Ce ne sono a decinaia di applicazioni per scrivere. Ma una come DayOne io non l’ho ancora trovata (e sì che ho raspato abbastanza, dentro Google Play).

Così potrebbe anche darsi il caso opposto. Una applicazione Android che non trova analogo in iOS potrebbe essere lo stimolo per non prendersi un iPhone.

Ora un altro punto è l’integrazione. Pure questo ha avuto una grossa parte nella scelta. E l’ho apprezzata davvero molto la settimana scorsa, dove ho potuto gironzolare per Cambridge e Londra, improvvisandomi fotografo (nonostante il tempo da lupi) con il mio iPhone. Allora, la cosa bella era questa, scattare foto e foto durante il giorno, poi la sera arrivare al B&B (dove c’era il wifi), aspettare qualche minuto e … mettersi a riguardare le foto, ma non sullo striminzito schermo dello smartphone, bensì sul ben più esteso display dell’iPad. Senza dover trasferire nulla. Tutto avveniva senza alcun intervento “umano”: ottimo per chi – come me – è troppo pigro anche per muovere le foto da un apparecchio ad un altro.

Al di là del (minimo) impegno richiesto, è che proprio l’idea di caricare le foto su una pennetta e scaricarle su un computer ormai mi sembra obsoleta. La cosa simpatica è – semplicemente – aprire l’iPad, e trovarvi belle pronte da sfogliare, le foto fatte durante il giorno tramite iPhone (e … no, purtroppo nemmeno Apple mi dà un soldo per tutta questa pubblicità). Poi, anche, tornare a casa, aprire il MacBook… e trovarvi – anche lì – tutte le foto scattate durante la settimana.

Insomma, la morale è quella. Nella scelta di uno strumento tecnologico, ormai non si guarda troppo alle specifiche tecniche – viceversa, è il mondo (app, integrazioni, etc) che rende disponibile, a fare la differenza. Lo strumento non vale in sè ma come portale verso un dato universo di connessioni e interfacciamenti. Se l’iPhone avesse avuto una camera con risoluzione doppia ma non avesse potuto dialogare con gli altri miei dispositivi Apple, l’avrei tranquillamente lasciato al negozio (anche perché non è proprio che te lo regalino….).

Lo concedo. Avessi avuto un terminale Android, certo non ero completamente a terra. Potevo usare Google+ per mandare le foto su web, oppure Dropbox che fa una cosa molto simile. Sono sempre universi che a un certo livello si possono parlare. Eppure… non è proprio la stessa cosa. Eh sì,  perché comincio anche ad apprezzare la sensazione estetica di operare dentro un ambiente omogeneo e consistente, senza dover ricorrere applicazioni di terze parti. Per dire, avere la versione di iPhoto su ogni device, ed usare quella. 
Esagerazioni? Può darsi. Dite la vostra lasciando un commento al post. 

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Dalla tavoletta… all’universo

Senza voler eccedere nell’uso di paroloni, si può ben dire che l’avanzare rapido della tecnologia informatica si presta bene alla diffusione di contenuti di alta divulgazione, che prima magari erano appannaggio di pochi privilegiati. Davvero adesso non è difficile (magari masticando un pochino di inglese, ma non è poi tanto indispensabile) rimanere aggiornati sul progresso – praticamente quotidinao – delle nostra conoscenza dell’universo…

Siti web di aggiornamento, grazie al cielo (verrebbe giustamente da dire), ve ne sono ormai tantissimi, e di buon livello. Quelli di lingua inglese poi proprio non si contano, a partire dalla serie di pagine della NASA, veramente incredibili per qualità e frequenza di aggiornamento; in italiano una buona sorgente di informazione è MEDIA INAF, di cui più volte abbiamo riportato link e notizie anche qui su GruppoLocale (permettetemi soltanto di dire che quando GruppoLocale nacque, la situazione italiana era davvero molto meno sviluppata…)

L'universo dentro un Ipad... o almeno, le notizie ad esso relative!

Sulla scia della diffusione dei tablet sono sorte delle applicazioni che rendono ancora più interessante e piacevole la consultazione delle notizie provenienti dallo spazio. Una davvero eccellente, su cui vogliamo spendere qualche parola adesso, è quella per iPad/iPhone sviluppata dal sito portaltotheuniverse.org, di per se un eccellente punto di entrata per avere una panoramica (in inglese) sulle notizie più interessanti riguardanti lo spazio.

L’applicazione è scaricabile gratuitamente da iTunes. L’ho provata sul mio iPad, e devo dire che l’esperienza d’uso è molto interessante e gradevole.

L’applicazione organizza le notizie del sito in forma di giornale sfogliabile, con foto e titoli delle notizie in bella evidenza e tutto quanto si richiede dalla consultazione di una piacevole e colorata rivista. Chi ha esperienza di programmi per iPad può riconoscere qualcosa del paradigma concettuale che sta anche dietro ad applicazioni di successo come Flipboard o Zite, ad esempio.

Con la differenza, non trascurabile, che qui è l’universo che prende tutta la scena…. 🙂

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Siate affamati, siate folli…

Così Steve ci ha lasciato, dopo aver combattuto per anni la sua battaglia contro il terribile male. In questi momenti in rete si moltiplicano i commenti e le analisi di ogni tipo. Da chi lo delinea come un geniale comunicatore e un efficiente manager  di sé stesso e della sua azienda, a chi lo ricorda come un maestro di pensiero, quasi come un guru dei tempi moderni. Chi è Steve Jobs, e cosa ci lascia? Sono d’accordo con Licia Troisi (che tra le opposte tendenze, riesce a mio avviso ad essere felicemente equilibrata)  sul fatto che ora, innanzitutto, non pensiamo al venditore, pensiamo all’uomo. 

Più esplicito ancora, in questo senso, è il pezzo di Gigio Rancilio su Avvenire. Per quanti i-gadget posso avere in casa, quello che più mi colpisce di quest’uomo è il discorso che tenne a Stanford nel 2005 (visibile anche nel bel post di Antonio Spadaro su cyberteologia.it, che efficacemente mette in evidenza le possibili risonanze tra il discorso di Jobs e l’insegnamento di Ignazio di Loyola). 

Steve Jobs R.I.P.

Sicuramente Jobs è stato un creativo geniale, sicuramente il suo Think Different ci ha aiutati a sentirci “speciali” contornandoci dei suoi prodotti (che comunque funzionano, e spesso anche bene) dimenticandoci forse che sempre di marketing aziendale si tratta, di una azienda con luci ed ombre come molte altre. Coraggiosa e innovativa, sia pure, ma pienamente integrata nel sistema.
Tuttavia, quello che più mi colpisce non è quanto è riuscito a produrre, o cosa è riuscito a venderci, ma cosa ha cercato di trasmettere, soprattutto in quel famoso discorso. Un discorso “scomodo”, perché vero. Perché mette in campo quello che tutti cerchiamo di rimuovere (rovinandoci la vita), ovvero la certezza della morte. Sapere di dover morire (e non voler morire) secondo saggisti come Valerio Albisetti, è esattamente il centro da recuperare per dare senso alla nostra vita. E’ comprensibile: se sai che la vita non dura per sempre, ogni giorno, ogni minuto acquista più valore. Soprattutto, non sovrapponi una menzogna  alla realtà, non ti muovi come se vivessi per sempre ma sapendo che la tua vita su questa terra ha un arco finito.
Così esordisce Jobs “Ricordarsi che morirò presto è il più importante strumento che io abbia mai incontrato per fare le grandi scelte della vita”.  L’invito di Jobs a seguire il proprio cuore, la sua esortazione “dovete trovare quel che amate” è l’invito a guardare dentro di sé per scoprire la propria vocazione, quello a cui siamo stati chiamati, quello che ci dà  entusiasmo e passione, che dà colore alla vita, ai giorni. Assecondare la propria vocazione, “cedere” ad essa, fidarsi dei propri sogni. 
Siate affamati, siate folli per me vuol dire questo, non accontentatevi di niente di meno del cuore.
E’ un lavoro, da riprendere. Adesso più che mai. Grazie, Steve.

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